Dalla rivista Giustizia penale del 1935, la storia di Camilla Catapano, 25 anni, non più vergine, costretta a subire le vessazioni del “fidanzato” che con la minaccia di lasciarla la tiene “di notte impastoiata nel letto e di giorno incatenata per il collo di un piede alla macchina da cucire”, sotto lo sguardo inerme della famiglia.
Il 25 novembre ricorre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Un’occasione che impone una riflessione sul nostro presente, ma anche uno sguardo sul nostro passato. Per questo abbiamo deciso di proporvi la storia di una vicenda oggetto di un celebre processo negli anni Trenta, drammaticamente esemplare della condizione femminile a quei tempi.
Si tratta della storia di una relazione fatta di soprusi e violenze, in cui una ragazza, non più vergine, accetta per colpa dei pregiudizi sociali e il terrore del “disonore” di essere vessata in maniera disumana dal fidanzato, che minaccia di lasciarla sola e, nella sua cieca e morbosa gelosia, arriva a sequestrarla nella sua stessa casa.
Una storia di quasi cento anni fa, ma che forse non è poi così antica.
La storia: Palagiano (TN), 1933
Le vicende sono tratte da una sentenza della Corte di Cassazione del 24 giugno 1935. Il tutto ha luogo a Palagiano, un paese a pochi chilometri a ovest di Taranto. Lì viveva Camilla Catapano, 25 anni, insieme alla madre e ai fratelli minori. Il padre Angelo, invece, risiedeva a Taranto per lavoro.
Camilla Catapano si era fidanzata con il ragioniere Mario Praticò, anch’egli un giovane di 25 anni. Ben presto la gelosia di lui divenne un mostro e dall’agosto 1933 al luglio 1934 sottopose la donna a un vero e proprio martirio morale e fisico.
Prima le impose di farsi allungare i capelli e di vestire abiti lunghi e accollati. Poi la obbligò a non uscire dalla propria camera da letto e di non ricevere estranei alla famiglia. Ogni volta riusciva a ottenere la sottomissione di Camilla minacciando di abbandonarla, lasciandola, lei che non era più vergine, “disonorata”.
Con questo ricatto arrivò addirittura a imporle di non lavarsi più, se non in sua presenza. Per accertarsi che non contravvenisse al suo divieto scriveva il proprio nome con un lapis copiativo sul viso della ragazza.
Basterebbe già questo per ritenere agghiacciante la violenza, ma nell’ultimo mese accadde di più.
Ogni notte il Praticò mandava a letto la fidanzata con i piedi legati da una fettuccia di tela. Di giorno invece usava una catenella da lavandino per tenerla legata al piede della macchina da cucire. Con un capo della catenella stringeva il collo di un piede di Camilla e assicurava l’altro capo al piede della macchina, poi riuniva i due capi e li fermava con un lucchetto, che chiudeva portando con sé la chiave.
Camilla sopportava tutte queste atrocità per paura del disonore, ma evidentemente anche i familiari lasciavano – succubi o complici – che tutto ciò accadesse in casa loro. Finché a un certo punto non fu informato il padre a Taranto, che subito corse a Palagiano e denunciò il tutto ai Reali Carabinieri.
Questi irruppero in casa Catapano attorno alla mezzanotte del 20 luglio 1934 e trovarono Camilla ancora incatenata alla macchina da cucire in uno stato fisico e morale commiserevole. Appariva sofferente, denutrita, disfatta: il collo del piede incatenato era tumefatto, dal suo corpo esalava un odore nauseante, la mente dava segno di agitazione e squilibrio.
I Carabinieri arrestarono Mario Praticò, che trovarono in casa sua e in possesso della chiave del lucchetto. Interrogato, non negò i fatti: disse di avere agito per gelosia e col pieno consenso della fidanzata.
Il processo in Corte d’Assise
Il Praticò venne rinviato a giudizio davanti alla Corte di assise di Taranto, imputato del delitto di plagio, per aver sottoposto Camilla al proprio potere fino ridurla in totale stato di soggezione per un anno.
Al dibattimento, il procuratore generale riformulò le accuse in sequestro di persona o di violenza privata.
Ma la Corte, con sentenza del 26 gennaio 1935, assolse il Praticò, considerando che il fatto ebbe la “sola” gelosia come movente, che la donna fu lasciata nella propria famiglia, che la minaccia di rompere il fidanzamento non costituiva un’ingiustizia, non essendovi alcuna legge che obbligasse il Praticò a mantenere il fidanzamento e a sposarla, e che il tutto, persino le vessazioni, accadde col consenso di lei.
Quante storie simili, allora, finirono così? Quanti fidanzati “gelosi” rimasero impuniti?
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Il ricorso in Cassazione e la difesa dell’imputato
Il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Bari ricorse direttamente in Cassazione, denunciando che di consenso non si poteva parlare, giacché questo era stato estorto con la minaccia ingiusta dell’abbandono e che, anche se la Catapano era rimasta in famiglia, era stata comunque vittima di un sequestro, perché non poteva validamente disporre della propria libertà personale.
La sentenza della Cassazione da cui la vicenda è tratta è corredata da una lunga nota. Contiene l’intero testo della difesa dell’imputato, difeso dall’Avvocato Escobedo, uno dei più noti penalisti del tempo, nonché direttore della rivista su cui la decisione era pubblicata (Giustizia Penale). Escobedo precisava che “La singolarità della fattispecie (in cui sono evidenti le condizioni psichiche anormali del soggetto attivo per morbosa gelosia) ci consiglia di pubblicare le ragioni difensive prospettate nell’interesse dell’imputato“.
