L’elezione del Presidente della Repubblica è tra gli appuntamenti più importanti per la vita dello Stato, ma anche un’eccitante “corsa al nome” cui non si sono certo sottratti negli anni i principali quotidiani nazionali. Ripercorriamo insieme i momenti precedenti alle elezioni dei nostri ex-presidenti, tra candidature predilette e di ripiego, votazioni, scrutini, favoriti in pectore con la vittoria in tasca caduti sotto i colpi dei franchi tiratori e commenti dei giornali.
1946 – Enrico De Nicola
L’indicazione della Democrazia Cristiana era chiara, il Capo provvisorio dello Stato sarebbe dovuto essere un esponente politico del Mezzogiorno, per cementare l’unità nel Paese duramente provata negli anni successivi all’armistizio. Per i socialcomunisti, invece, doveva essere piuttosto di provata fede repubblicana. Si disse che i socialisti avrebbero ben visto come candidato all’alta carica Benedetto Croce, ritenendolo il più grande filosofo europeo vivente. I democristiani non nascondevano le loro simpatie per Vittorio Emanuele Orlando, che godeva di altissimo prestigio internazionale, ma che per i socialcomunisti sarebbe risultata una candidatura filomonarchica.
De Nicola era per entrambe le fazioni la candidatura “di ripiego”. Lui stesso, il giorno prima delle votazioni che si sarebbero dovute tenere giovedì 27 giugno 1946, inviò un telegramma pregando la direzione democristiana di non insistere sul suo nome. Le votazioni furono quindi rinviate di un giorno. Ciononostante, De Nicola era campano d’origine, e proprio nella sua casa di Torre del Greco aveva accolto la notizia della sua elezione. Pertanto, rappresentava anch’egli un simbolo di unità per il Paese e un riferimento importante per una regione, la Campania, che manifestava ancora uno spirito filomonarchico (a Napoli i risultati del referendum istituzionale dettero la monarchia all’80%). Così al primo scrutinio De Nicola fu eletto capo provvisorio dello stato con 405 voti su 556. Ma sulla sua elezione pesava l’ombra di un episodio internazionale contemporaneo, ossia la questione della frontiera occidentale con la Francia. Il Corriere della Sera scriveva in proposito, nelle stesse colonne in cui si dava la notizia su De Nicola, di una protesta all’interno dell’Assemblea, allora il nucleo del Parlamento, unanime tra i partiti, circa all’umiliazione che gli italiani stavano vivendo all’ora nelle pretese territoriali dei francesi, in particolare sul monte Chaberton, la Valle Stretta e il Piccolo San Bernardo, poi cedute di fatto nel Trattato di Parigi del 1947.
1948 – Luigi Einaudi
Alle prime vere elezioni del Presidente della Repubblica, il candidato prediletto fu proprio De Nicola, cui fu chiesto immediatamente un bis. Ma De Nicola, con una lettera all’on. Pacciardi, allora Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, fece sapere di non essere disponibile a un reincarico: “Date le mie condizioni di salute, persisto nella mia decisione. Circa la successione, io mi astengo financo dal venire a Roma in questi giorni, dopo aver esaurito tutto il mio lavoro di ufficio, per evitare qualsiasi censura sulla gravissima incostituzionalità, in questo momento, di un mio intervento, in quanto che stabilirebbe un grave precedente che colui che abbandona il posto designi colui che deve sostituirlo”. Fece però anche trapelare di poter valutare un reincarico in caso di elezione all’unanimità. Per molti, questa disponibilità fu la chiara conferma della volontà di ritirarsi definitivamente. Iniziarono febbrilmente a circolare nuovi nomi. Il primo fu quello del Ministro degli Esteri conte Carlo Sforza, tesserato PRI, che poteva contare sulla certa maggioranza assoluta dei voti (democristiani, socialisti autonomisti e repubblicani), mentre osteggiata a sinistra era la candidatura del liberale Einaudi, ma meno timida la possibilità di appoggio al collega liberale Casati.
