Il nome di Giorgio Napolitano nella storia politica e istituzionale italiana è strettamente legato alla sua doppia elezione al Colle più alto della Repubblica.
La prima, quella del 10 maggio 2006, fu senza dubbio l’elezione più “usuale” e meno travagliata, che non lasciò presagire al tempo la difficilissima transizione del sistema politico-istituzionale.
Napolitano ottenne il soglio quirinalizio grazie a una compatta presa di posizione del centro-sinistra, vincitore per un pugno di voti delle elezioni politiche dell’aprile 2006. Dopo che la coalizione dell’Unione spese già il nome di Franco Marini alla Presidenza del Senato, fu l’area Ds con Massimo D’Alema in testa a proporre il nome dell’ex Pci e senatore a vita Napolitano, compattando la coalizione fino al quarto scrutinio con 543 voti favorevoli su 990.
Il fatto di essere stato eletto grazie al blocco di maggioranza portò Napolitano nel suo discorso di insediamento a rimarcare come il processo di democrazia dell’alternanza, tipico dei sistemi con due poli opposti, dovesse arrivare “al tempo della maturità” e di come vi fossero delle già gravi preoccupazioni sulle spaccature e sulla mancata leale collaborazione tra i due poli, essenziale per far sì che non si producano in futuro fratture insanabili nella comunicazione interistituzionale e con i cittadini.
Vicino al Pci già dagli anni Quaranta, vi entrò in contatto dopo aver fatto parte di alcune riviste di critica teatrale e cinematografica (vi partecipò anche il futuro regista Giuseppe Patroni Griffi) afferenti ai cd. GUF (Gruppi Universitari Fascisti) durante gli studi in Giurisprudenza all’Università Federico II, fino all’incontro con i vertici alti del partito a livello nazionale, tra cui Mario Palermo e Giorgio Amendola, e ai primi incarichi di funzionario di partito tra il 1948 e il 1949.
La linea politica di Napolitano si manifestò, comunque, subito sulla politica estera come “oppositore” della linea filosovietica togliattiana (con l’eccezione dell’endorsement per l’invasione sovietica in Ungheria). Il primo passo in avanti arrivò con l’elezione a deputato nel 1953, carica che avrebbe mantenuto con l’eccezione di una legislatura sino al 1996, anno in cui divenne senatore a vita.
Con la segreteria di Luigi Longo Napolitano cercò di scalare i vertici, ma venne “bloccato” dalla contestuale emersione di Enrico Berlinguer: con Berlinguer si mantenne, però, in sintonia sulla necessità del dialogo con l’Occidente e condivise le basi per il lancio di un futuro “eurocomunismo”.
Il sequestro Moro incrinò i rapporti con Berlinguer sull’alleanza con i socialisti con il fallimento del compromesso storico, ma ridiede linfa vitale a Napolitano nel portare il Pci “oltreoceano”, apprezzato negli USA dall’amministrazione Carter e da Henry Kissinger. Infatti, nel 1978 Napolitano fu il primo dirigente del Pci a effettuare una visita negli USA, forte anche della sua competenza nel parlare l’inglese, su invito del Prof. Hoffmann dell’Università di Harvard. La missione americana fu avallata dallo stesso Berlinguer in modo da far rimarcare le distanze del Pci dalle Br e portò Napolitano a tenere vari incontri con molti intellettuali e scienziati della politica americani per sponsorizzare al meglio la dimensione europea del comunismo italiano.
Malgrado i successi della campagna americana lo strappo con Berlinguer sulle alleanze possibili con il Psi produsse in Napolitano la consapevolezza di porsi a capo di una corrente che tentasse la trasformazione del partito nel senso social-democratico: la corrente dei “miglioristi” assieme a Emanuele Macaluso e Gerardo Chiaromonte. Le idee miglioriste rimasero in minoranza sia con Alessandro Natta che con la “svolta della Bolognina”, guidata da Occhetto verso il Pds.
Dall’ingresso della Seconda Repubblica, Napolitano concentrò la sua azione politica entro gli incarichi istituzionali e di governo: fu parlamentare europeo fino al 1992, Presidente della Camera della XII Legislatura sino al 1994, e Ministro per gli Interni con delega al coordinamento della Protezione civile sotto il Governo Prodi I (di qui la nota Legge Turco-Napolitano). La nomina a senatore a vita nel 2005 gli consentì di mantenere vivo e in vista il suo nome per la corsa al Quirinale.