In particolare, l’avv. Escobedo sosteneva che
siffatte limitazioni e rinunce limitazioni e rinunce vengono chieste ed accettate continuamente fra fidanzati, senza che si sia mai pensato di portarne il dibattito dinanzi alla Corte d’assise.
D’altra parte – continuava il legale – la situazione era quella normale tra due fidanzati, “uno dei quali per eccesso di gelosia è in continuo orgasmo e chiede alla fidanzata come prova della sua fedeltà rinunce e limitazioni, che essa accetta.
Nulla di più normale, dunque, tanto più che la vicenda si era svolta tutta al Sud, dove come è noto – sempre secondo Escobedo – era normale che una ragazza, per dimostrare il proprio amore accettasse di non uscire più di casa per evitare il rischio di rompere un fidanzamento.
Nelle province meridionali la fidanzata accetta di non uscire più di casa durante tutto il periodo di fidanzamento e l’infrazione di questa rinuncia porta senz’altro alla rottura del fidanzamento: dovrebbe perciò il fidanzato rispondere di carcere privato?
Parole che dipingono una realtà tragicamente comune e che si concludono così: “Gli eccessi che nella specie si sono verificati vanno riportati a una mente sconvolta dalla gelosia“, ma – giustificava – “restano nell’ambito dei rapporti tra fidanzati gelosi”.
La Cassazione si pronunciò sul caso con le parole che vi riportiamo di seguito.
La sentenza della Cassazione, 24 giugno 1935
Osserva il Supremo Collegio che, per quanto si voglia indulgere alla gelosia – che è travaglio dell’animo degli uomini timorosi che altri possano godere della cosa da loro amata –, qualsiasi consorzio civile non può giungere alla discriminazione di fatti come questi commessi da Praticò Mario.
Costui disonora la fidanzata: spinto da gelosia, e con la minaccia dell’abbandono – indubbiamente grave e ingiusta per la giovane disonorata –, sottopone costei all’umiliazione di tutto quanto è giusto e sociale sentimento e bisogno di una giovane donna [è interessante che la Cassazione avesse incluso fra le limitazioni anche le imposizioni sul modo di portare i capelli e sull’abbigliamento, un’attenzione alla libertà intesa anche come espressione della personalità che all’epoca non era affatto scontata, ndr]. Indi la relega entro una camera, le divieta di uscire, di affacciarsi, di ricevere persone non familiari. Quindi le proibisce di attendere liberamente ai più intimi bisogni della vita corporale.
Infine, come di notte la impastoia nel letto, così di giorno la incatena per il collo di un piede alla macchina da cucire.
Simile intollerabile trattamento dura e si protrae per mesi e mesi. Sicché la giovane infelice, privata di ogni movimento, della necessaria igiene per la propria persona, umiliata e addolorata, si riduce fisicamente, moralmente e igienicamente in quello stato preoccupante e pietoso in cui i RR.CC. l’hanno trovata nella notte tra il 20 e il 21 luglio.
Il Praticò facendo quanto ha fatto ai danni della Catapano ha sequestrato la persona: giacché l’essenza di questo delitto sta nel porre materialmente una persona in tale condizione da non poter usare della sua libertà di locomozione, sia in toto sia anche entro i limiti assegnati dal soggetto attivo.
Per il delitto di sequestro di persona sono indifferenti il modo usato e il fine voluto dall’agente.
Se i codici toscano e sardo parlavano di persona rinchiusa, arrestata, detenuta, sequestrata, il codice vigente – come anche quello testé abrogato – parla esclusivamente di privazione della libertà personale. Privazione che si verifica tanto se il soggetto passivo viene rinchiuso in un carcere quanto se lasciato nella propria abitazione ma privato della libertà di locomozione.
Così pure nulla influisce sull’esistenza del delitto di sequestro il fine che mosse l’agente. Agisca costui per lucro, per gelosia, o per qualsiasi altro movente, se egli agisce contra legem o fuori di quei limiti che sono eccezionalmente tollerati dal nostro ordinamento giuridico in vista di inveterate tradizionali situazioni, viola l’inderogabile principio di diritto pubblico e di morale sociale, che impone la inviolabilità personale.
Il consenso della Catapano non porta all’inesistenza del delitto di sequestro di persona. Già il consenso fu estorto dalla minaccia di abbandono, e non vi è consenso valido quando non fu libera la manifestazione di volontà. La minaccia fu ingiusta e grave.
Ingiusta perché la donna nulla aveva fatto che potesse lasciar dubitare della sua fedeltà al Praticò e anche grave perché, forse, non vi è più grave minaccia di quella dell’abbandono fatto dal fidanzato a una giovane che all’amore ha fatto il sacrificio di sé stessa.
Ma poi in subietta materia non può ammettersi la validità discriminatrice del consenso. La nuova norma codificata dall’art. 50 c.p. dichiara non punibile chi lede o pone in pericolo un diritto col consenso della persona che può disporne, in quanto si tratti di un bene disponibile. Ma nella specie la Catapano come non dispose validamente del consenso, perché viziato da violenza morale, così non aveva la disponibilità del bene, alla cui lesione si pretende che avesse consentito.
Questo bene era la propria libertà personale.
Ma dove, come nella fattispecie, vi fu la coscienza e la volontà di privare la Catapano della libertà personale, dove questa privazione fu lunga, tormentosa, disumana, qualunque consenso del soggetto passivo non elimina il reato.
Adunque il fatto imputato al Praticò costituisce il reato di sequestro di persona ai sensi dell’art. 605 c.p.
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