Al primo scrutinio del 10 maggio, dopo le elezioni alle presidenze di Camera e Senato di Gronchi e Bonomi, De Nicola prese 396 voti e Sforza 353, una manciata di voti a Einaudi, 2 voti “dispersi”. Uno di questi andò a Nilde Jotti, che fu così accolto dal Corriere della Sera: “un singolare voto designa il nome della deputatessa comunista on. Jotti, e il Presidente ne dà lettura a bassa voce, sfuggendo su quella manifestazione di poca serietà di uno sconosciuto votante”. Non sappiamo perché quel “singolare voto” fu commentato in questo modo, se perché dato a una donna o più semplicemente a una ineleggibile ventottenne. L’altro fu dato a De Gasperi, sottolineato da sorridenti commenti. Le votazioni si svolsero nel clima teso della contrapposizione tra democristiani e comunisti. Un esponente monarchico si alzò in piedi dichiarando di non voler partecipare alla votazione, stracciando la scheda elettorale e venendo prontamente ripreso dal presidente dell’assemblea. Alle successive votazioni, non trovando Sforza la maggioranza, essendo in particolare la sinistra DC guidata da Dossetti, si virò su Einaudi che al quarto scrutinio fu eletto con 518 voti su 871.
1955 – Giovanni Gronchi
Le elezioni degli anni ‘50 si tennero nei giorni del decennale della fine della Seconda guerra mondiale ed avvenne con la fine ufficiale dell’occupazione militare alleata in Germania, con la dichiarazione di sovranità della Germania Ovest e il suo ingresso nella NATO. La candidatura più forte fu quella del senatore Merzagora, offertagli da Fanfani per la DC.
“Ritengo di non potermi esimere dal dare il mio contributo alla costituzione di una maggioranza necessaria per risolvere questo fondamentale problema della vita democratica italiana”, disse Merzagora alludendo alle difficoltà di costituire un governo stabile a seguito delle ultime politiche. Il primo pensiero fu però ancora una volta la ricandidatura del presidente in carica, Einaudi. Altro “papabile” il presidente della Camera Gronchi, uno dei fondatori del Partito Popolare Italiano prima e della Democrazia Cristiana poi, appartenete alla ala sinistra del partito. Al primo scrutinio però a sorpresa prevalse il repubblicano Ferruccio Parri con 308 voti, ottanta più di Merzagora, per la riconferma di meno della precedente, 225 contro 228, Gronchi passò da 30 a 127. Centocinquanta franchi tiratori furono contati tra i democristiani. Al terzo scrutinio Gronchi ottenne 281 voti, al quarto – dopo il ritiro di Merzagora – fu eletto Presidente con 658 voti su 853.
I giornali dell’epoca riportano un fatto singolare: essendo presidente della Camera, Gronchi leggeva ad alta voce le schede. Nel momento in cui il suo nome raggiunse il quorum necessario, la voce si ruppe, esitando, per poi continuare la lettura dei nomi con un tono che mal celava la tensione. Così, chiese all’allora Vicepresidente della Camera Giovanni Leone di procedere nello scrutinio e proclamare egli stesso il risultato.
1962 – Antonio Segni
Per le elezioni del 1962 il candidato di partito della DC era Segni, su indicazione del segretario Aldo Moro, designato in una apposita votazione all’interno del gruppo parlamentare democristiano. Ci vollero però ben 9 scrutini per eleggerlo Presidente.
Nei primi scrutini, molti voti andarono al comunista Terracini e ai socialisti Pertini e Saragat. Fu proprio il nome di Saragat a farsi strada ai successivi scrutini, arrivando a tallonare l’ipotesi di un Gronchi-bis con una manciata di suffragi, superando entrambi i 300 voti. Il Corriere titolava “Dalle feritoie di Montecitorio sparano i franchi tiratori”. Gli scrutini si seguirono in un vero e proprio testa a testa dove nessuno schieramento voleva cedere all’altro. La spuntò Segni con 443 voti su 854. L’elezione di Segni è ricordata con una certa macchia: è stata la prima con una maggioranza così bassa e la prima in cui il contributo decisivo venne dato dai voti delle fazioni monarchiche e di destra dell’MSI. L’ultima votazione è stata poi indicata come frutto di un broglio elettorale manovrato dalla fazione di Scelba e Andreotti.
