Alfredo Rocco nasce a Napoli il 9 settembre 1875, da famiglia nobiliare (la madre è marchesa), e si laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Genova nel 1896.
La sua famiglia, definita da Indro Montanelli “un allevamento di cavalli di razza”, vedeva figure di enorme rilevanza, tra cui il fratello Arturo Rocco, ben noto giurista, professore di Procedura Penale e partecipe alla commissione di lavoro per la redazione del codice penale, ricordato in particolare per i suoi scritti sull’oggetto del reato e la tutela giuridica penale, ed anche R. Ugo (professore di Procedura Civile) e Ferdinando (presidente del Consiglio di Stato e poi della Cassa per il Mezzogiorno in epoca repubblicana).
Professore di Procedura Civile, Diritto Commerciale, Legislazione economica in diversi atenei, da ultimo presso l’Università di Roma dove ricoprì anche la carica di Rettore, convinto nazionalista da prima della Grande Guerra, aderisce al Fascismo diventando dapprima Presidente della Camera dei Deputati (dove in quella sede dichiarò a Matteotti di procedere col suo intervento ma “con prudenza”), e poi dal 1925 Ministro di Grazia e Giustizia, è considerato senza dubbio il pensatore e l’artefice della costruzione giuridica dello Stato fascista.
Mantenne la carica di Ministro fino al 1932, e morì a Roma il 28 agosto 1935.
Fu anche estremamente proficuo nella pubblicazione di scritti giuridici e politici, a partire dagli anni ’10.
Come detto, Rocco è considerato all’unanimità “l’architetto istituzionale” dello Stato fascista.
Sue sono le principali riforme strutturali approvate tra gli anni ’20 e ’30.
L’emanazione del nuovo Codice penale (datata 19 ottobre 1930, ed in vigore dal 31 luglio successivo) si inserisce doverosamente nell’insieme delle principali riforme operate dal Regime per superare il precedente sistema istituzionale di natura liberale.
In realtà il precedente Codice penale “Zanardelli”, che prendeva il nome da Giuseppe Zanardelli, Ministro di Grazia e Giustizia e poi Presidente del Consiglio, era in vigore da poco tempo, ossia dal 1889, e a sua volta era il risultato di ampi lavori preparatori. Già quel codice era considerato al passo con i tempi, in quanto portatore dei nuovi principi liberali, quali l’eliminazione della pena di morte e la previsione di nuove modalità di esecuzioni di pene di breve durata, tra cui la prestazione di opera di lavori di pubblica utilità.
Ma nonostante fosse vigente da pochi decenni, quel codice era considerato obsoleto, o meglio, non più in grado di reprimere i “nuovi” fenomeni criminali.
Quella concezione liberale del diritto penale mal si coniugava con l’idea che il Fascismo doveva infondere, ossia di saper reprimere ogni fenomeno criminoso con la forza.
C’era bisogno di un nuovo Codice doveva essere molto più rigoroso e severo.
Ecco cosa diceva il Ministro Rocco il 27 maggio 1925 durante la discussione alla Camera dei Deputati per l’approvazione della legge che delegava il Governo a redigere il nuovo Codice.
“In sostanza i mutamenti che si sono verificati nella struttura sociale, economica e politica del popolo italiano negli ultimi 35 anni, sono così profondi, che non è possibile che il Codice penale non appaia rispetto ad essi antiquato”.
La risposta si concretizzò con un generale inasprimento delle pene, con prevalente spazio alla detenzione, e prevedendo aggravi in caso di ubriachezza o intossicazione da sostanze stupefacenti (con contestuale irrilevanza di stati emotivi e passionali), nonchè trattamenti sanzionatori particolarmente severi come nel caso di “recidivi”, ossia chi era già stato precedentemente condannato per altro reato.
La parte speciale del Codice, i singoli reati, fu poi impermeata di incriminazioni per sciopero, manifestazioni politiche, e altri fattispecie illiberali, ripristinando la pena di morte per i reati più gravi.
