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67. La tosatura di una donna fascista (1947)

67. La tosatura di una donna fascista (1947)

La sentenza che vi propongo in questo post racconta uno dei periodi più complessi della storia italiana: quei concitati mesi di travagliata transizione da regime, occupazione, liberazione a quel qualcosa di nuovo che ancora non si sapeva bene cosa sarebbe stato.

Mesi di lotta e di vuoto di potere, di battaglie fratricide, di delatori, di partigiani e di fascisti, di repubblichini, monarchici e repubblicani, e di paura e speranza per il futuro.

Incertezza ancor più estrema aveva vissuto poi soprattutto chi abitava nei paesi e nelle città governate da Salò.

Proprio nei territori della Repubblica Sociale, con il d.lgs. lgt. 28 febbraio 1945, n. 73 era stata attribuita la rappresentanza del governo di Roma in capo al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia.

All’indomani della liberazione, ciò che restava dello stato fantoccio dal punto di vista “istituzionale” fu dissolto. Rimasero però le persone. Con le loro personalissime storie, i loro sentimenti, i loro ideali e convinzioni. E rimasero anche i fascisti, o comunque chi avrebbe preferito che la storia avesse preso una piega diversa. Dall’altro lato del campo in nettissima maggioranza festeggia una intera nazione insieme ai fautori della liberazione e del nuovo corso della storia.

Torniamo però alla nostra sentenza. Leggerla mi ha davvero frastornato. Potrebbe fare lo stesso effetto a tutti voi.

Siamo a Romano, in provincia di Bergamo; è il 29 aprile 1945, cioè appena quattro giorni dalla liberazione. La popolazione è in festa. A Milano quello stesso giorno viene fatto scempio dei cadaveri di Mussolini, Claretta Petacci e degli ultimi gerarchi. Dopo venti e più anni di regime, la rabbia esplode impetuosa e impazza la caccia al fascista.

A Romano, si diceva, la gente è pronta a linciare, letteralmente, gli ultimi repubblichini.

Come riporta la sentenza (Tribunale di Bergamo):

Nei giorni immediatamente successivi alla liberazione la tensione di odio contro i fascisti era altissima nella popolazione di Romano, che sembra fino a pochi giorni prima aveva dovuto subire dei soprusi. Tutta questa tensione tentò più volte di prorompere in qualche grave esplosione di ferocia. La piazza era piena di gente che chiedeva a coloro che avevano assunto tutti i poteri pubblici di ordine, e precisamente al Comando militare di presidio, di provvedere alla punizione dei fascisti, minacciando di provvedere direttamente

Tra le “punizioni” (che però scusatemi a me sapevano più di vendette) ve ne era una che mi fa rabbrividire, non certo perché si trattava di una pena efferata, ma per il senso di umiliazione che recava con sé: “provvedere al taglio dei capelli delle donne fasciste, misura punitiva che la folla – continua la sentenza – aveva appreso essere stata praticata anche in altre città“.

Il Comando in un primo momento si rifiutò. Ma la folla, questo ineffabile protagonista della storia, si legga anche l’altra La Folla, La Folla (1920) , minacciò di “ammazzare le fasciste e cospargerle di catrame“.

Non sto qui a dirvi come andarono nel dettaglio le cose, perché la sentenza è molto dettagliata. Sappiate solo che molte donne furono umiliate e  rasate a zero pubblicamente dai rappresentanti del governo, al solo scopo di placare gli animi della folla impazzita e che i giudici (fascisti fino all’altro ieri), avevano ritenuto del tutto lecita la pratica, proprio perché altrimenti sarebbe stato impossibile frenare l’impeto e l’odio popolare.

Io ora, in silenzio, lascio che la leggiate tutta.

Si tratta ancora di materia incandescente per gli odi politici non ancora sopiti da una parte e dall’altra.

