Sorpassato di molti chilometri quel ramo del lago di Como che volge a Mezzogiorno, giunti ormai sul ramo di Gera Lario, transitava su una di quelle stradicciole alle ore 16 del 27 aprile un convoglio di trentotto autocarri con duecento soldati della contraerea tedesca. Fra loro si nascondeva, interpretando con tanto di cappotto ed elmetto un sottoufficiale nazista ubriaco, Benito Mussolini. Questi (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone.
La colonna di autocarri è nuovamente fermata verso le ore 16 a Dongo, in piazza. L’ora precisa, come tutto in questa storia, è un mistero.
Questa volta il trucchetto dell’elmetto e della ubriachezza non funzionò: Mussolini fu riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri sotto una panca. Disarmato di mitra e della pistola che portava sotto il cappotto tedesco, venne catturato e preso in consegna dal vicecommissario di brigata Urbano Lazzaro “Bill”. Accompagnato nel Palazzo del Comune, gli fu sequestrata una borsa che teneva con sé.
L’operazione era stata effettuata dai partigiani del distaccamento “Puecher” della 52ª Brigata Garibaldi “Luigi Clerici”, comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle, nome di battaglia “Pedro”. Il suo commissario politico era Michele Moretti “Pietro Gatti”, vice-commissario politico il già presentato Urbano Lazzaro “Bill”, il capo di stato maggiore Luigi Canali “Capitano Neri”.
Altri cinquanta italiani, fra cui molti gerarchi con mogli e i figli al seguito, vennero arrestati. Alcuni si consegnarono spontaneamente, altri provarono a ottenere una via di fuga promettendo enormi somme di denaro alla popolazione di Dongo.
Ma questo denaro dove si trovava? Erano promesse a vuoto o era conservato da qualche parte sugli autocarri?
La borsa di Mussolini venne attentamente inventariata, il contenuto di essa è ora conservato nel caveau della Banca d’Italia a Roma, in appositi sacchi. Per la precisione 419 plichi e 2.000 bisacce, di cui la Repubblica tuttora non conosce il valore perché non sono mai stati inventariati. L’unica ricognizione è stata fatta nel 2006 e solamente su 63 plichi.
Questi sacchi che in teoria non dovrebbero esistere: l’inventario ufficiale dei beni sequestrati riguarda solo quelli presenti nella menzionata borsa di Mussolini: documenti militari riservatissimi (fra cui un carteggio di 62 lettere firmate fra Mussolini e Churchill, poi scomparso) un milione e settecentomila lire in assegni e centosessanta sterline d’oro.
Da ricostruzioni giudiziarie pare che subito dopo il capo di stato maggiore “Capitano Neri” abbia proceduto all’inventario in municipio di tutto quanto di valore vi fosse nei bagagli dei gerarchi fascisti al seguito di Mussolini e delle valigie trovate sull’Alfa Romeo del prefetto Luigi Gatti, già segretario del duce. Tutti i valori vennero affidati in custodia, con ordine scritto, alla partigiana Giuseppina Tuissi “Gianna“, sua compagna sentimentale.
Personaggio notevole, “Gianna”. Lei stessa era famosa tra le camicie nere perché, infermiera, era solita rilasciare false certificazioni mediche in modo da aiutare i soldati in cura a disertare. Se “Capitano Neri” era diventato antifascista per la sua partecipazione alla Guerra in Abissinia e poi alla Spedizione di Russia, a “Gianna” servì la morte del suo fidanzato partigiano, dopo qualche ora di tortura, il 30 Agosto 1944. Fuggì da Abbiategrasso a Como, qui incontro “il Capitano” e fu subito un colpo di fulmine. Durò poco: il 7 gennaio del ’45 l’undicesima Brigata Nera li catturò e li portò in caserma, sottoponendoli a tortura per tre mesi, con fruste, acqua bollente e ipotermia.
“Neri” fuggì, non è chiaro come e quando, fra Gennaio e Febbraio; Gianna rimase sotto tortura in carcere a Como fino al 12 Marzo, quando venne inspiegabilmente rilasciata.
“Gianna” realizzò in due giorni (ben due giorni) un certosino inventario di quei beni raccolti quel dì a Dongo, ma, ripetiamo anche qua la parola “inspiegabilmente”, tanto l’originale quanto ogni sua copia sono andati persi.