Ma ciò, secondo il progetto di Rocco, non forniva strumenti sufficientemente efficaci nel contrasto alla criminalità, o per meglio dire, ai nemici del regime.
Ed infatti fu introdotta una importante novità, che segna unitamente alla reintroduzione della pena capitale la significativa differenza col Codice Zanardelli, ossia la previsione delle misure di sicurezza.
Sempre nella stessa seduta prima richiamata, il Ministro Rocco disse:
“La difesa dello Stato contro la criminalità, prima abbandonata ai soli mezzi repressivi (sanzioni penali e civili) [si accompagnerà] con nuovi mezzi preventivi (misure di sicurezza), in cui trovano attuazione i principi della scuola positiva, senza negare i principi fondamentali della scuola classica”.
Nasceva quindi il sistema del doppio binario. Oltre alla pena prevista per i reati del Codice, si poteva aggiungere (o sostituire) una misura di sicurezza, applicabile contro soggetti considerati pericolosi. Potevano essere applicate anche a soggetti non imputabili per incapacità di intendere o volere ed altro.
Sosteneva Rocco:
“La differenza tra misura di sicurezza e pena, riguardo agli scopi, lo dimostra: le misure di sicurezza sono una difesa contro il pericolo di nuovi reati sia da parte del reo, sia da parte della vittima e dei suoi familiari, sia da parte della collettività”.
Le misure di sicurezza erano commisurate alla pericolosità sociale e potenzialmente indeterminate nel massimo. In altre parole, potevano essere revocate solo al venir meno della pericolosità dell’autore.
Tra le misure di sicurezza più frequentemente applicate, vanno ricordate il ricovero presso manicomio giudiziario, l’assegnazione presso comunità agricola o di lavoro, ma anche misure definite “non detentive”, tra cui la libertà vigilata e il divieto di soggiorno in uno o più Comuni.
Concludendo, cosa resta dopo 90 anni della formulazione originale del Codice Rocco?
Nonostante i numerosissimi interventi legislativi subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione e poi della Corte Costituzionale, l’assetto strutturale è rimasto in linea di massima immutato (vanno registrati vari tentativi poi andati a vuoto di elaborazione di un nuovo codice), ovviamente “ripulito” da elementi tipicamente fascisti quali la pena di morte e figure di reato illiberali e liberticide.
Inoltre, modalità di esecuzione di alcune pene come le prevedeva il Codice Zanardelli, sono state col tempo “reintrodotte” al fine di mitigare la rigidità del suo successore.
La domanda sorge spontanea: perché non è stato reintrodotto il Codice Zanardelli o redatto un nuovo testo?
La questione è stata oggetto di numerose discussioni anche all’interno del neo Parlamento all’indomani della fine del II Conflitto Mondiale.
Il pensiero prevalente era che il Codice seppur emanato nell’epoca fascista, non fosse permeato dall’ideologia totalitaria, quanto invece il risultato di filoni ideologici e culturali differenti.
Anzi, vi è chi ritiene che tra la normativa di Rocco e quella liberale di Zanardelli ci siano profonde continuità, tra le quali la permanenza del principio di legalità. Non va dimenticato che il Codice Rocco prevedeva la non retroattività della legge penale.
Solamente la parte speciale era connotata dall’impronta fascista, oggi superata dai vari interventi del Parlamento e della Corte Costituzionale.
Bibliografia:
Archivio storico del Senato della Repubblica, ALFREDO ROCCO – DISCORSI PARLAMENTARI, ed. Il Mulino 2005.
Giulia Simone, ALFREDO ROCCO, ed. Il Poligrafo 2013.
E. Fiandaca-G. Musco, DIRITTO PENALE, parte speciale, ed. Zanichelli 2011.
Tullio Padovani, DIRITTO PENALE – parte generale, ed. Giuffrè 2019.