Ne il Pensiero giuridico-penale Rivista Internazionale di Dottrina dell’anno 1937, ci siamo imbattuti in un interessante articolo critico di Benedetto Croce, in cui smonta logicamente e filosoficamente la tesi di Guido Calogero intorno al giudizio del magistrato. Vi raccontiamo questa faida intellettuale, soffermandoci in particolar modo sul sostrato che accomuna i due pensatori: Hegel e la sua Filosofia del diritto.
La tesi di Calogero è fin da subito esplicitata: ‹‹Il Calogero vuole dimostrare che il giudizio del magistrato è sostanzialmente un giudizio storico›› . Croce si impegnerà nel corso dell’articolo a distruggere questa tesi, svilendo Calogero fin da subito: ‹‹della storia mi pare abbia ancora un’idea inadeguata››, questo perché Calogero distingue e contrappone lo scrittore e il lettore di storia e dice che quest’ultimo: «attinge la sua fede nella realtà storica di quella stessa ricostruzione alle parole del narrante, congiunte, naturalmente, alla fiducia che ha in lui››. Se così fosse, il lettore di storia non si unificherebbe col narratore in un medesimo processo di pensiero, ma sarebbe un mero credente o credulo, e non un pensante. Il Calogero, dunque, intende la storia non già come l’idealista Croce, il quale intende la storia come quella vera e propria storia di matrice hegeliana (la storia dello Spirito e filosofica), ma come l’altra: l’historia Inferior, che s’intesse sulle estrinseche testimonianze, ma non solo sottolinea Croce: ‹‹non senza il concorso dell’immaginazione (nella quale del resto, narratore e lettore, in ultima analisi, si fondano l’uno e l’altro, sulle asserzioni altrui)››. Nella storia vera e profonda, come nella filosofia, il lettore è lettore solo in quanto non è ricettivo, ma attivo, cioè anch’esso ricostruttore e narratore. Senonché, la storia, sia che si prenda nella sua forma superiore, sia in quella inferiore, non basta a generare il giudizio del magistrato. È vero che il giudice si appoggia sopra una conoscenza che è di carattere storico, come del resto ogni concreta conoscenza; ed è vero che tra le cose così conosciute sono da intendere anche le disposizioni delle leggi, considerate come dati storici anch’esse. Ma il proprio della sentenza del giudice sta in quella che Croce definisce: ‹‹sussunzione››, ovvero si fa rientrare il fatto accidentale che si ha innanzi, storicamente ricostruito, in una norma di legge. Sussunzione quindi, che non è un atto teorico ma pratico, un atto volitivo, un imperium, che individualizza, ossia crea la legge, e pronuncia un comando. È importante comprendere il nucleo teorico-concettuale dell’essenza della sentenza del giudice, appunto quella che Croce definisce: ‹‹sussunzione››.
In realtà Croce non sta dicendo nulla di nuovo, sta semplicemente parafrasando la Filosofia del diritto di Hegel, §216: ‹‹l’ambito delle leggi deve essere da un lato totalità chiusa, ma dall’altro esso è il bisogno permanente di sempre nuove determinazioni legali››, per questo motivo la determinazione, cioè la legge, è sempre determinantesi perché deve rintracciare la vita accidentale e non le è permesso essere una totalità chiusa che sta lì per sé (come lo sfero parmenideo per intenderci). Siamo di fronte a due elementi: l’elemento della totalità chiusa di un’universalità (legge) e un elemento di accidentalità opposto dichiarato da Hegel. C’è ovviamente un’antinomia tra questi due principi generali, ma allo stesso tempo c’è il continuo bisogno di un processo di specializzazione dei principi generali per “andare incontro” alle fattispecie effettive, cioè a ciò che accade nella vita quotidiana. Quindi, oltre all’universale che di per sé può essere puramente astratto, bisogna trovare l’applicabilità al singolo caso, ma la forma stessa dell’universalità astratta non basta; infatti se la forma è astratta non andrà mai incontro alla situazione specifica perché logicamente si tratta di due sfere irrelate (universalità vs accidentalità). La determinatezza della legge di cui stiamo parlando, dice Hegel: ‹‹è soltanto in realtà un limite generale entro il quale ha ancora luogo un andare e un venire›› e, aggiungo, fin tanto che si presenta questo movimento non c’è determinatezza della legge. Anche la determinatezza della legge, in realtà, dipende dall’applicabilità della determinatezza ai casi specifici. All’interno della medesima determinatezza c’è “un andare e un venire continuo” che tenta di applicare quella legge astratta al caso specifico, ma questo movimento necessita che l’universalità della legge venga a patti con l’accidentalità. All’interno del limite stabilito dalla legge, che è sempre un limite (un limite che per Hegel è il razionale) superiore o inferiore (un range), deve avvenire la decisione del giudice affinché la legge possa essere effettiva. Il limite, o meglio il razionale, per essere chiari, sono per esempio gli anni della