Nei piccoli paesi, si sa, accadono sempre fatti incredibili.
Uno pensa di potersene stare sereno, che tanto tutti si conoscono, l’ambiente è tranquillo, non ci sono ladri, niente briganti o assassini, la vita scorre lenta e placida, lontana dal caos metropolitano, di generazione in generazione.
E invece no.
Normalmente, infatti l’insidia si annida proprio dove uno meno se l’aspetta. E la storia che ho scoperto in questa sentenza della Cassazione del 1931 e che vado a raccontarvi, ne è un chiaro esempio.
Teresa Panizza nel 1926 non ha che vent’anni. Vive a Oriano, in provincia di Brescia, la frazione di un comune tanto minuscolo che già nel ’27 sarebbe stato annesso a quello di Pedergnana (oggi San Paolo), anch’esso di poco più di 3000 anime.
Un posto così piccolo, in pieno ventennio, non doveva essere molto pericoloso. Eppure nel pomeriggio del 31 maggio, un lunedì, mentre stava andando a trovare sua nonna, Teresa – come una novella cappuccetto rosso (anche se tanto bambina per la verità non era) – trovatasi all’altezza di un ponte, fu avvicinata da una carrozza trainata da un cavallo bianco. Dalla carrozza si affacciarono un uomo e una donna che le chiesero indicazioni sul tragitto.
Ora, dal titolo di questo post avrete già capito dove si sta andando a parare: prima che Teresa potesse rispondere alla richiesta dei due, questi la presero, imbavagliarono, legarono e trasportarono via lontano sulla carrozza non si sa dove.
La ragazza, che aveva potuto raccontare la storia di quel rapimento, dalla qual cosa quindi si comprende che ne fosse poi uscita almeno viva, ricordava che durante il tragitto le era stato fatto fiutare un narcotico che l’aveva fatta più volte addormentare. Ricordava anche che a un certo punto si era aggiunto ai due rapitori anche un terzo personaggio: Antonio Raverselli, il suo vicino di casa.

La locandina di Little Red Riding Hood, uno dei primi cortometraggi di Walt Disney (1922)
I ricordi di Teresa si interrompono qui. Raccontò di esseri improvvisamente risvegliata, senza sapere come, in casa propria, dopo che – le era stato detto – un passante l’aveva portata dopo averla ritrovata in piena notte “distesa a terra priva di sensi e con un fazzoletto bagnato sulla bocca“.
Teresa non si perse d’animo, volle andare più a fondo sulla sua storia, e così scoprì che i rapitori erano Casaglia Gino e Ghirri Clotilde, i quali insieme ad Antonio Raverselli furono denunciati per sequestro di persona.
Non era vero niente.
E infatti, la sentenza sotto riportata, in realtà, non si occupa di sequestri di persona, ma di calunnia e infermità mentale. E sì perché la storia di Teresa era tutta clamorosamente inventata, e i tre malcapitati erano stati prosciolti già nella fase delle indagini.
Ma la cosa più bella sapete qual è?
Era venuto fuori che in verità la povera Teresa quel 31 maggio 1926, un lunedì, era sì uscita di casa per rientrarvi solo in piena notte, ma perché era stata tutto il tempo a casa del suo amante: Antonio Raverselli, il suo vicino di casa.
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La Corte : — Ritenuto in fatto, come si rileva dalla impugnata sentenza, che la ventenne Panizza Teresa denunziò prima ai RR. CC. e poi all’Autorità giudiziaria, che
nel pomeriggio del 31 maggio 1926, mentre, per recarsi a casa della nonna, attraversava un ponte nell’abitato di Oriano (Brescia), un uomo e una donna, transitanti di lì in una carrozza tirata da un cavallo bianco, l’avevano fermata col pretesto di chiederle indicazione sulla via da seguire e, improvvisamente, l’avevano afferrata e trasportata lontano, imbavagliandola, legandola e facendole fiutare, a più riprese, un narcotico, per effetto del quale più volte si era addormentata
Soggiunse di aver notato, durante uno dei suoi risvegli, che era sopraggiunto in bicicletta tal Raverselli Antonio, suo vicino di casa ed aveva confabulato con gli altri due; e concluse col dire che, alla fine, si era destata ritrovandosi, senza saper come, a casa propria, dove aveva appreso di essere stata rinvenuta a notte alta da un passante, vicino alla sua abitazione, distesa a terra priva di sensi e con un fazzoletto bagnato sulla bocca.