1964 – Giuseppe Saragat
Dopo le dimissioni di Segni per ragioni di salute dopo due anni di mandato, ci fu l’interregno di reggenza di Merzagora in qualità di presidente del Senato quale capo dello stato “supplente”. A questo punto la parola fu nuovamente data al parlamento nel dicembre 1964. Chi avrebbe pensato che a quel punto ci sarebbe stata una comoda affermazione di Saragat, dopo il testa a testa di due anni prima, sarebbe rimasto deluso. Inizialmente lo scontro fu tra il candidato ufficiale della DC, Giovanni Leone e Terracini, che si contesero la maggior parte dei suffragi per numerosissimi scrutini. Ben presto emerse però anche la candidatura alternativa del DC Fanfani. Si vagheggiarono nuovamente le candidature di Merzagora, perenne candidato, poi De Marsanich, del sindacalista Pastore, qualche voto lo raccolse persino Scelba. Dopo il ritiro di Leone e Terracini, si impose il nome di Nenni fino al ventesimo scrutino. Ritiratosi Nenni, la stragrande maggioranza dei voti virò su Saragat, eletto nuovo presidente della Repubblica.
1971 – Giovanni Leone
Le elezioni del 1971 portarono con sé una ventata di novità nella macchina statale. In primis, per la prima volta parteciparono anche i rappresentanti dei consigli regionali delle Regioni a statuto ordinario. In secundis, venne posta la questione della segretezza del voto, caldeggiata dalla Democrazia Cristiana in quella che fu l’epoca della partitocrazia, ossia quel fenomeno politico caratterizzato dalla presenza di oligarchie partitiche, in primis la DC, che avevano monopolizzato la vita dello Stato e il suo funzionamento. Infine, la segretezza del voto venne istituita con fermo richiamo del presidente della Camera Pertini. La DC presentò come candidato Amintore Fanfani, mentre comunisti e socialisti optarono per un candidato unico nella persona di De Martino. I socialdemocratici sostennero il presidente uscente Saragat, mentre vennero presentati nuovamente De Marsanish dall’MSI e Malagodi dai liberali.
Fu solo al ventitreesimo scrutinio che il nome del presidente uscì, dopo una lunga e combattuta battaglia. Il primo scrutinio vide De Martino in testa con 397 voti, seguito da Fanfani con 384, che abbandonò la partita al sesto scrutinio. Saragat ottenne soltanto 45 voti. All’undicesimo scrutinio si creò una situazione di stallo che innervosì i votanti, e dalla quale se ne venne a capo soltanto 10 turni dopo, al ventunesimo, quando le fazioni della DC si decisero per Giovanni Leone (le correnti per poco non preferirono come candidato Aldo Moro; la storia della Repubblica sarebbe stata abbastanza diversa). Questi, tuttavia, non fu immune all’azione dei franchi tiratori: al 22º scrutinio, infatti, mancò l’elezione per un solo voto, 503 contro i 504 del quorum richiesto. Leone fu comunque eletto capo dello Stato il 24 dicembre con 518 voti su 1008 parlamentari, contro i 408 di Nenni. Ciononostante, si registrò un elevato numero di schede bianche (46, presumibilmente da parte di franchi tiratori DC).
1978 – Sandro Pertini
L’elezione del 1978 fu più articolata della precedente, raggiungendo sedici scrutini prima di decretare il vincitore. Non che l’inizio fosse stato certo dei migliori: il presidente uscente Leone venne bollato diffamatoriamente dalla stampa come coinvolto nello scandalo della Lockheed Corporate, che riguardava l’acquisto di velivoli USA da parte dello Stato italiano a seguito di tangenti offerte a politici e militari, e così costretto alle dimissioni.