Terminato l’inventario, il “Capitano Neri” firmò un ordine di consegna temporaneo di tutti i beni recuperati alla federazione comunista di Como, di cui il responsabile era Dante Gorreri. Ipotesi sostengono che questi in realtà doveva svolgere la funzione di intermediario verso il Corpo di Volontari per la Liberazione, al fine della restituzione dei valori all’erario Italiano.
Ipotesi. Fatti: il 7 Maggio, come scrisse alla madre, il “Capitano Neri” partì per “un’ultima missione da compiere”. Scomparve nel nulla. Seguono ipotesi: ucciso da una brigata del PCI costituita il 25 Aprile in quanto dissidente interno (il suo inspiegabile rilascio dal carcere era stato letto da molti come doppiogiochismo), oppure perché sapeva troppo sul tesoro o non voleva andasse al Partito. Fatti: “Gianna”, dopo essere stata diffidata dall’intraprendere ricerche sulla fine dell’ex-comandante, minacciata da Dante Gorreri, viene uccisa il 23 Giugno e gettata nel Lago di Como nei pressi di Cernobbio. Anche il suo corpo non sarà più ritrovato. Era il suo ventiduesimo compleanno. Il 5 luglio riemerge invece dal lago il corpo di Anna Maria Bianchi, confidente di “Gianna”, oggetto di molte rivelazioni (forse troppe?) nella sua ricerca del “Capitano Neri”. Era stata annegata dopo essere stata torturata e ferita con due colpi di pistola.
Arriviamo dunque alla nostra sentenza dell’11 Agosto 1947, che potete leggere per intero alla fine di questo articolo. Le aule della Corte di Cassazione erano caldissime nell’Estate Romana. Il già menzionato commissario politico della 52ª Brigata, Michele Moretti, assieme ad altri due partigiani, viene chiamato a rispondere di appropriazione indebita aggravata per il “così detto tesoro di Dongo”. La stima del valore che dà la Suprema Corte consiste in 33milioni di Lire in banconote (sottratte ai tedeschi) e circa 36 chili di oggetti in oro, ritrovati da un pescatore. Si trattava di preda bellica o no? I partigiani erano equiparabili a militari volontari o no?
Per la Corte in entrambi i casi la risposta è negativa, pertanto della sottrazione del “tesoro” se ne deve occupare la giurisdizione ordinaria, trattandosi di peculato. Dichiara:
“sarebbe assurdo parlare di preda bellica se il danaro fosse stato sottratto alle casse dello Stato e l’oro fosse parte (come risulterebbe, dice il Giudice militare, da diversi segni) di quello donato a suo tempo dai cittadini alla Patria”.
Si tratta delle fedi nuziali che Mussolini chiese volontariamente ai cittadini italiani di consegnare per sostenere lo sforzo bellico in Abissinia e contrastare le sanzioni.
Sul periodo fascista leggi anche:
- 67. La tosatura di una donna fascista (1947)
- 65. L’Otto Settembre (1943)
- 70. L’oro di Dongo (1947)
- 58. Altiero Spinelli, Ventotene e l’Europa (1928)
- 46. Alcide De Gasperi e il tentativo di espatrio clandestino (1927)
- 41. La pericolosa giornata del Primo Maggio (1925)
- 39. Il Delitto Matteotti e l’Inesistenza Giuridica delle Sentenze Fasciste (1944)
- 27. Sulla difesa della Razza (1939)
- 16. In Nome del Governo Italiano: Fermatevi (1939)
- 11. Olio di ricino e violenza privata: l’Italia al tempo della Marcia su Roma (1923)
Allo stato delle conoscenze della giustizia italiana, Moretti doveva portare tutti i valori al Corpo di Volontari per la Liberazione, ma non giunse mai a destinazione. Sosteneva di avere una ricevuta di consegna del Comando di Piazza, il quale se ne sarebbe servito per i bisogni delle varie brigate, ma non fu in grado di esibirla. Questo era confermato pure da Pietro Vergani, vicecomandate generale del Corpo. I giudici però non potevano sapere che assieme a Dante Gorrieri aveva fatto pressioni su “Gianna” affinché non indagasse su nulla riguardo alla sparizione del “Capitano Neri”.