Successivamente la Panizza designò i due rapitori nelle persone di certi Casaglia Gino e Ghirri Clotilde, a carico dei quali, unitamente al già menzionato Raverselli, si aprì penale procedimento per correità in sequestro di persona ai sensi degli art. 63 e 146 cod. penale.
Ma, essendo, nel corso di esso, apparsa falsa la predetta denunzia, per essersi accertato che la Panizza, dalle ore 13 circa del 31 maggio 1926 sino alle due dopo mezzanotte si era, invece, trattenuta in casa del Raverselli Antonio, di cui era l’amante, furono i denunziati prosciolti in sede istruttoria e fu portata la Panizza a giudizio avanti il Tribunale di Brescia per rispondere di calunnia ai sensi dell’art. 212, parte prima, cod. penale.
Condannata per tale delitto, con sentenza 12 aprile 1929 del Tribunale medesimo, a otto mesi e dieci giorni di reclusione ed alla interdizione dai pubblici uffici per mesi tre, con i benefici di cui agli art. 423 e 427 cod. proc. pen., la Panizza produsse gravame e chiese, con motivi principali e aggiunti, specificatamente sviluppati, l’assoluzione: 1° per non aver commesso il fatto; 2° per insufficienza di prove; 3° per insufficienza di prove sul dolo. In udienza poi la difesa domandò, in via subordinata, che fosse disposta una perizia psichiatrica sulla imputata. La Corte d’appello della stessa sede, con la sopra indicata sentenza, in parziale riforma della decisione di primo grado, concesse alla Panizza la diminuente del vizio parziale di mente (art. 47 cod. pen.) e ridusse la pena a mesi tre di reclusione, che dichiarò condonati in applicazione del regio decreto 1 gennaio 1930, n. 1. Confermò nel resto il pronunziato del Tribunale.
Ha la Panizza ricorso per cassazione, presentando, a ministero dei suoi difensori, motivi principali e aggiunti, i quali si possono raggruppare e riassumere come segue :
1° motivo [omissis] 2° motivo. La istanza per una perizia psichiatrica, proposta in udienza, con riferimento anche ai motivi di appello, e fondata su certificati di sanitari, è stata respinta con motivazione non sufficiente nè logica dalla Corte di merito, che credette di poter statuire non esser l’infermità della Panizza tale da toglierle la coscienza e la libertà dei propri atti. Nè la stessa Corte ha considerato che, non riconoscendosi altra causale del delitto se non l’isterismo della Panizza, s’imponeva la predetta perizia;
3° motivo. Ammesso che la denunzia della Panizza sia stata una creazione della sua fantasia, appare suggerita da uno stato morboso, piuttosto che dalla coscienza d’incolpare taluno che sapeva innocente. Al riguardo di questo aspetto subbiettivo del reato la sentenza impugnata non ha motivato sufficientemente. Che anzi la Corte d’appello non esaminò il motivo di gravame relativo alla inesistenza del dolo, confondendolo con l’altra istanza difensiva riferentesi alla scrivimante della infermità mentale, come rilevasi dal ragionamento contenuto in sentenza, dove risultano altresì confuse le norme dell’art. 45 c.p. con quelle degli artt. 46 e 47.
I motivi addotti dalla Corte di merito per negare la perizia psichiatrica richiesta dalla difesa non rispondono alle esigenze di una coerente ed esauriente argomentazione logico-giuridica, come si è lamentato nei motivi di ricorso.
