Il 4 luglio 1776 le Tredici Colonie americane si trovavano in guerra con la Madre Patria inglese da più di un anno. Su entrambe le sponde dell’Atlantico erano stati tentati vani esperimenti di riconciliazione: la Olive Branch Petition estesa nei confronti del Re Giorgio III dal Secondo Congresso continentale americano fu respinta, mentre l’appassionato Speech on Conciliation with America del deputato inglese Edmund Burke rimase inascoltato. La rottura sembrava ormai irrecuperabile. Quando, tra maggio e luglio del 1796, il Secondo Congresso riprese i propri lavori, l’ipotesi secessionista e repubblicana (promossa da Thomas Paine nel suo fortunatissimo Common Sense) era ormai accolta dalla grande maggioranza delle Tredici Colonie. Ma la maggioranza non era sufficiente: i leader rivoluzionari –Washington, Franklin, i cugini Adams, Jefferson… – sapevano che, se Indipendenza avrebbe dovuto essere, sarebbe stata necessaria l’unanimità. E in questo caso come in molti altri, a fare la differenza fu il potere delle parole.
Sul principio del giugno 1776, John Adams intuì che avrebbe dovuto cogliere l’attimo fatale. Egli era tra i promotori della causa indipendentista più influenti e ascoltati, ma sapeva che non sarebbe stata la sua voce a conquistare gli indecisi: si rivolse pertanto a Thomas Jefferson e gli chiese di stilare il testo di una “dichiarazione” che giustificasse la volontà di secessione e ne difendesse le ragioni. Le note personali di Adams raccontano di un Jefferson restio ad accogliere l’invito. Ma fu il futuro secondo Presidente degli Stati Uniti ad avere la meglio: «Devi farlo. […] Primo, perché sei della Virginia, ed è necessario che un virginiano appaia a capo di tutto questo. Secondo, perché io sono insopportabile, guardato con sospetto, impopolare: e tu sei tutto il contrario. Terzo, perché tu la scriverai dieci volte meglio di come potrei fare io». A questo punto, il futuro terzo Presidente degli Stati Uniti acconsentì: «Farò del mio meglio» (se prestiamo fede alle cronache di quei giorni, Adams dovette però far ricorso anche a qualche drink per calmare le insicurezze del suo interlocutore).
Il 28 giugno la Declaration venne presentata al Secondo Congresso. Dopo un primo tentativo (1 luglio), la tanto agognata unanimità fu conquistata il 2 luglio: le Tredici Colonie recisero ufficialmente gli obblighi politici nei confronti della Madre Patria inglese e si costituirono in un Governo indipendente. Il testo della Declaration è fin troppo famoso, ma non possiamo non riportarne qui il passaggio più immortale: «When in the Course of human events, it becomes necessary for one people to dissolve the political bands which have connected them with another, […] a decent respect to the opinions of mankind requires that they should declare the causes which impel them to the separation. We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness».
Esagerare il ruolo della Declaration of Indipendence nella storia e nel pensiero politico americano è impossibile: benché essa non abbia alcun valore legale, rappresenta la “coscienza” dell’esperimento di autogoverno di quel Paese. La Costituzione federale – altro celebre e giustamente celebrato documento – non può comprendersi, se non alla luce della Dichiarazione; e quando un americano intende riaffermare la lotta per ricordare che «all men are created equal», non trova alleato migliore della Dichiarazione: così è stato per Frederick Douglass, così è stato per Abraham Lincoln, così è stato per Elizabeth Cady Stanton, così è stato per Martin Luther King.
Ma se la Dichiarazione è stata approvata il 2 luglio 1776, perché Independence Day è celebrato, ogni anno, il 4 luglio? Il motivo è presto detto. Le asperità della guerra contro la Gran Bretagna continuavano a tenere impegnati i Padri Fondatori: così – almeno a quanto racconta Pauline Maier nel suo American Scripture: Making the Declaration of Independence – quando costoro, l’anno seguente, vollero celebrare l’anniversario della Dichiarazione, se ne ricordarono solo il 3 luglio, in ritardo di un giorno rispetto alla data dell’approvazione, ma in tempo per fissare i festeggiamenti per il 4 luglio, che era anche il giorno in cui il testo “finale” e “limitato” della Dichiarazione era stato dato alle stampe. Curiosamente, sia John Adams che Thomas Jefferson morirono – a poche ore di distanza, e avendo recuperato la loro amicizia dopo diversi anni di astiosa rivalità politica – il 4 luglio 1826, nel cinquantesimo compleanno del Paese che avevano contributo a fondare grazie a quella Declaration che, per dirla con G. K. Chesterton, è «forse l’unico esempio di pratica politica che è insieme teoria e grande letteratura». Si racconta che Adams, spirando, pronunciò le seguenti parole: «Thomas Jefferson survives» – una sineddoche, in cui il riferimento all’autore sta a significare il documento: «The Declaration of Indipendence survives».