Si deve pertanto obiettivamente esaminare la questione e applicare spassionatamente la regola giuridica relativa. Occorre preliminarmente ricordare che la citazione è stata spedita da parte dell’attrice contro il Pagliarini, assumendo che l’ordine di accompagnare la Perini nella sede del C.L.N. di Romano il 29 aprile 1945 e sottoporla con la violenza alla tosatura dei capelli, era stato dato dal Pagliarini, il quale pertanto ne avrebbe dovuto rispondere in sede civile, trattandosi di un reato di violenza privata anche se amnistiato.
Di contro a tale tesi della parte attrice, i risultati della prova sono stati ben più modesti e soprattutto diversi. È risultato infatti che nei giorni immediatamente successivi alla liberazione la tensione di odio contro i fascisti era altissima nella popolazione di Romano, che sembra fino a pochi giorni prima aveva dovuto subire dei soprusi. Tutta questa tensione tentò più volte di prorompere in qualche grave esplosione di ferocia. La piazza era piena di gente che chiedeva a coloro che avevano assunto tutti i poteri pubblici di ordine, e precisamente al Comando militare di presidio, di provvedere alla punizione dei fascisti, minacciando di provvedere direttamente. Tra le altre cose che la folla richiese ci fu quella di provvedere al taglio dei capelli delle donne fasciste, misura punitiva che la folla aveva appreso essere stata praticata anche in altre città. Di fronte alla resistenza del Comando suddetto, la folla minacciò di farlo direttamente e anche ci fu chi minacciò di ammazzare le fasciste e cospargerle di catrame.

La cosa divenne così grave che il col. Moretti a nome di tutto il Comando tentò più volte di invitare la folla alla calma, facondo presente che il Comando aveva in quei giorni compiti ben più ardui e importanti cui doveva far fronte. Ma la folla non intese ragione e si fece talmente minacciosa che il col. Moretti, forse di accordo col comando di presidio di cui era il capo, e di cui facevano parte il Pagliarini, tale Piccinelli, tale Cucchi ed altri, allo scopo di evitare mali peggiori, diede l’ordine allo stesso Pagliarini e agli altri di provvedere ad accontentare la folla con tre o quattro tosature, promettendo di fare nei giorni successivi le altre. A questo punto non si sa come siano state prelevate dalle loro case le donne fasciste da tosare.

Un teste riferisce che qualche partigiano fu incaricato di andare ad invitarle colla scusa di far la pulizia nei locali del Comune, e di avere sentito parlare di tosatura, quando esse furono nella casa comunale. Come non si sa con quale criterio esse furono indicate. Certo è che la Perini, a torto o a ragione, fosse additata dalla popolazione di Romano come persona di sentimenti fascisti. Anch’essa fu mostrata insieme ad alcune altre alla folla dal balcone e additata per il taglio, mentre altre invece furono fatte salve da questo grottesco giudizio popolare. In una tale situazione di fatto ravvisare la dose di una responsabilità del Pagliarini è cosa assai difficile.

Solo una teste ha riferito di aver saputo da certo Toninelli che il Pagliarini, avendo notato che nella lista della persone cui dovevano essere tagliati i capelli mancava la Perini, avrebbe esclamato che quella doveva essere anzi la prima e ve l’avrebbe inclusa. Ma sentito tale Toninelli escludeva la circostanza e, se è possibile che egli l’abbia fatto per amicizia verso il Pagliarini, parimenti è pensabile che la teste indicatrice abbia detto il contrario per simpatia verso la Perini, essendo stata tosata anch’essa in quella circostanza.

È chiaro ed è stato più volte confermato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, che quanto meno in quei giorni e in quelle circostanze i comandi partigiani esercitarono di fatto pubblici uffici, e che i loro componenti furono certamente pubblici ufficiali sotto il profilo giuridico, pubblici ufficiali che avevano, specie in quelle note contingenze, il potere di procedere ad alcuni atti di pura discrezionalità nell’interesse dell’ordine pubblico e nello stesso interesse dei poveri malcapitati, oggetto dell’odio popolare, perchè essi non venissero fatti segno a più gravi violenze. Si deve ritenere che il pubblico ufficiale che tuteli l’ordine pubblico abbia una simile discrezionalità e possa ordinare una azione che in normali condizioni sarebbe un reato, sia essa l’abbattimento di una porta di uno steccato o l’invasione di una casa, o l’insolita misura punitiva reclamata dalla folla del taglio dei capelli, se a suo avviso, così facendo, eviti mali peggiori. Specie quando, come allora avvenne, i pochi partigiani, che rappresentavano il servizio d’ordine, erano insufficienti in modo assoluto per frenare l’impeto e l’odio popolare.