A sfidarsi sul ring della Repubblica erano Guido Gonella per la DC, Pietro Nenni per il PSI e Giorgio Amendola per il PCI. Al quarto scrutinio soltanto Amendola raggiunge i voti necessari, ma ecco che il segretario socialista Bettino Craxi propone nuovamente Pertini alla DC, e le carte in tavola cambiano. Dovranno passare ancora quindici scrutini andati a vuoto, di cui dodici con la maggioranza dei parlamentari che si astengono o votano scheda bianca, prima che la pressione dell’opinione pubblica e il trascinarsi della vicenda portino finalmente alla conversione su Pertini. Questi venne eletto l’8 luglio 1978 con 832 voti su 995, oltre l’85% del totale e dunque la più larga maggioranza nella storia della Repubblica. I giornali e l’opinione pubblica accolsero a gran voce questa nuova figura a capo dello Stato: Pertini era rispettato da tutti i partiti politici, aveva militato tra le file dell’antifascismo ottenendo la medaglia d’oro della Resistenza quindi moltissimi cittadini potevano identificarsi nei suoi trascorsi, inoltre l’età avanzata di ben 82 anni gli conferiva un certo prestigio e una certa aura di saggezza, che certo servivano all’Italia nei burrascosi anni ‘70.
1985 – Francesco Cossiga
La primavera del 1985, che in giugno avrebbe portato all’elezione di Cossiga quale nono Presidente della Repubblica, fu particolarmente calda tra le poltrone di Palazzo Montecitorio. Riunito il Parlamento in seduta comune, il segretario della DC, De Mita, cercò un accordo con gli avversari del PCI, trovando punto comune nella figura di Cossiga, accettato anche dai socialisti. Grazie a questa mossa, l’elezione si risolse in uno scrutinio unico, dove Cossiga vinse con 752 voti su 977. Sebbene nessuno dei suoi avversari abbia superato i 16 voti totali, a concorrere c’erano figure politiche di spicco, come Pertini che raccolse 12 voti, Andreotti che ne ottenne 3 quanti Norberto Bobbio, il noto filosofo e giurista. Apparvero quindi nomi nuovi, tra cui Marco Pannella, che raccolse 2 voti. Le schede bianche, anche questa volta, furono notevoli: 141.
1992 – Oscar Luigi Scalfaro
Tra le elezioni più complesse e infuocate si ricorda quella del 1992, che coincidono con il tramonto della Democrazia Cristiana, la strage di Capaci e gli scandali di Mani Pulite, o Tangentopoli, la gigantesca inchiesta nazionale che rivelò una lunga serie di atti illeciti e pratiche consolidate nel tempo implicate negli affari dello Stato, tra cui ingerenze di stampo mafioso, ma non solo. Le elezioni del Capo dello Stato furono intrinsecamente legate agli esiti delle elezioni politiche avvenute in aprile, che segnano il ridimensionamento dei partiti tradizionali come DC, PSI, PRI, l’ascesa di partiti nuovi come la Lega Nord e la scissione, o frammentazione totale, del PCI in numerose componenti a scimmiottare i valori originari dell’antico partito. Era questa la fine della Prima Repubblica, e il presidente chiamato a guidare l’Italia nel nuovo percorso fu Scalfaro, non senza un’accesa lotta ai voti. Nel corso dei ventisei scrutini che servirono per raggiungere la nomina definitiva, la DC designò diversi candidati, tra cui vecchi nomi di fiducia come Forlani, Andreotti e Cossiga, e nuovi candidati come De Giuseppe, Martinazzoli, Anselmi, Colombo e Scalfaro, tutti pezzi del frammentato puzzle che era la DC, dilaniata dalle contrapposizioni tra le fazioni intestine. Il PDS restò fedele al nome di Nilde Iotti, in testa al quarto, settimo, ottavo, per poi optare per diverse proposte tra cui Barbera, Lama, Ingrao. Il PSI puntò prima su Miglio e Bobbio, poi su Vassalli, Amato, lo stesso Craxi e una lunga lista di pedine che si alternarono senza raggiungere il podio. Tra i nomi, su proposta di Fini dalle file dell’MSI spuntò persino Paolo Borsellino, il noto magistrato che raccolse 47 preferenze all’undicesimo scrutino, piazzandosi in quarta posizione. Ma il 23 maggio, la notizia della strage di Capaci sembra riportare all’ordine l’aula di Montecitorio. Il piano di far emergere la candidatura di Andreotti dopo aver affossato tutte le altre diviene impossibile. Le forze politiche trovano così un accordo sull’elezione del presidente della Camera Scalfaro, che al 16º scrutinio viene eletto con 672 voti su 1002.
