23 Maggio 1992 – Strage di Capaci
Il 23 maggio del 1992 vengono uccisi Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Giovanni nasce nel 1939 a Palermo nel quartiere della Kalsa, stessa borgata del suo amico di infanzia, Paolo Borsellino.
Dopo una breve parentesi all’Accademia navale, si iscrive a giurisprudenza, diventando magistrato nel 1964. Debutta come pretore a Lentini e il suo primo caso verte su una morte per incidente sul lavoro. Nel 1967 a Trapani affronta per la prima volta le cosche locali. La battaglia contro il gruppo criminale capitanato da Licari induce Giovanni a concentrare l’attività investigativa sui cespiti patrimoniali dei mafiosi. È lì che il giovane Falcone rischia per la prima volta la vita, attentata per mano di un terrorista. Nel 1978 chiede il trasferimento a Palermo dove si occupa di fallimentare per pochi mesi, approdando poi nel penale e iniziando così la lotta alla mafia al fianco di Rocco Chinnici, in un contesto di profonda crisi per la città, dove in quegli anni persero la vita Cesare Terranova, Boris Giuliano, Gateano Costa, Emanuele Basile, Pier Santi Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Durante il processo contro Rosario Spatola, Falcone si imbatte nel cospicuo giro d’affari di Cosa Nostra realizzando che i confini di quella inchiesta si estendevano anche a interessi commerciali di portata transazionale. Falcone combatte l’insufficienza probatoria adottando un metodo investigativo capace di ricostruire gli spostamenti dei flussi finanziari gestiti da Cosa Nostra, valicandole barriere del segreto bancario. Da allora inizia a vivere sotto scorta.
Dopo l’assassinio di Rocco Chinnici, collabora con Antonio Caponnetto, prendendo parte al pool investigativo antimafia insieme a Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotti, istituito per contrastare un’organizzazione criminale complessa e verticistica.
A suo dire la mafia
non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra .
L’impegno profuso lo portano ad arrestare Vito Ciancimino, Vito e Ignazio Salvo nel 1984, a cui la mafia reagisce con gli assassini di Beppe Montana e Ninni Cassarà. Poco dopo Falcone, insieme a Borsellino, viene trasferito nel carcere dell’Asinara per ragioni di sicurezza. Nel 1986 inizia il maxiprocesso contro 475 imputati, con capi d’accusa inclusivi di 120 omicidi, estorsione, traffico di stupefacenti, e reato d’associazione mafiosa. Le udienze furono celebrate in un’aula bunker appositamente costruita e durarono 22 mesi. Durante il maxiprocesso emergono elementi che confermano l’unitarietà e l’interconnessione delle accuse ascritte. Le dichiarazioni di Buscetta corroborano le intuizioni di Falcone che dichiara
“Prima di lui non avevo – non avevamo – che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno.”.
Le indagini del maxiprocesso vengono poi frantumate in una serie di indagini autonome dopo la nomina di Meli a capo dell’ufficio istruzione. Tuttavia, una storica sentenza della Cassazione del 1992 ha riconosciuto merito all’impianto accusatorio del maxi processo e alle connessioni intraviste da Falcone, sancendo che
È ammissibile la configurazione dell’identità del disegno criminoso, e quindi della continuazione, tra reato associativo e singoli reati-fine, quando questi risultino compresi in un programma unitario di intenzioni che consideri le singole violazioni via via consumate come genericamente incluse nelle linee fondamentali della preventiva rappresentazione.
Nel 1989 Falcone sventa nuovamente un attentato nei pressi della sua villa all’Addaura, dopo aver ricevuto lettere diffamatorie che tentano di screditarne l’operato a cui il giudice reagisce sostenendo che
“Il contenuto delle accuse doveva essere il movente che aveva spinto la mafia a uccidermi. Sarei stato un giudice delegittimato perché scorretto, l’omicidio sarebbe stato giudicato quasi naturale”.
Dopo una serie di ostilità al Palazzo di Giustizia lascia Palermo per collaborare come Direttore degli Affari Penali al Ministero della Giustizia, dove cerca di adoperarsi per elaborare strumenti normativi in grado di contrastare più efficacemente l’associazionismo mafioso, attraverso un maggiore coordinamento tra le procure e attraverso un più proficuo raccordo tra pubblico ministero e polizia giudiziaria. Ha in mente di costituire una Superprocura, quale ufficio centralizzato che possa fungere da “Direzione Nazionale Antimafia”, nella quale però Falcone non riceve alcun incarico.
La mafia ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, per punire l’impegno, la dedizione e la genialità delle sue battaglie caparbie ed esemplari. Ma, come Falcone ci ha insegnato, la mafia
“È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”