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63. Storia di un’evasione (1883)

63. Storia di un’evasione (1883)

Questa è dedicata a tutti quelli che, come me, a tutto oggi (7 agosto 2019) ancora non sono andati in vacanza e vorrebbero evadere e fuggire via dalla città vuota e cocente, per abbandonarsi a qualsiasi altra attività che non sia il lavoro.

Certo, lavorare non è stare in prigione (ci mancherebbe), ma la metafora funziona. Sì è vero, c’è l’aria condizionata, gli uffici sembrano castelli infestati di fantasmi e non c’è il problema del sovraffollamento.

I passi procedono stanchi e pesanti, come quelli di un pachiderma ottuso. Ma non abbiamo la proboscide per farci una doccia nel bel mezzo della strada, purtroppo. Ogni e-mail che arriva è un colpo al cuore, ma che non è più in grado di farci sussultare.

Ecco, in questo contesto idilliaco pensavo all’evasione, e mi è venuta in mente questa storia che ho letto tempo fa.

Siamo in Veneto, a Mirano (prego notarsi la scelta del toponimo ai fini del proseguimento della metafora, pensate che oggi c’è anche Mirano Due, e non scherzo), e più precisamente entro le mura delle carceri mandamentali che un tempo erano lì. Ovviamente è agosto e siamo nel 1883.

Evidentemente il caldo non dà alla testa solo agli avvocati del XXI secolo, ma faceva lo stesso effetto anche ai secondini dell’Ottocento.

Il 1 agosto 1883, il capo guardiano del carcere – Antonio Mainardi – stava facendo uscire il detenuto Fortunato (di nome e di fatto) Pazzin, che aveva appena espiato la sua pena. Mentre Mainardi accompagnava fuori Pazzin, un altro detenuto, tal Antonio Gatto, condannato per reati di furto e che invece la sua pena doveva ancora scontarla, chiese al secondino di… andare in cortile per “soddisfare un suo bisogno”. Evidentemente nella cella non vi erano sanitari (che peraltro erano stati inventati per come li conosciamo noi solo in quegli anni, quindi figurati…), così il secondino, lo aveva lasciato fare.

Ad agosto, si diceva, si è tutti un po’ più distratti e infatti l’ottimo Mainardi non si era accorto che nel cortile/bagno giacevano ancora materiali edili, lasciati lì da alcuni operai. Il carcere era ancora in costruzione (pensate che disastro…), così il Gatto con passo felino prese una scala e paff… in meno di un minuto era bello che evaso.

Quando si destò dal suo torpore, il Mainardi si accorse del guaio che aveva combinato. Il Gatto era scappato! Corse subito a informare i carabinieri, il sindaco e chiunque avesse un minimo di autorità. Il 6 di  agosto fu sospeso da ogni incarico, a causa della sua grave negligenza.

Il Gatto era evaso e Mainardi aveva perso il lavoro, e pendeva su di lui pure un processo per favoreggiamento colposo alla evasione. Una unica speranza ancora covava nel cuore dell’ex secondino: riacciuffare il fuggitivo! La legge  infatti prevedeva(e prevede ancora oggi, cfr. art. 387 c.p.) l’esclusione della punibilità se il custode/guardiano/secondino avesse assicurato alla giustizia l’evaso entro un certo termine.

Per sapere come è andata a finire, basta leggere la sentenza della Corte di Cassazione di Firenze che vi riporto qui sotto.

Per il resto, evviva la fughe fugaci, l’importante è scappare. Almeno per un po’…

La Corte, ecc. — Attesoché la denunciata sentenza abbia premesso in fatto. Che nella mattina 1 agosto 1883 circa le ore quattro, il ricorrente Antonio Mainardi, capo guardiano delle carceri mandamentali di Mirano, aveva fatto uscire dal camerotto certo Fortunato Pazzin all’effetto di rilasciarlo in libertà per compiuta espiazione di pena.

Che Antonio Gatto, altro detenuto nel camerotto stesso, imputato di furti qualificati, e da qualche giorno malato, pregò il guardiano Mainardi di lasciarlo andare in cortile per soddisfare a un suo bisogno. Che il Mainardi acconsentì; e mentre esso stava disponendo per aprire al Pazzin la porta del carcere, il Gatto profittando di una scala a mano la sciata nel cortile dai muratori, che in quei giorni lavoravano nello stabilimento carcerario, riuscì ad evadere con scalare il muro di cinta, avendo impiegato in questa operazione, a senso del perito, trentotto minuti secondi.

Che non appena il Mainardi ebbe avvertita la fuga ciò che avvenne subito dopo uscito il Pazzin, corse ad avvertire del fatto i rr. carabinieri, il delegato e il sindaco, interessando tutti a rintracciare il fuggitivo, ed egli stesso vi si adoperò col massimo zelo, che gli fu dato spiegare anco maggiormente dopo che nel di 6 detto mese sospeso dalle sue funzioni potè da sé stesso scrutare ogni luogo, e dirigere la pubblica forza sulle orme del Gatto, che difatti venne arrestato nel 18 del mese stesso in Montebelluna ove appositamente erasi recato il ricorrente.