1999 – Carlo Azeglio Ciampi
Siamo sulla soglia del nuovo secolo, anzi, del nuovo millennio: le file della politica italiana hanno riossigenato i propri esponenti, e a capo delle due ale in cui si divide il Parlamento ci sono Silvio Berlusconi per il centro-destra e Massimo D’Alema per il centro-sinistra. I due si accordano per candidare l’allora Ministro del Tesoro Ciampi, che compete con il candidato della Lega Luciano Gasperini e quello di Rifondazione Comunista Pietro Ingrao. Ciampi ha la meglio con 707 voti su 1010, e viene ricordato per essere stata l’opzione più “rassicurante” per l’Unione Europea, sempre più presente negli interessi italiani. Ciampi aveva infatti la fama di essere un moderato, non era mai stato tesserato formalmente in un partito né aveva ricoperto l’incarico di parlamentare. Era un tecnico, l’ideale per assistere l’Italia nel passaggio all’euro e per garantire un certo ordine negli affari di stato dopo gli scandali di Tangentopoli. Dalla camera del Tesoro, Ciampi seguì l’andamento delle elezioni con l’allora direttore generale Mario Draghi.
2006 – Giorgio Napolitano
Anche in questa tornata elettorale, l’andamento delle votazioni è influenzato da quanto stava succedendo al governo. La XIV legislatura aveva visto come protagonisti i governi Berlusconi II e III, entrambi caduti prima del tempo, sebbene il Berlusconi II sia stato il governo più longevo della storia della Repubblica italiana, con 3 anni e 10 mesi di durata. Dunque, suddetta legislatura era finita in anticipo, nel 2006, pertanto secondo l’art. 85 della Costituzione italiana: “Se le Camere sono sciolte, o manca meno di tre mesi alla loro cessazione, (la convocazione) ha luogo entro quindici giorni dalla riunione delle Camere nuove. Nel frattempo sono prorogati i poteri del Presidente in carica”.
La XV legislatura si sarebbe insediata il 28 aprile, così il 2 maggio l’allora presidente della Camera dei deputati Fausto Bertinotti fissava la prima votazione all’8 maggio. La rielezione di Ciampi fu una soluzione condivisa da diverse forze partitiche, tra cui Alleanza Nazionale, UDC, i Verdi e i Democratici di Sinistra. Tuttavia, Ciampi aveva ormai 82 anni, e non desiderava ripetere il mandato settennale. Cossiga aveva proposto il senatore Marini come soluzione che trovava il consenso sia del centro-destra che del centro-sinistra. Ma Marini solo pochi giorni prima aveva lottato strenuamente per la presidenza del Senato, in un testa a testa con Andreotti che aveva visto tre agguerritissime tornate elettorali in cui Marini ha ottenuto 162 voti, contro i 155 di Andreotti.