Il primo mandato presidenziale fece emergere una linea tesa a mantenere intatta la collaborazione politica e a far sì di non rendere la sua figura bersaglio di facili strumentalizzazioni, come quella di essere il garante della sola maggioranza governativa. Emblematica la risoluzione delle due crisi del Governo Prodi II, la prima del 2007 con un rinvio alle Camere dopo aver richiesto scrupolose verifiche parlamentari sui contrasti interni alla coalizione e la seconda con lo scioglimento anticipato, dopo un incarico esplorativo a Marini, “vincolato” alla creazione di un governo che realizzasse la riforma della legge Calderoli.
Con l’avvento del Governo Berlusconi IV Napolitano utilizzò l’“arma” della responsabilizzazione politica, facendo ampio ricorso a comunicati, pubblicati sul sito web del Quirinale, che spiegassero i perché delle prese di posizione critiche del Quirinale su alcuni provvedimenti legislativi (Lodo Alfano). Anche qui un’esemplificazione si ottenne con la drammatica vicenda di Eluana Englaro, chiusasi con il rifiuto di Napolitano di emanare il decreto-legge del Governo in contrasto con il decreto n.88/2008 della Corte di Appello di Milano.
Ma è con la crisi dell’autunno 2011 che Napolitano beneficiò per gran parte dell’opinione pubblica delle vesti del decisionista/cesarista “Re Giorgio” (complice anche il titolo di un noto articolo del NY Times del dicembre 2011). La crisi del Governo Berlusconi IV, certificata dalle gravi difficoltà nella gestione della crisi economico-finanziaria e dalle forti pressioni provenienti dagli organi e dai Paesi dell’Unione europea, portò nel novembre alle dimissioni del Cavaliere in favore di un “Governo del Presidente”, nominato da Napolitano, e guidato dal Prof. Mario Monti (indicativamente nominato senatore a vita dal Quirinale pochi giorni prima). La scelta è tutt’oggi al centro di un’ampia e nutrita discussione politica ma anche scientifica: ciò che si può rimarcare è come questo evento favorì l’emersione del Quirinale come principale centro istituzionale di coordinamento politico e costituzionale con parallela erosione del circuito di indirizzo politico Governo-Parlamento.
Sul finire del suo primo mandato presidenziale Napolitano avrebbe interpellato la Corte costituzionale (Corte cost. n. 1 del 2013) sull’utilizzo processuale di alcune intercettazioni telefoniche “casuali” con l’ex Presidente del Senato, Nicola Mancino, allora indagato entro il filone giudiziario sulla cd. Trattativa Stato-Mafia. Il litigio sulla distruzione di queste intercettazioni (se riconducibili alla fattispecie ex art. 268, comma 6 o 271 c.p.p.) portò la Corte ad affermare la necessità per il Presidente di rimanere non intercettabile (salvo che per i motivi ex art. 90 Cost.) per poter mantenere la sua funzione fondamentale di epicentro del raccordo e della persuasione morale alla garanzia dell’unità nazionale.
La seconda elezione (al sesto scrutinio il 20 aprile 2013), malgrado le spaccature dell’opinione pubblica, arrivò lo stesso su indicazione di due dei tre poli risultanti dalle elezioni politiche del 2013, ossia il centro-sinistra e il centro-destra ad eccezione delle new entries del Movimento 5 Stelle. Questi ultimi osteggiarono molto Napolitano, ritenendolo corresponsabile di attentati alla Costituzione (vicenda Monti e Procura di Palermo) e promuovendo più volte l’iter per la sua messa in stato d’accusa. Dopo i fallimenti sul nome di Romano Prodi e su Stefano Rodotà, i due poli certificarono chiesero a Napolitano di accettare una rielezione al Colle. Egli accettò a condizione che i fautori della sua rielezione portassero avanti un processo di riforme costituzionali, elettorali ed economiche per completare il periodo di transizione. Al sesto scrutinio con il solo voto contrario del M5S Napolitano venne rieletto con 732 voti e nel discorso di insediamento ammise di aver accettato “sapendo che quanto è accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità […]”.
Il secondo mandato durò due anni e mezzo circa e vide il cambio della guardia tra Enrico Letta e Matteo Renzi, che condusse a termine la riforma del sistema elettorale e che mandò avanti un progetto di riforma della Seconda Parte della Costituzione, poi bocciato dal referendum costituzionale confermativo del 4 dicembre 2016.
Napolitano si dimise il 14 gennaio 2015, ritenendo che le condizioni a margine della rielezione fossero già sulla via della realizzazione.