Nè l’insufficienza della forza pubblica a dominare la folla toglieva ad essa la sua qualifica giuridica che di fatto aveva assunto essendo un concetto di fatto che può verificarsi anche in tempi normali.

Il limite per ogni pubblico ufficiale è sempre, sotto il profilo giuridico, quello del dolo e della colpa grave, e nella specie esso non si può dire raggiunto. In fondo non veniva permesso che un atto di offesa reale, un atto oltraggioso, accompagnato da un segno tangibile che al tempo stesso era additamento al disprezzo popolare, ma anche esauriva tutta la punizione, senza che venisse intaccato alcun diritto inalienabile o imprescrittibile, come sarebbe stato il diritto alla vita o anche alla sola integrità personale (vedi in tale senso Trib. Milano 13 agosto 1947, Foro it., 1948, I, 552). Ma soprattutto, ripetesi, non può parlarsi di responsabilità personale, laddove vi sia un atto che provenga da un organo di cui il convenuto faceva parte.

Risalga esso alla pubblica Amministrazione statale, qualora si ravvisi una tacita convalida di tutta l’opera dei partigiani, sia durante la occupazione tedesca sia nel periodo immediatamente successivo, come si potrebbe desumere dai vari decreti che, sia pure a più particolari fini, hanno riconosciuto ai partigiani la qualifica di combattenti (decr. legisl. 6 settembre 1940 n. 83 ; decr. legisl. 6 settembre 1946 n 94 ; decr. legisl. 21 agosto 1945 n. 518 ; decr. legisl. 12 aprile 1945 n. 194 ; decr. legisl. 3 maggio 1945 n. 35) oppure risalga quell’atto al Comando volontari della libertà o a similare organizzazione partigiana, che peraltro se anche si è obiettato non rappresentasse il Governo legittimo durante l’occupazione tedesca in quanto esso si sarebbe battuto per riestendere l’autorità su date zone, non dovrebbe dubitarsi che lo rappresentasse quando era caduto il precedente regime e non ve n’era subentrato ancora un altro, agendo essa organizzazione o per una utilis gestio dei pubblici poteri o per la stessa necessità creata dai fatti in base al principio della solas rei publicae; comunque è certo che assurda è la chiamata in giudizio del singolo componente di uno di quei comandi. Non si vede infatti perchè non debbano essere chiamati anche gli altri membri del Comando, che forse più del Pagliarini, ebbero peso nella decisione del taglio dei capelli ad alcune donne fasciste.

Analogamente la Suprema corte nella nota sentenza del tesoro di Dongo (sent. 11 agosto 1947, id., 1947, II, 169) presuppone che determinati valori divenuti dello Stato fossero stati trafugati da alcuni partigiani contro la volontà dell’organizzazione, chè diversamente dovevano essere posti sotto processo anche i capi delle brigate depositarie.

Nè è possibile scindere la responsabilità dei singoli componenti in base a una configurazione extracontrattuale che porti ad una solidarietà passiva, perchè non è provato e non è ritenibile che l’attività fosse illecita, essendo stata, pur nella sua stranezza e nel suo carattere certamente insolito, imposta dalle circostanze. Invero l’attrice ha forse intuito questa sua posizione logica e giuridica se ha tentato di dimostrare che il Pagliarini avrebbe di sua iniziativa denunciato e aggiunto alla lista delle tosando anche la Perini. Ma si è detto come tale prova sia fallita. Ma se anche fosse riuscita se ne può dubitare la concludenza ai fini di una responsabilità. Non diversamente sia pure ai fini penali è stato escluso per i collaborazionisti che potesse rispondere di omicidio chi avesse denunciato dei partigiani, che poi sarebbero stati fucilati dai tedeschi (Cass. 7 gennaio 1948, Riv. pen., 1948, 599) per il semplice fatto della denunzia, perchè non poteva dirsi che l’accaduto fosse voluto. Anche qui la semplice denunzia del nome della Perini quale donna fascista non può ritenersi causa determinante dell’evento. (Omissis) Per questi motivi, ecc.

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