Che a lui venivano dai superiori tributate lodi per il diligente servizio che da quattordici anni prestava in detto ufficio.

Che nel dì 13 agosto detto, e così prima che l’evaso fosse tornato in potere della giustizia, promossa dalla r. procura di Venezia, con citazione diretta, l’azione penale contro il Mainardi pel reato contemplato dagli art. 271 e 275 del codice penale sardo, cioè per avere colla sua negligenza resa possibile l’evasione, e contro il Pazzin pel reato di che all’art. 278, ossia per avere facilitata la fuga, con sentenza 25 settembre fu quest’ultimo assoluto, e dichiarato colpevole il Mainardi del reato che sopra, omesso per altro di sottoporlo a pena per essersi verificato il caso previsto dall’art. 277 del codice stesso» poste per altro a suo carico le spese del procedimento; e così, confermando quella di primo grado, fu ritenuto in appello dalla sentenza ora impugnata.

Attesoché unico mezzo addotto a sostegno del ricorso sia la violazione dei predetti art. 277 e 131 del mentovato codice penale sardo, e dall’ art. 343 del codice di procedura penale, e ciò sul fondamento che tuttavolta non viene inflitta la pena, sia necessità inferirne mancanza di reato, e quindi la dichiarazione della sentenza non poteva essere quella che fu, cioè la dichiarazione di colpa senza applicazione di pena, ma avrebbe dovuto essere l’altra, di non farsi luogo a procedimento.

Attesoché l’art. 277, che é il cardine della questione, contenuto nella sezione quarta del codice penale in cui trattasi della fuga dei detenuti letteralmente disponga: « La pena del carcere stabilita contro le persone responsabili della fuga in caso di negligenza, cessa se dentro quattro mesi dalla fuga, i fuggitivi siano a diligenza di quelle nuovamente arrestati, e presentati a disposizione della pubblica autorità, e sempreché non siano arrestati per reati commessi posteriormente alla fuga ». Attesoché la impunità concessa da questo articolo che ha la sua derivazione dall’art. 247 del cod. pen; francese, agevolmente comprendesi essere subordinata alle condizioni che appresso, cioè: che gli evasi sieno arrestati entro i quattro mesi dalla fuga; che sieno arrestati non per reati posteriori all’evasione, che l’arresto o la presentazione del fuggitivo sia avvenuto a diligenza dei custodi.

Attesoché conoscere del concorso di queste condizioni sia ufficio dell’autorità giudiziaria, la quale può solo mediante una istruttoria, o un pubblico giudizio convincersi se le persone, o persona, come sopra responsabili, meritino, o no, d’essere ammesse al godimento del suindicato beneficio.

Attesoché, avendo il legislatore dichiarato far grazia unicamente della pena come incoraggiamento e ricompensa dello zelo efficacemente spiegato per riparare alle conseguenze della colpa cioè la negligenza, quando riesca al responsabile di nuovamente impossessarsene, o presentare la persona del fuggitivo, non è per altro ad intendersi, che in virtù del l’uno o dell’altro evento verificatosi entro la indicata latitudine di tempo, debbasi per questo ritenere abolita l’azione penale contro le persone o persona responsabile, imperocché questo concetto è recisamente respinto dallo spirito e dalla lettera della legge. È respinto dallo spirito”, perché un fatto colposo esiste sempre, quindi non è da ammettersi che di questo reato d’oscitanza, tanto più grave in chi ha il debito di essere diligentissimo, il legislatore non abbia voluto che ne sia presa cognizione dalla competente autorità nei modi dalle leggi designati; è respinto poi dalla lettera, perchè tuttavolta l’art. 277 trascritto, parla unicamente di cessazione della pena del carcere, ciò solo è segno evidentissimo che si volle anco una procedura, essendo questa condizione essenziale all’effetto che potesse essere inflitta la predetta pena, e già cominciata ad espiarsi, non potendo altrimenti aversi idea di cessazione. Rettamente per altro considerò in proposito la denunciata sentenza che se per l’arresto, o per la presentazione del fuggitivo doveva cessare la pena che stava e spiandosi, fosse logico inferirsene che per l’uno o per l’altro avvenimento, la pena non dovesse essere neppure pronunciata, quando, come avvenne nella specie, il fatto dell’arresto siasi verificato pendente il procedimento, e così, come fu detto, prima che fosse pronunciata la sentenza di primo grado confermata dalla Corte; anco in questo caso ha da ritenersi identico l’intendimento del legislatore, che non é a supporsi volesse cominciata la espiazione di una pena, che pel fatto già verificatosi avrebbe dovuto immediatamente cessare.

Attesoché immeritato sia adunque il rimprovero; infatti una volta che il ricorrente era stato inviato al pubblico giudizio, non poteva questo chiudersi con là formola di non esser luogo a procedere, importante il concetto che non avesse dovuto essere promossa l’azione penale; quindi la denunciata sentenza dichiarando il ricorrente colpevole, ed assolvendolo soltanto dalla pena, lungi dal violare, fece anzi sana applicazione della legge, dalla quale il caso concreto era regolato.

© Riproduzione Riservata

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