Il codice penale Zanardelli, dal nome del ministro di Grazia e Giustizia che ne promosse l’adozione, venne emanato con regio decreto il 30 giugno 1889 e fu in vigore dal 1890 al 1930.
Fino al 1889, nella penisola vigeva il codice penale albertino del 1839, fuorché in Toscana, dove si mantenne il codice penale locale che, a differenza di quello sabaudo, non prevedeva più la pena di morte – primo in Europa a recepire la lezione di Beccaria, già nel 1786. Il codice del 1889 abolì poi la pena capitale per tutta l’Italia, mentre la maggior parte dei Paesi europei vi faceva ancora ricorso.
Un altro elemento di grande modernità del codice fu il recepimento dell’idea, cara a Zanardelli, che le pene non dovessero solo intimidire e reprimere, ma che servissero soprattutto una funzione rieducativa. In questa prospettiva umanizzante del diritto penale, fu percepita l’esigenza che le leggi fossero scritte in maniera comprensibile per chiunque, “in modo che anche gli uomini di scarsa cultura possano intenderne il significato; e ciò deve dirsi specialmente di un codice penale, il quale concerne un grandissimo numero di cittadini anche nelle classi popolari, ai quali deve essere dato modo di sapere, senza bisogno d’interpreti, ciò che dal codice è vietato”.
Il codice Zanardelli si pose invece in continuità con il codice napoleonico del 1810 e con il codice sabaudo per quanto riguarda i valori ritenuti meritevoli di tutela penale, il che gli valse la critica, prevalentemente da parte dei positivisti, di essere un testo obsoleto. Con essi condivideva l’ispirazione liberale e il conseguente rigore sanzionatorio contro ogni limitazione di libertà dell’individuo. Di matrice liberale fu l’abolizione dei reati di stampa e di opinione, nonché il mantenimento dell’approccio garantistico introdotto grazie all’illuminismo. Traguardi di laicità furono la non equiparazione dell’aborto all’infanticidio e la punibilità della bigamia in quanto delitto contro l’istituzione familiare (e dunque contro la società), invece che contro la religione.
Il codice contava 498 articoli ed era suddiviso in tre parti: una sui reati e sulle pene in generale; una sui delitti; una sulle contravvenzioni. Con esso cessò infatti di esistere l’ulteriore categoria dei crimini, che fino ad allora ricomprendeva le violazioni più gravi. Le pene furono mitigate e individuate solo nei minimi e nei massimi, lasciando ai giudici il compito di quantificarle di volta in volta all’interno di tali intervalli. Per la prima volta si diede rilievo all’elemento soggettivo del reato e furono di conseguenza previste delle cause di giustificazione. A differenza di quanto previsto dal codice albertino, i minorenni non venivano considerati imputabili anche se maggiori di 14 anni, a meno che il giudice non valutasse che fossero capaci di intendere e di volere al pari di un adulto.
Con l’avvento del fascismo, molte disposizioni del codice Zanardelli vennero disattese, fino a che, nel 1930, fu del tutto sostituito dal codice Rocco. Nonostante con l’entrata in vigore della Costituzione molti caldeggiarono un ritorno al codice del 1889, il codice Rocco è rimasto in vigore fino a oggi. Il codice Zanardelli, abrogato interamente solo nel 2010, rivive ancora nel diritto penale dello Stato della Città del Vaticano, che lo recepì nel 1929 in seguito ai Patti Lateranensi assieme all’intera legge italiana dell’epoca.