L’Abissinia fu conquistata dal Maresciallo Badoglio nel 1936 e subito annessa alle colonie di Somalia ed Eritrea dando vita all’Africa Orientale Italiana.
Il Re diventa Imperatore, Mussolini Fondatore dell’Impero, Badoglio Duca di Addis Abeba, etc.
Proprio ad Addis Abeba fu costituita la Corte d’Assise, formata da giudici italiani e competente a giudicare in merito a delitti gravi come quelli oggetto della storia che sto per raccontarvi.
Nel 1937 era stata ordinato a tutti gli indigeni l’abbandono e la consegna spontanea di armi, ordigni e munizioni di guerra. Molti avevano adempiuto all’ordine, avendo probabilmente timore della pena capitale che era riservata ai ribelli.
Molti, ma non tutti. Tra i ribelli vi erano molti appartenenti all’etnia “galla” (o Oromo, diremmo oggi), che ancora muniti d’armi, non solo portavano avanti una guerriglia contro l’occupante italiano, ma depredavano altri indigeni locali, prendendoli d’assalto mentre portavano al pascolo le loro greggi.
Codesti predoni sono tremendi
è proprio così che li definisce la sentenza della Corte d’Assise di Addis Abeba.
Era infatti accaduto un giorno che il pastore Ibrahim Scek fosse stato aggredito da due galla, entrambi armati di lancia e di coltello. Uno dei due scaglia la sua lancia contro Ibrahim.
Lo manca.
Ibrahim è più lesto di tutti, raccoglie la lancia e a sua volta colpisce a morte uno dei predoni, ancora armato di coltello.
Ma non si ferma lì. Ibrahim è un etiope d’altri tempi, rispettoso delle antiche tradizioni. E le antiche tradizioni impongono che il nemico ucciso venga evirato. E così procede. Poi, ligio al dovere, si reca presso il locale comando dei Carabinieri italiani in Abissinia per denunciare il fatto.
Solo che, con sua massima sorpresa, accade che venne arrestato, proprio lui che si aspettava un premio per aver fermato un pericoloso predone.
Per sapere quale fosse poi stato il destino del nostro coraggioso pastore, vi lascio alla lettura della sentenza.
Qui mi basti sottolineare un curioso passaggio.
A un certo punto si legge che il pastore, prima di essere colpito e prima di a sua volta colpire avesse intimato ai galla: “In nome del Governo Italiano, fermatevi“. La formula era appena stata aggiornata dopo l’arrivo degli italiani, e in precedenza chi volesse intimare a qualcuno di arrendersi o di desistere da un losco proposito si appellava al nome del Re, o del Principe.
Nella maggior parte dei casi pare che quella formula bastasse a fermare chi avesse cattive intenzioni, perché per antica e millenaria tradizione quei popoli, quegli indigeni, quegli incivili – come li definisce la sentenza – vi obbedivano. Ma quella volta i predoni non si arresero.
E d’altronde, come dar loro torto? Come costringerli a fermarsi quando ai loro principi e re, anche nelle formule tra il magico e il giuridico era subentrato un occupante straniero?
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La Corte: … il Governo generale ha perseguito come immediata necessità politica il disarmo degli indigeni, donde il Bando Vicereale del maggio 1937 comminante persino morte ai sudditi ed assimilati che detenessero «armi, ordigni e munizioni da guerra».
Raggiunte così le generali finalità di difesa cui la norma mirava, il bando è stato or ora abrogato, ma vigeva nel dicembre del 1938 quando si svolsero i fatti, di cui la Corte è chiamata ad occuparsi. E poiché le popolazioni musulmane dell’Impero han sentito il novus ordo come restituzione per essi a libertà, fiduciosa è stata la loro adesione all’azione nostra, che hanno cordialmente affiancata. Sicché il disarmo dei musulmani può ritenersi sia stato generale e spontaneo, dal che questa situazione di fatto: che solo i dissidenti finirono col continuare a portare armi.

