Un bilancio dell’operato di Sergio Mattarella nei suoi sei anni di Presidenza della Repubblica: l’originalità e la rilevanza della sua strategia politica, tra ricerca della mediazione e capacità di prendere decisioni forti in alcuni dei momenti più tesi e critici per l’Italia.
Il 31 gennaio 2015 Sergio Mattarella, all’epoca giudice della Corte costituzionale, già parlamentare, ministro e professore di diritto parlamentare, conquistava il Quirinale con 665 voti al quarto scrutinio, contando sull’appoggio compatto della coalizione di centro-sinistra composta dal PD (guidato all’epoca da Matteo Renzi), dell’Area Popolare e dei gruppi centristi. Un’elezione differente da quella drammatica sul piano politico per il Partito Democratico, tenutasi due anni prima nella rielezione di Giorgio Napolitano.
Le aspettative per lo stimato giurista e politico della sinistra Dc si mostravano molto particolari, in quanto nelle forze politiche era rimasta fortemente impressa l’immagine “ingombrante” di Napolitano come Presidente decisionista e interventista negli scenari politici: ragion per cui molti commentatori (e probabilmente anche chi lo sponsorizzava per il Colle) pensavano, erroneamente, a una personalità meno decisa.
In realtà, Sergio Mattarella rappresenta una delle ultime (se non l’ultima) personalità istituzionale, che opera seguendo la logica e il metodo della propria cultura politica di provenienza.
Un bell’editoriale del Foglio del 2 febbraio 2015 lo definiva l’“Ultimo dei Morotei”, figlio di quella corrente della Democrazia Cristiana che ha fatto del metodo della strenua e leale collaborazione, del dialogo, della mediazione oltranzista un veicolo potente per i valori del cattolicesimo politico. Mattarella, però, non è un normale gregario o un “semplice” illustre membro di questa scuola politica: egli l’ha fatta evolvere, dandole un indirizzo più marcato e deciso, e forse perché Mattarella ha conosciuto durante la sua vita politica e istituzionale sulla sua pelle il lato “oscuro” di questa cultura politica.
Parlo di un Presidente che ha avuto due Maestri, Aldo Moro e il fratello Piersanti, i quali morirono tragicamente proprio per aver perseguito fino allo stremo la via o il sogno del “compromesso storico” tra le due forze politiche principali della Resistenza e della Costituente, Dc e Pci: Moro per una via nazionale per sconfiggere il terrorismo, superare la crisi petrolifera e per rinnovare, magari in futuro, il patto costituente del 1948 e il fratello Piersanti per fronteggiare Cosa Nostra nella sua terra natìa.
L’originalità dell’operato di Mattarella sta proprio nel bilanciare la tecnica morotea con un piglio più decisionista (il Mattarellum, ad esempio, è un sistema elettorale misto, volto a favorire un processo di transizione politico-istituzionale coniugando la maggiore propensione a un sistema maggioritario con la presenza di una ridotta, ma essenziale componente proporzionale, che tenesse debito conto delle peculiarità del sistema partitico italiano che avrebbe composto la cd. Seconda Repubblica). Obiettivo, quindi, è quello di perseguire sempre e comunque la via della mediazione, ma prendendo decisioni forti e anche impopolari nel caso in cui il dialogo non bastasse a risolvere uno stallo o a evitare distorsioni istituzionali difficilmente sanabili.
Da questa idea scaturiscono le dimissioni da Ministro dell’Istruzione del Governo Andreotti VI a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 223 del 1990 (la cd. Legge Mammì di riforma del sistema radio-televisivo), l’intraprendenza da Ministro della Difesa del Governo D’Alema per la partecipazione italiana all’operazione NATO in Kosovo, “Allied Force”, fino ad arrivare ai due momenti più tesi della sua Presidenza della Repubblica: il rifiuto della nomina di Paolo Savona a Ministro dell’Economia del Governo Conte I e il lapidario ma durissimo comunicato di critica alla BCE per la decisione di non tagliare i tassi di interesse sul debito pubblico italiano allo scoppio della pandemia (atto che ha sospinto in maniera decisiva la Presidente della Commissione Von der Leyen ad accelerare sul Recovery Fund).
Invece, le categorie morotee sono state applicate al settennato sin dai primi due anni di warm up, in cui il Presidente ha mantenuto un profilo molto basso (contando anche su una discreta stabilità politico-istituzionale). Tutto ciò è servito per poter costruire i propri canali istituzionali di dialogo sottotraccia e lontano dalle telecamere assieme al suo Segretario Generale, Ugo Zampetti, e di mantenere un profilo ossequioso ma al contempo vigile di tutte le forze parlamentari senza esporre direttamente la sua figura a strumentalizzazioni.
La messa a punto definitiva è arrivata con le elezioni politiche 2018, in cui è emerso il vero elemento plusvalore mattarelliano: il metronomo costituzionale. Le politiche del 2018 hanno avuto il “merito” di aver tolto alle forze di matrice populista la comfort zone dell’opposizione, costringendole a proporre alleanze e programmi di governo. I mesi di marzo, aprile e maggio 2018 sono stati teatro di questa transizione con il gravoso compito per Mattarella di gestirla e indirizzarla affinché si arrivasse a un Esecutivo. In questo frangente Mattarella ha usato il tempo come arma di disinnesco dei giocatori delle tre carte, unita alla pazienza del ragno tessitore nel mantenere le forze politiche sul pezzo, dell’alta tensione politica, di cui le forze populiste si nutrono, per sospingerle ad una soluzione. Il tempo gestito in più giri di consultazioni, incarichi esplorativi ai Presidenti d’Assemblea, intervallati da settimane di trattative concesse e nel puro stile moroteo: la variante decisiva, viste le continue tensioni e le mancate prese di responsabilità, si è avuta con l’uso sapiente del “ricatto” politico e della demarcazione di una sottile ma invalicabile linea rossa alla dialettica (vedasi l’incarico a Cottarelli e il veto su Paolo Savona).
Il metronomo è servito a scandire i tempi solo meccanicamente: ha fatto sì, infatti, che la politica avesse il tempo e lo spazio necessario per dialogare e collaborare nelle sedi istituzionali anche informali (vedi il ritiro spirituale al Pirellone per la nascita del Conte I o la dura suasion verso Conte affinché nel dicembre 2018 andasse a Bruxelles per discutere degli scostamenti di bilancio nel mirino della Commissione) e per anestetizzare la politica dell’istinto e dell’aggressione, che vive si nutre dell’immediatezza spazio-temporale.
Cosa aspettarsi, dunque, dall’ultimo anno presidenziale?
La domanda è legittima, essendo in corso la crisi del Governo Conte II, ma le risposte, oltre a essere già presenti nella prassi già espletata (come testimonia la attuale dilazione temporale della crisi con l’incarico esplorativo a Fico), vanno oltre il settennato. La gestione del tempo, l’essere metronomo costituzionale per gli organi di indirizzo politico rappresenta l’eredità verso il successore al Colle.
L’eredità di Mattarella è estremamente significativa ma, paradossalmente, non pesante; infatti, l’attuale Presidente non ha costruito un’immagine ingombrante, anzi, ma ha consegnato un metodo o un vaccino utile alla Politica per ritrovare le sue categorie al riparo dall’alta tensione populista e dalla politica allo stato liquido, fatta di annunci e di transfughismo isterico.
Sarà comunque difficile per chi arriverà perché i tempi sono difficili, ma è proprio nel tempo e nel farsi da metronomo che Mattarella ha indicato per porre rimedio ai mali sopra citati e per costruire un valido metodo di gestione per le future sfide istituzionali della classe politica italiana.
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