Il fronte comune puntò quindi su Amato, per poi spaccarsi: il centro-destra propose D’Alema, Casini e Berlusconi, il centro-sinistra fece i nomi di Mario Monti e Landini. Tra le donne spiccarono i nomi di Iotti, Anselmi, Bindi, e persino la principessa Maria Gabriella di Savoia, terza figlia del re Umberto II di Savoia, ma nessuna di loro superò i 4 voti. Infine, l’Unione propose Giorgio Napolitano, che al primo scrutinio raccolse soltanto 8 voti. Soltanto al quarto e ultimo scrutinio ebbe la meglio, con 543 voti su 1009, soglia piuttosto bassa. Tra i candidati vi furono anche gli outsider della politica, come Gino Strada, Bruno Vespa, Oriana Fallaci e Stefano Rodotà, che restarono sotto la soglia dei 5 voti. L’elezione di Napolitano fu accolta come il trionfo della sinistra sul centro-destra in calo nei sondaggi per una insodisfazione diffusa verso i risultati dei due mandati berlusconiani, di fatto Repubblica sentenziò l’elezione come l’inizio del “secolo nuovo della sinistra”, mentre Il Giornale commentava nel titolo: “Sul colle sventola la bandiera rossa”, proponendo una vignetta raffigurante una bandiera con falce e martello sventolare sul Quirinale.
2013 – Giorgio Napolitano bis
Le elezioni del 2013 furono indette tra il 18 e il 20 di aprile, per un totale di sei scrutini che si susseguirono nei tre giorni. Ci troviamo in anni particolarmente sensibili per l’Italia e il resto del mondo: nel 2011 era scoppiata la guerra in Siria, quella in Iraq era finita sì nello stesso anno, ma trascinandosi dietro una serie di esternalità. Infine, l’Italia veniva toccata da vicino dagli effetti della Primavera araba che avrebbero portato la destabilizzazione della Libia. Tutto questo sullo sfondo della crisi economica galoppante nel nostro Paese.
Le principali forze politiche optarono dunque per un Napolitano bis, un punto stabile. Tuttavia, sulla scia di Ciampi, Napolitano in un primo momento rifiutò la proposta. Il Movimento Cinque Stelle, alla sua prima esperienza, propose una rosa di candidati tra cui la giornalista Milena Gabanelli e Gino Strada, che rinunciano alla gara elettorale sicuri di non trovare i voti necessari. Il PD, nel scegliere il proprio candidato, rivelò ancora una volta le sue lotte intestine. Oggetto della discordia fu Marini. Scelta Civica e PdL approvavano Marini assieme alla maggioranza del PD guidata da Bersani, ma questo alimentava il parere contrario dei renziani, che patteggiavano per Rodotà e per l’ex sindaco di Torino Sergio Chiamparino. Al primo scrutinio, i voti per Marini furono 521 su 1007: era in testa, seguito proprio da Rodotà, con 240 voti, meno della metà del primo classificato, e Chiamparino con 41 punti. In gara anche Prodi, Emma Bonino, Anna Finocchiaro e Mario Monti, espressione delle divergenze di vedute interne ai rispettivi partiti.
I voti di Marini gli sarebbero valsi la vittoria al quarto scrutinio, ma al secondo scrutinio ne ottenne solo 15, al quinto 2, e consapevole del fatto che non avrebbe raggiunto la soglia a causa delle divisioni nel centro-sinistra, si ritirò. La maggioranza del PD, assieme a una componente del PdL e della Lega Nord reagirono intimando di votare scheda bianca al prossimo turno. In effetti, il quarto scrutinio è il più acceso. Il PD lancia in accordo con SEL la figura di Prodi, osteggiata dai grillini, che puntano ancora su Rodotà, e dal centro-destra, che si astiene. Prodi ottiene soltanto 395 voti, prendendo atto della presenza di almeno 100 franchi tiratori tra le file del centro-sinistra: è il caos. Prodi ritira la propria disponibilità, Rosy Bindi si dimette dall’incarico di presidente del PD e Bersani da quello di segretario. I quotidiani descrivono a chiare lettere la situazione di crisi e di stallo tra i parlamentari, ma anche l’agitazione e lo sdegno dell’opinione pubblica. Ci sarà, a questo punto, una riunione a porte chiuse tra i leader dei principali partiti, che farà seguito alla richiesta, da un ampio schieramento parlamentare, della rielezione di Napolitano. Il presidente uscente decide di accettare la ricandidatura: viene pertanto eletto alla sesta votazione, ricevendo consensi da parte di tutta l’assemblea con 738 voti su 1007, ad eccezione di M5S, SEL e FI.