condanna per omicidio, ma come sappiamo, la decisione poi spetta al giudice che decide sul momento per ogni singola individualità. Questo vuol dire che sussiste una componente che nemmeno il razionale può “dire”, il razionale/la legge fornisce solo il limite massimo o minimo (gli anni della condanna), ma all’interno di quei limiti c’è un’oscillazione che dipende dai singoli casi, cioè dalla scelta del giudice che spezza quell’oscillazione e la fa diventare reale-effettiva. Hegel: ‹‹questa oscillazione deve essere interrotta a scopo di realizzazione››, a scopo di quella che è la realizzazione della sentenza, cioè l’oscillazione va interrotta e imposta, perché la sentenza deve trovare la sua determinazione propria. Diciamolo in altro modo, l’oscillazione è il razionale che va interrotto ad un certo punto da parte del giudice, per cui dice Hegel: ‹‹interviene una decisione entro quel limite accidentale che è arbitrario››, la decisione del giudice è arbitraria e accidentale, l’unica funzione della legge è fornire un range razionale, ma entro quel limite la decisone del giudice è totalmente arbitraria. Vale a dire che la giusta punizione non si lascia stabilire dal concetto, ma è stabilita dall’interazione dei due piani (universale e accidentale), tramite la decisione arbitraria del giudice; decisione che compirà per calibrare la razionalità della legge e se non fosse calibrabile rimarrebbe astratta, non potrebbe interdire nulla all’individuo, in quanto l’individuo compie atti arbitrari. Affinché si dia la sentenza, ovvero affinché l’individuo possa essere interdetto, ci vuole a sua volta qualcosa di particolare-accidentale, qualcosa che “metta a terra” il codice generale (la legge universale astratta), in questo caso l’intervento, la sentenza del giudice.
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Individuato l’hegelismo che fa da sostrato a questo “battibecco”, torniamo alla critica di Croce: ‹‹al Calogero non isfugge (e come potrebbe sfuggire?) questo che egli chiama “ultimo momento” dell’atto del giudice, e che è poi il caratteristico ed unico, e, non riuscendogli di ridurlo al pensiero storico, si consola col chiamarlo “ultra-storiografico”, in quanto in esso alla storiografia dell’accaduto si somma una storiografia del presumibile o del conveniente. Una storiografia del presumibile e del conveniente? E che è mai questo tragelafo? Una storiografia non può essere se non dell’accaduto. Quale mai soddisfazione prova il Calogero a eseguire a parole la sua riduzione del giudizio del giudice a giudizio storico col metaforizzarlo come storiografia-non-storiografica?››. La maggior parte del testo di Calogero, ci informa Croce, è una continuata polemica contro il compito della Corte di cassazione di sindacare la logicità delle sentenze o cassare quelle illogiche. Secondo la teoria di Croce non si dà un giudizio logico che non sia insieme giudizio di fatto (evidente qui il timbro dell’attualismo gentiliano), il Calogero invece, sostiene che la Corte di cassazione giudica anch’essa del fatto come è esposto dalla sentenza (ex actis e non ex gestis). La questione, a dire il vero, dice Croce: ‹‹mi sembra di quelle che si dicono di lane caprina››, perché, se la Cassazione, senza rifare l’indagine sui fatti che sono esposti nella sentenza, esamina la coerenza o incoerenza di tale esposizione, che male c’è a chiamare la coerenza e l’incoerenza, l’unità o la disunità di quell’atto spirituale, logicità e illogicità?». Croce non si ferma, mina colpo dopo colpo la formazione e la preparazione intellettuale di Calogero: ‹‹L’autore (Calogero), anche in questo libero, è in preda ad un vero furore contro la Logica che denomina tradizionale, o aristotelico-scolastica, o sillogistica; ma non mi pare che abbia ben chiaro in mente che l’errore di quella Logica consisteva nella indistinzione tra logicità e forma grammaticale, tra pensiero e linguaggio (donde il pericolo, che la minacciava, del sofisma, che è sempre equivoco verbale, quaternio terminorum)››. Del resto, quella Logica di cui Calogero si nutre, (non a caso autore di numerosi testi sui classici, tra cui Fondamenti della logica aristotelica e Studi sull’eleatismo) nonostante il suo vizio formalistico-verbalistico, fu ‹‹l’educatrice di tutta l’Europa occidentale “al bel ragionare”››. Ma il peggio è che, al di là della polemica contro la Logica antica e medioevale, c’è, secondo Croce, una sorta di avversione contro la Logica stessa, contro ogni sorta di Logica, a beneficio di un certo ‹‹volontarismo o prammatismo o eticismo››, che fa tutt’uno con ‹‹lo sciagurato idealismo attuale» (a Croce molto caro essendo di formazione gentiliana), dal quale Calogero crede di essersi tratto fuori, e di cui, invece, esibisce lo sfacelo ultimo, o detto alla Croce: ‹‹il discoperto irrazionalismo decadentistico››.
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