Palazzo Imperiale di Addis Abeba – In foto di copertina l’inaugurazione del Cinema del Littorio
Pertanto quando i predoni piombarono sul gregge, lo Seek Ibrahim nulla aveva d’armi con cui difendere le bestie e sé stesso, e corse disarmato contro i due ch’egli definisce “Sciftà”, cioè ribelli, appunto perché armati mal grado gli ordini del Governo. E l’un d’essi gli lanciò contro la lancia a fine omicida. Opina il P. M. cessata con ciò ogni realtà di pericolo per lo Seek, argomentando dal fatto che nella corsa dei due a raccattar l’arma, l’Ibrahim era stato più celere, ed in definitiva pertanto anch’egli era armato. Sicché avrebbe agito in istato d’ira e per vendetta contro l’ingiusta aggressione ormai esauritasi.
Senonché la situazione di fatto richiama in tutti i suoi estremi l’applicazione della legittima difesa.
Aveva la lancia è vero ormai lo Seek, ma v’era anche uno dei due predoni che di lancia era armato, mentre entrambi lo erano di coltello, ed il primo di essi era pronto all’intervento quando il compagno si fosse trovalo in condizioni di pericolo. Si voltava infatti e seguiva l’azione dei due ed intanto avviava i quadrupedi nel bosco, sicché solo al fulmineo ed inatteso precipitare degli eventi si deve se egli dovè abbandonare bestie e compagno.
Ora se l’uccisione a tutela del diritto di proprietà farebbe sentir viva la sproporzione fra reazione ed offesa, sostanza si è, si ripete, che il pericolo incombeva anche sull’uomo. Chi dei due sarebbe riuscito vittorioso in un conflitto fra coltello e lancia, specie poi se il galla si fosse ricongiunto al compagno ed entrambi avessero reagito contro l’intruso.
Questione di vita o di morte adunque. Ben vero che altri pastori erano accorsi, ma si mantenevano a rispettosa distanza, spettatori inermi e timorosi.
Codesti predoni sono tremendi.
La Corte ha dovuto occuparsi di fatti che solo un’inutile ferocia può spiegare; pastorelli inermi colti nel sonno, sventrati ed evirati per puro sadismo a colpi di «billao»; un pastore corso inerme a recuperare le bestie, raggiunto da uno dei predoni tornato indietro, e ucciso ed evirato in cospetto a dei compagni attoniti accorrenti al richiamo.
Necessità adunque di difesa nella specie, che ha costretto lo Seek all’azione: egli si trovava in una situazione di cose tali per cui non poteva difendersi se non offendendo.
«In nome del Governo italiano, aveva ingiunto, fermatevi». Ora è di ampia sfera in queste terre una particolare intimazione in nome del Re, mezzo tutto proprio per integrare la forza del singolo con l’invocata autorità del Principe. Al quale in Eritrea ed in Somalia prima, nell’Impero ora si è sostituito il nome del «Governo italiano» e l’intimazione procede da colui che tema danno o ingiuria da parte d’un terzo, cui così, a scongiurarne il pericolo, si comanda di fare o non fare.
Ed il terzo, per antica millenaria tradizione, obbedisce; e deve indennizzo ove rifiuti obbedienza, perchè si ritiene che abbia, in tal caso, offeso il singolo e lo Stato, nel cui nome l’intimazione era proceduta.
Ma l’intimazione presuppone (nel giusto uso che di essa si faccia) pericolo attuale d’offesa ingiusta e conseguente necessità di preventiva difesa, il che richiama classicamente l’istituto del moderamen.
Era anche nell’ambito delle sue tradizioni adunque lo imputato.
Detta il Fetha Negast: «Chi di notte uccide un ladro in flagrante non è punito : chi lo uccide in pieno giorno è punito di morte, non però se il ladro si ribella ed aggredisce».
