La rivoluzione siciliana del ’48 che diede avvio al Quarantotto per antonomasia produsse uno stato destinato a vita breve, ma allo stesso tempo a un testo costituzionale liberale e moderno. Molte delle sue leggi all’avanguardia tuttavia provenivano da un documento più antico, del 1812. Tra queste leggi, l’obbligo vaccinale per i propri figli, pena l’esclusione dalla vita politica della comunità.
Il 12 gennaio 1848 Palermo insorse contro i Borboni di Napoli, nella quarta e ultima tappa dei moti siciliani che tra l’inizio del secolo e il 1849 infuocarono le piazze di tutte le grandi città sicule. Fu proprio la rivoluzione siciliana che diede il “la” alla grande ondata di rivolte che nel 1848 scoppiò in tutta Europa, inaugurando quella stagione che passò alla storia come primavera dei popoli.
Il casus belli dell’inizio delle proteste fu la decisione del re Ferdinando I di Borbone di unire formalmente i due territori del Regno di Napoli e del Regno di Sicilia nel 1816, regni che sin dal 1735 erano sì governati dalla casata dei Borbone ma avevano mantenuto ordinamenti e istituzioni autonome. Inoltre, l’anno precedente durante il Congresso di Vienna lo stesso sovrano aveva abolito un documento fondamentale per i siciliani: una costituzione all’avanguardia per i tempi, d’ispirazione liberale e parlamentare, promulgata nel 1812 per placare il popolo anelante di diritti e autodeterminazione dopo le rivolte napoleoniche.
I moti del 1848 furono particolarmente violenti: mostravano infatti tutta la disperazione e il desiderio di rivalsa non solo della classe popolare ma anche della borghesia in ascesa, che già nel 1820-21 e nel 1837 si erano sollevate contro la morsa dei Borbone ma erano stati ben presto repressi. Deludente il risultato, per una parte dei contemporanei e degli storici, strabiliante e fondamentale il prodotto, per la restante fetta di osservatori e analisti.
Dopo il ’48 la Sicilia divenne infatti uno stato costituzionale, autonomo, eleggendo come suo re Ferdinando Alberto Amedeo di Savoia. Ma il nuovo Regno durò solo per poco più di un anno, prima di ritornare in mano borbonica.
Eppure, il nuovo stato produsse un documento di vitale importanza per le costituzioni liberali e democratiche che gli sarebbero succedute nel corso della storia: lo Statuto fondamentale del Regno di Sicilia. Votata dal Parlamento di Sicilia e quindi non ottriata da un sovrano, la carta fu un innovativo testo costituzionale che rispondeva alle esigenze socio-politiche del tempo e che seppe ispirare anche l’attuale Costituzione della Repubblica Italiana.
Lo Statuto affrontava la questione dell’accesso dei non-nobili alla vita politica della regione e dunque dell’ascesa della classe borghese, ma anche la garanzia dei diritti fondamentali a tutti gli individui. I principi erano tessuti con sapienza, intrecciando ad antichi principi locali gli istituti del parlamentarismo inglese. Assistiamo, in primis, alla separazione dei tre poteri: legislativo in capo al Parlamento, esecutivo in capo al Re, giudiziario nelle mani di magistrati e giudici chiamati ad agire sulle orme della legge. Viene fissata la religione di stato, quella cattolica, e viene abolito il feudalesimo.
Allo stesso modo, nel testo costituzionale è presente il Titolo VI: DE’ SICILIANI E DE’ LORO DIRITTI, dove sono elencate misure che potremmo riconoscere anche nella nostra attuale costituzione italiana, e in quella di moltissimi altri stati nel mondo. Si garantisce infatti a ogni cittadino di Sicilia il rispetto dei diritti inviolabili: la libertà personale, la proprietà privata, il diritto alla cittadinanza, l’inviolabilità del domicilio, il diritto a un equo e legale processo e così via. Si garantiscono anche i diritti politici dei cittadini, ma a patto che gli elettori siano istruiti, sappiano cioè leggere e scrivere. Viene garantita e tutelata la libertà di parola e quella di stampa, così come la libertà d’insegnamento.
Questo elenco di libertà e principi democratici sono attinti dalla precedente Costituzione siciliana del 1812. Il testo era ben più articolato e fitto di norme rispetto al documento di trent’anni successivo, ma altrettanto innovativo. Anzi, forse ben più all’avanguardia persino dei contemporanei testi costituzionali. Se infatti volteggiamo da un articolo all’altro, ci imbattiamo ben presto in un capo a dir poco inaspettato, il capo XI, che riportiamo nell’interezza:
Questo articolo subì poi il veto del re prima che l’intero testo venisse promulgato nel 1812, e di fatto non apparirà in nessuno dei testi successivi da esso ispirati. Eppure, sappiamo che il re Ferdinando di Borbone aveva maturato una certa politica sanitaria e sociale all’avanguardia per i tempi: nel 1801 il re aveva imposto una vaccinazione di massa contro il vaiolo, una delle più mortali infezioni dell’epoca, che aveva decimato intere popolazioni nel corso della storia. Il re, che era solito circondarsi di letterati e scienziati, sembrava consapevole del fatto che il vaccino fosse l’unica soluzione per evitare stragi nella popolazione, soprattutto tra le classi più povere e più esposte a condizioni igieniche insufficienti. Tuttavia, gran parte della popolazione e della Chiesa stessa nutriva un forte scetticismo verso il vaccino, dunque una norma così severa avrebbe arrecato più danno che beneficio.
Certamente la presenza di quell’articolo rappresenta per noi uno spunto di riflessione sul rapporto tra medicina e politica, oggi così attuale ma in fondo dibattito figlio di una storia che è circolare e forse bendata. Più tardi, infatti, la stessa Assemblea Costituente si sarebbe trovata a decidere, all’indomani del Secondo conflitto mondiale e degli orrori nazisti, sull’obbligatorietà dei trattamenti sanitari e sulla fiducia dei cittadini verso i medici.
Ci domandiamo, curiosi, a quale rapporto con la medicina approderà la nostra società dopo l’esperienza pandemica, e quale sarà la funzione della politica nel mediare tra i due poli.
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