«Troppi avvocati!» tuonava Piero Calamandrei in un celebre saggio nel 1921. Sì, ma… «Quali avvocati?», gli fa eco, a cento anni esatti di distanza, Nicola Di Molfetta, giornalista specializzato nel settore legale, con un libro che mette a fuoco la fisionomia, le opportunità e le necessità dell’ecosistema legale nell’Italia di oggi.
Sovvertendo un po’ l’ordine naturale delle cose, stavolta è l’avvocato a intervistare il giornalista, per parlare dei due volumi editi in coppia da LC Publishing.
Come nasce l’iniziativa – anzi l’arditissima iniziativa – del tête-à-tête con Calamandrei?
Nel 2021 cadeva il centenario di Troppi avvocati!, un pamphlet “mitico” in cui Calamandrei, sferzante nei confronti della categoria come neanche il più cinico degli odierni cronisti di mercato legale potrebbe essere, lamentava il problema del “troppismo forense”.
Un testo che tutti citano, che nessuno legge, diventato quasi introvabile. Che pone una questione più che mai viva. Così, grazie al consenso degli eredi di Calamandrei, abbiamo deciso di ripubblicarlo insieme a un controcanto contemporaneo: arditissimo, è vero, perché accostare il proprio nome a quello di Calamandrei non è una cosa che si fa con leggerezza.
Gli avvocati sono tanti, troppi: oramai questo è un problema irrisolvibile, vista la quantità che si è raggiunta. Quello su cui si può ragionare, però, è che i tanti avvocati sanno fare tante cose diverse. E da qui nasce l’idea di Quali avvocati?.
Ma tornando a quanti avvocati, qual era il rapporto fra popolazione e avvocati dell’epoca rispetto a oggi?
All’epoca, su 39 milioni di italiani, c’erano 25.000 avvocati, quelli che per Calamandrei erano appunto troppi. Oggi siamo 60 milioni e gli avvocati sono saliti a 246.000, di cui molti concentrati a Milano e, ancora di più, a Roma. L’incidenza degli avvocati è sempre stata alta, ma il problema – se problema vogliamo definirlo – si è aggravato.
Certo non tutti svolgono attivamente la professione: di fatto esercitano solo circa 150-180.000, ma non dobbiamo dimenticare che oltre agli oltre iscritti all’Albo ci sono tutti i legali in house che attività di consulenza legale all’interno delle aziende. E poi c’è da considerare gli oltre 40.000 avvocati nel settore pubblico.
Rispetto ai tempi di Calamandrei il mondo degli avvocati è molto cambiato. Tu, che lavori nell’ambito della comunicazione legale, ti interfacci spesso con avvocati d’affari, professionisti che hanno un’immagine pubblica e che volte sono delle vere e proprie star.
Pensa che io volevo fare il giornalista musicale e avere a che fare con le rockstar, adesso ho comunque a che fare con personaggi importanti, solo di un mercato diverso e molto complicato. Hanno grande visibilità, grande influenza, sanno di averla e la esercitano. Ma non sono così spregiudicati come uno potrebbe immaginare: anzi, sono molto umani e a tratti anche fragili.
Quali sono stati i principali cambiamenti?
È avvenuto un vero sconvolgimento. Chi ha iniziato la professione 20 o 30 anni fa ha conosciuto un sistema molto diverso, anche nei rapporti con i clienti. Oggi queste relazioni si sono ribaltate, non esiste più la “deferenza” del cliente nei confronti dell’avvocato e si è sdoganata un’idea dell’avvocatura come impresa di servizi che anche solo pochi anni fa sarebbe apparsa come un sacrilegio. Ai tempi di Calamandrei, poi, non esisteva neanche l’idea che la professione si esercitasse in maniera organizzata, che lo studio dell’avvocato potesse essere una “impresa”.
Quando hanno cominciati a emergere i grandi studi d’affari?
Tra gli anni ’70 e ’80 sono cresciuti molto studi come Chiomenti o Carnelutti, ma allora essere “grandi” voleva dire che vi collaboravano circa 30-40 avvocati, dimensioni che oggi definiremmo da boutique. Il primo studio straniero ad arrivare in Italia fu Baker McKenzie all’inizio degli anni ’60. Il grosso degli studi stranieri però è arrivato dalla metà degli anni ’90, arruolando avvocati italiani: grandi giuristi che non sempre avevano idea di cosa volesse dire lavorare in una struttura organizzata più simile a un’azienda che non all’idea classica di studio legale.
L’avvento dei grandi studi probabilmente è andato di pari passo con la crescita dei grandi gruppi industriali privati, che ha avuto un importante momento di svolta con le privatizzazioni.
Non è un caso che l’avvocatura d’affari e i grandi studi organizzati nascono prevalentemente a Roma, mentre Milano era ancora la città degli studi professorali.
I nati negli anni ’50 e ’60 hanno vissuto la transizione, adattandosi a un mondo nuovo, in cui hanno ottenuto spesso posizioni di leadership. Adesso c’è una nuova generazione di “nativi aziendali” dell’avvocatura, nati cioè in questo nuovo contesto, che a loro volta avranno a che fare con i cambiamenti del prossimo futuro.
Quanti sono gli avvocati che oggi lavorano in maniera “organizzata”?
Sono circa 50.000 gli avvocati che operano in studi d’affari o studi che stanno sposando questo tipo di modello.
Anche i penalisti, che sono sempre stati considerati i meno coinvolti da questa evoluzione, in realtà si stanno muovendo nella stessa direzione: o integrandosi con grandi strutture o ristrutturandosi in termini di governance, business development e marketing.
Numeri alla mano, però, la maggior parte dei professionisti lavora ancora nelle modalità tradizionali, magari in proprio. Secondo te questo mondo scomparirà?
Non del tutto, ma tra riforme dell’organizzazione della giustizia che prima o poi arriveranno e l’introduzione di forme di risoluzione dei conflitti alternative rispetto a quelle del passato, è possibile che una certa tipologia di lavoro di cui si occupano gli avvocati “tradizionali” verrà via via meno. Probabilmente, allora, quegli avvocati dovranno riorganizzare il loro mestiere: forse dovranno lavorare di più sui volumi, sulla serialità.
Tanta parte del lavoro legale su cui gli avvocati non hanno l’esclusiva sarà probabilmente assolta da altri. Ma degli avvocati ci sarà comunque bisogno: pensiamo al fronte digitale, dove c’è una prateria di diritti che ancora non è disciplinata.
Non è una caratteristica intrinseca degli avvocati abituarsi alle novità?
Il salto tecnico sono abituati a farlo, studiando, aggiornandosi, imparando. C’è però anche un salto culturale da fare, e molti lo stanno facendo o lo dovranno fare. L’errore più grande che si può commettere è pensare di potersi occupare per tutta la vita delle stesse questioni e nello stesso modo. La dimensione individuale dello studio legale oggi non sempre riesce a soddisfare le esigenze dei clienti.
Tantissimi professionisti che hanno fatto esperienza nelle grandi realtà stanno importando anche in provincia questo nuovo modo di svolgere la professione con delle strutture organizzate.
Ma quindi, in conclusione, se dovessi rispondere in una sola frase: quali avvocati?
Traggo una citazione direttamente dal libro: «Lo specchio, dinanzi al quale la professione si è intrattenuta per troppo tempo, deve diventare una finestra affacciata sul mondo e in posizione utile per comprenderne bisogni e necessità. Questa è la condizione indispensabile per l’affermazione di un’avvocatura nuova. Di un’avvocatura utile».
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