Inoltre, come si legge dalla sentenza, si parla di 33milioni di Lire sottratte ai tedeschi: il denaro sequestrato ai gerarchi fascisti non è menzionato, è come scomparso: appaiono solo i 33 chili di fedi nuziali.
Il 12 dicembre 1949 Dante Gorreri fu rinviato a giudizio in qualità di mandante dell’omicidio del “Capitano Neri” e con l’accusa di peculato per aver preso in consegna il cosiddetto “oro di Dongo” e averlo fatto scomparire; insieme a lui fu incriminato Pietro Vergani, per aver organizzato l’uccisione di “Neri” e in qualità di mandante degli omicidii di “Gianna” e di Anna Maria Bianchi. Gorreri, arrestato, restò in carcere quattro anni; nel 1953 fu eletto deputato nelle liste del PCI e, avvalendosi dell’immunità parlamentare, venne scarcerato. Rimase deputato ininterrottamente fino al 1972. Dall’altro lato, le accuse verso Vergani furono prescritte nel 1957.
Il 29 aprile 1957, presso la Corte d’Assise di Padova si aprì il processo per la sparizione dell’oro di Dongo e gli omicidi collegati.
Carlo Maderna, noto col nome di battaglia di “Carletto Scassamacchine” da imputato si trasformò in accusatore: dichiarò di non aver parlato prima per paura di fare la stessa fine di “Neri” e di “Gianna”.
A processo “Carletto” testimonia sull’ammontare del tesoro: 400milioni di banconote in valuta italiana ed estera, più la consegna dell’oro alla federazione del PCI di Como in tre valige di cuoio giallo. Una cifra enorme, altro che 33milioni, valutabile in circa 14\20 milioni di Euro di oggi.
Ma, forse, ancora di più.
Il 17 gennaio 1949, la rivista americana Life pubblica un’inchiesta dal titolo: «The great Dongo’s robbery». Secondo i conti di John Kobler, funzionario amministrativo dei servizi segreti americani, e Edmund Palmieri, ufficiale della Commissione alleata di controllo in Italia, la somma totale del “tesoro” ammontava a 66.259.590 dollari, pari a circa 8 miliardi di lire dell’epoca (oltre trecento milioni di Euro di oggi).
I due analisti americani calcolano 61 milioni del ‘Fondo riservato’ della Repubblica sociale, l’equivalente di 1.210.000 dollari tra franchi svizzeri, pesetas, sterline e franchi francesi del fondo personale di Mussolini, 49mila dollari di anelli nuziali offerti dalle donne italiane per la campagna d’Abissinia, 4 milioni di fondi dell’esercito e dell’aeronautica del Reich requisiti sugli autocarri tedeschi. Ci sono da aggiungere a questo conto i più volte menzionati 33milioni di Lire. D’altronde “Carletto” parla di tre valige di cuoio, ma sarebbero serviti a “Gianna” due giorni per fare l’inventario di tre valige? E quelle di tutti gli altri cinquanta gerarchi?
Nel 2002, Massimo Caprara, ex-segretario personale di Palmiro Togliatti, dichiarerà che l’oro di Dongo, da lui stimato in circa 190milioni di Lire del 1949, è servito per acquisire la sede romana del PCI in Via delle Botteghe Oscure, varie proprietà fra Milano e Roma, più le rotative per il giornale L’Unità.
Quanto al processo avviato nel 1957, rimase incompiuto per l’improvvisa morte di uno dei giudici popolari. Questo implicava rinviare il procedimento a nuovo ruolo, cioè ricominciare tutto daccapo. Ma l’avvio del processo non ci sarà in quanto il coinvolgimento di due parlamentari (Dante Gorreri e Pietro Vergani) avrebbe comportato i tempi lunghi delle autorizzazioni a procedere. Inoltre, due amnistie, quella del 1970 e quella del 1973, «saneranno le pendenze ancora aperte di alcuni degli imputati e metteranno fine alla dimensione giudiziaria della vicenda».
Una vicenda, dunque, estremamente contorta e tuttora poco chiara. Rimane però, forse, un grande mistero, o miei venticinque lettori, apparentemente di dettaglio: ma quei 419 plichi e 2.000 bisacce depositati presso la Banca d’Italia, cosa contengono? Chi li ha depositati? Quando? E soprattutto, perché non sono mai stati inventariati in oltre settanta anni?
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