Ed infatti, nella sentenza in esame, prima si riconosce, in parte, fondato l’assunto della difesa sulla documentazione in atti; poi si nega che questa sia concludente allo scopo, in sostanza, perchè la tesi di una totale infermità di mente si ritiene contrastante con il comportamento della Panizza nell’organizzare il trucco, nell’accusare e nel difendersi; ma, infine, si conclude col con cedere, senz’altro, la minorante prevista dall’art. 47 c.p.
Ora, a parte la sommarietà onde il delicato argomento appare trattato, è poco prudente, se non addirittura erroneo, il ricorrere, allorché sorga questione sulla infermità mentale dell’ imputato, al criterio di considerare la astuzia e l’abilità manifestate da costui durante o dopo il delitto come indice sicuro di mente sana, o, per lo meno, non affetta da disturbi morbosi tali da togliere al l’agente la coscienza o la libertà dei propri atti.
Come già questo Supremo Collegio ha altre volte osservato al riguardo, è noto che alcuni veri e propri stati patologici della psiche possono non essere dissociati da manifestazioni, in apparenza normali, di intelligenza e di sottile scaltrezza; onde occorre che con molta ponderazione proceda il magistrato di merito nel valutare il contegno dell’imputato per dedurne la inutilità di una indagine tecnica, intesa a meglio scrutarne la personalità fisica e psichica, in rapporto al delitto addebitatogli, segnatamente quando, come nella specie, non disconosce di trovarsi di fronte un soggetto isterico.
Ma sopratutto, poi, la sentenza impugnata risulta manchevole e perplessa circa l’elemento del dolo, sebbene, con apposito motivo d’appello, se ne fosse contestata la esistenza e la prova. Parrebbe, invero, che su questo punto, come giustamente si è rilevato nel terzo motivo, la Corte di merito, avendo confutato (e si è già visto quanto imperfettamente) le deduzioni propugnanti la necessità di una perizia psichiatrica, ed avendo adottato la soluzione di concedere la diminuente prevista dall’art. 47 c.p., abbia ritenuta assorbita ogni indagine sull’estremo intenzionale del reato. Ma l’errore risulta evidente, considerando che l’indagine sulla esistenza o meno di una infermità mentale nella persona chiamata a rispondere di un reato, e quella che concerne la sussistenza o meno del dolo, sebbene abbiano correlazione, perché entrambe investigano nel campo della psiche umana non vanno però confuse tra loro; in quanto la prima riguarda l’imputabilità dell’agente, cioè la sua generica capacità di rispondere penalmente del fatto commesso, mentre la seconda appartiene alla ricerca di quel complesso di condizioni, preveduta dalla legge, dal concorso delle quali sorge in concreto la penale responsabilità a carico dell’imputato. Onde l’esito negativo, in tutto o in parte, della prima indagine (razionalmente anteriore all’altra) non dispensa il giudice dall’obbligo di accertare il dolo, quale elemento costitutivo del reato, e di darne adeguata ragione nel suo pronunziato.
E tanto più dovendosi riconoscere necessario, nella fattispecie, lo stabilire esplicitamente se la Panizza ebbe la volontà effettiva e la coscienza di formulare incolpazioni calunniose, in quanto queste investivano lo stesso amante di lei; il che (come è stato anche notato con riferimento alla pur non trascurabile ricerca di una causale del delitto) appariva inesplicabile. Ma la sentenza impugnata non fornisce, su ciò, i necessari chiarimenti, manifestando vieppiù una insanabile deficienza di motivazione, che, per essere in contrasto col precetto dell’articolo 414, n. 3 c.p.p., impone l’annullamento della sentenza medesima con rinvio della causa, per nuovo esame, ad altri giudici di merito.
Per questi motivi, cassa e rinvia alla Corte di appello di Milano.
(Il foro italiano, 56, II, 1931, 243)