Detta il codice penale di Tafari nell’art. 145 ; «Colui che per salvare la sua vita o tutelare il suo onore, i suoi beni, la sua gente commette un delitto difendendosi contro «un forte» non è punibile».
E qui i forti erano gli aggressori.
Particolare degno subiettivamente e giuridicamente di rilievo: dopo l’uccisione lo Schek si recò dai Carabinieri a denunziare che aveva ucciso un brigante.
«Ciò feci, egli racconta, credendo che mi venisse assegnato un premio; ed invece fui arrestato».
L’evirare il nemico è tradizione di queste genti; le donne a volta, dopo sanguinosi scontri cui gli uomini han preso vittoriosamente parte, si sono adornate a mo’ di collane, degli infami trofei ; il coltello eviratore è strumento che gli Azebù-Galla portano seco e di cui erano armati i due galla-arussi.
Senonchè a codeste tradizioni, repugnanti ormai anche alla parte sana dei nativi, il Magistrato italiano non può indulgere: è dover suo assecondare l’ascesa degli indigeni verso una concezione meno aberrante di vita, de terminando con pensosa cautela i limiti dell’illecito penale anche in quelle che per lo passato sono state norme consuetudinarie di condotta.
La legge organica, fissa codesti limiti inderogabili quando nell’art. 31 detta che «a tutti è garantito il rispetto alle tradizioni locali in quanto non contrastino con l’ordine pubblico ed i principi generali di civiltà». E non si deve fare sforzo per dire che vi contrasta la triste usanza di cui si ragiona. Il codice di Tafari, che intese fra l’altro d’«innovare alle consuetudini etiopiche costituenti fin ieri il diritto» punisce con pena da cinque a dieci anni «colui che ha evirato qualcuno, e se costui ne muoia nei quaranta giorni, il colpevole sarà condannato a morte» (art. 315). Il medesimo fatto poi del «tagliare gli organi genitali dell’uomo» punisce da sei a dieci anni (art. 356), ove concorrano particolari circostanze. Dell’evirazione d’un morto non parla. Per quanto l’etiopico tragga indiretta origine dal codice nostro dello Zanardelli, esso non si è spinto fino a legiferare sui delitti contro la pietà dovuta ai defunti.
Ma quel che si voleva porre in rilievo è che codesti particolari atti di mutilazione sono colpiti e previsti con norma di specie, di là cioè dalla norma generale (art. 308), sicché è intuitivo che anche il legislatore etiopico ne sentì la ferocia.
Da ciò la conseguente applicazione analogica al caso di vilipendio di cadavere. L’art. 11 delle premesse al codice di Tatari sancisce infatti: «siccome è inevitabile che nuovi casi si presentino, quando si troveranno casi non previsti in questa legge, si giudicherà secondo il testo che sembrerà potersi applicare allo stato della legislazione. Se il caso, non espressamente previsto, non si trovi in un testo che gli si applichi per analogia, il giudice deciderà per interpretazione approfondita».
Ora si parli d’analogia, si parli di interpretazione approfondita, sostanza si è che l’una e l’altra (assommanti al medesimo concetto sistematico) avrebbero condotto a repressione dell’insana barbarie. A maggior ragione dobbiamo reprimerla noi.
Pel quantum soccorre l’art. 50 legge organica: lo Seek intende in certo qual modo che il Governo italiano punisca fatti consimili, non intenderebbe, oggi almeno, la pesantezza concreta dei tre anni che la nostra legge infligge come minimo.
Sicché tutto ciò tenuto presente, e che la pena va in tonata alla mentalità di codesti primitivi ed all’evoluzione appena iniziata verso concezioni migliori di vita, la Corte ravvisa che un anno di reclusione sia rispondente al caso.
Se fossi stato ucciso, sarei stato evirato anch’io; ho fatto quel che il galla avrebbe egli fatto su di me.
E questa è dolorosa realtà concreta.
Per questi motivi, ecc
(Foro italiano, 64, II, 1939, 293)