Nel 1922 avanti al tribunale di Alessandria comparvero tre individui accusati per truffa. Ma, come confessarono, la loro era una società di truffatori con un movente perfetto.
In tribunale, si sa, capita che i giudici si trovino dinanzi a imputati che tentano di tutto pur di dimostrare la propria innocenza, o quanto meno convincere i presenti dell’ingenuità, la buona fede o persino la validità morale delle male azioni compiute. Fu questa l’implausibile strategia che usarono tre imputati comparsi nell’aprile 1922 nelle aule del Tribunale di Alessandria.
Chiamati in giudizio erano tali Locardi Felice, Cassini Luigi e Scovenna Giovanni, accusati di truffa ai danni di alcuni negozianti dei dintorni. A Vincenzo Gandelo da Nizza Monferrato avevano spillato 8.000 lire, a Mario Biffignandi da Vigevano ben 17.000 lire e a Tarquinio Taverna da Alessandria altre 8.000 lire, per una somma totale che ammontava a circa 35.000 lire: un colpo niente male!
Insieme ad alcuni complici avevano messo a punto il loro sistema, che si svolgeva quasi come un’indagine poliziesca: ricercavano persone che intendessero acquistare merce rubata; quindi la merce veniva offerta a prezzi vantaggiosi, ma all’atto del contratto esigevano una caparra in attesa della spedizione della merce, che naturalmente non arrivava più a destinazione.
In tal modo erano caduti nella rete i commercianti avidi di guadagno: il Taverna aveva comprato diecimila metri di tela, al Gandelo furono venduti venti quintali di formaggio parmigiano e col Biffignandi raddoppiarono la dose, vendendogli ben quaranta quintali pure di formaggio. Nessuna di queste prelibatezze – è chiaro – finì mai nelle mani dei negozianti.
Giunti in tribunale, i tre imputati e i loro complici (tranne due, Moreno e Vercillo) confessarono subito, ma non senza giustificarsi. Essi infatti non avevano inteso di truffare, ma… di epurare la società dagli speculatori e dai ricettatori, che la infestano.
Tra i più nobili intenti, senza dubbio, signor giudice.
O no? Ebbene, il Tribunale diede alla versione degli abili truffaldini un degno seguito, condannandoli Locardi e Scovenna a 5 anni e 4 mesi di reclusione e 300 lire di multa e Cassini a solo 4 anni più un anno di vigilanza. Pure i loro complici si beccarono da 10 mesi a 4 anni di reclusione.
Forse poco rispetto ai proventi che la “nobile società d’intenti” aveva maturato con i suoi inganni, non trovate?
Fonte: La Stampa, 20 aprile 1922
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