2015 – Sergio Mattarella
Il mandato del presidente uscente Napolitano sarebbe dovuto terminare ad aprile 2020, quando il presidente avrebbe compiuto 95 anni, ma le condizioni di salute incerte (o forse era soltanto stanco di barcamenarsi tra un centro-sinistra diviso e un centro-destra polemico) lo indussero a rassegnare le dimissioni il 14 gennaio 2015. Questa data fu scelta da Napolitano in vista del termine del semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea, in modo tale che le forze politiche potessero concentrare le loro attenzioni sul tema del Capo dello Stato. Mentre i partiti preparano i loro candidati, il senatore Grasso fa le veci del presidente uscente. Il 29 di gennaio il Parlamento venne riunito in seduta comune, e fioccarono i candidati che fino ad allora erano stati solo voci incerte sui giornali: i pentastellati puntano sull’ex magistrato Imposimato, corolla di una rosa di 9 candidati annunciati sul blog di Grillo: Prodi e Bersani tra i politici, Raffaele Cantone, Nino Di Matteo, Elio Lannutti, Paolo Maddalena, Salvatore Settis e Gustavo Zagrebelsky tra gli outsider. Tutti nomi che irritavano la componente maggioritaria del PD, a guida Renzi. Quest’ultimo propose quindi un incontro con le delegazioni di tutti i partiti, ad eccezione dei M5S. Da questo confronto non esce un nome ma un’intenzione comune: nei primi tre scrutini, dove per la nomina è richiesta una maggioranza dei due terzi dei 1009 membri dell’Assemblea, i parlamentari lasceranno le schede bianche, ad eccezione di Lega e Fratelli d’Italia che candidano Vittorio Feltri. Proprio tra Feltri e Impositato si svolse la gara ai primi tre scrutini, ma altro non fu che una farsa.
Tra i nomi dei voti dispersi figurano anche quelli di Sabrina Ferilli, Barbara D’Urso, Enzo Iacchetti e Santo Versace. Presenti anche Bonino, Prodi, Rodotà e Casini. Come preannunciato, le schede bianche sono oltre 500 per ognuno dei tre appuntamenti. Giunti alla sera precedente al quarto scrutinio, Renzi fa il nome di Sergio Mattarella, ex ministro della Difesa e giudice della Corte costituzionale. Il centro-sinistra appoggia la scelta: con 665 voti su 1009 Mattarella vince.
2022 – chi sarà il prossimo?
Il 24 gennaio è la data fissata per la prima votazione del nuovo incaricato di sostituire il presidente uscente Mattarella. I candidati di punta sono due: l’attuale premier Mario Draghi e un bis di Mattarella. Il primo non ha lasciato trapelare nulla circa la sua candidatura, mentre il secondo ha categoricamente rifiutato la possibilità, pena l’età e, come nel caso di Napolitano, la mancanza di volontà nel dimenarsi ancora una volta a districare gli intrighi dei partiti. Il candidato più divisivo, proposto da una parte di FdI e del centro-destra, è Berlusconi, ben lontano dai voti necessari. Tra le donne spiccano i nomi di Marta Cartabia, Elisabetta Casellati, Paola Severino e Letizia Moratti.
Infine, nomi già sentiti sono quelli di Amato, che al momento raggiungerebbe il maggior numero di voti grazie al favore del centro-sinistra, Prodi, Bersani e Casini. Tra gli outsider di rilievo spuntano i costituzionalisti Gustavo Zagrebelsky e Sabino Cassese, i magistrati Nicola Gratteri e Nino di Matteo, poi ancora la senatrice Liliana Segre sino ad arrivare allo scrittore Corrado Augias.
Non possiamo predire l’esito delle elezioni ma certo possiamo tirare le somme di quanto appreso dalla storia delle precedenti elezioni: il vero favorito spunta all’ultimo, solo dopo che le scaramucce dei politici si siano trasformate in faide e quindi consumatesi a scapito dei primi in lista.
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