Le prime battute d’arresto del cd. “miracolo economico italiano” concessero lo spazio necessario, da un lato, alle tensioni politiche internazionali, in aumento con l’inasprirsi della Guerra Fredda, di emergere dal sottotraccia per entrare in maniera più o meno diretta negli affari istituzionali interni. Sotto altro aspetto, invece il mancato consolidamento della programmazione economica che fin lì garantì una situazione di grande crescita gettò le basi per le future tensioni sociali, esplose con i movimenti sessantottini e degenerate nella lotta terroristica.
L’estate del 1964 fu l’apripista a questa fase citata, una delle più delicate e drammatiche del Paese, e il fulmine a ciel sereno cadde proprio sul vertice dello Stato: il Quirinale.
Breve antefatto. Aldo Moro, al tempo, fu a capo del suo secondo esecutivo, sorretto da una coalizione di centrosinistra assieme alle forze socialiste (Psi e Psdi) e dal Partito repubblicano; il centrosinistra si affermò dopo vari esperimenti sotto la regia politica dello stesso Moro, favorito sia del periodo florido dal punto di vista economico-sociale e sia dalla breve distensione internazionale tra i due blocchi mondiali, ma nel biennio 1963-1964 i primi segni di arresto della crescita economica e dei primi disagi sociali misero in allarme il Quirinale e le forze politiche.
Segni, che non apprezzò molto l’idea di farsi garante nei suoi primi due anni al Quirinale di questa formula di governo, svolse nel mese di luglio ’64 delle consultazioni per risolvere la crisi del Governo Moro I. Ma il reincarico allo statista pugliese avvenne con consultazioni “atipiche”: Segni, preoccupato dai primi cedimenti economici e da alcuni dossier forniti dall’intelligence sui rischi per l’ordine pubblico, convocò al Quirinale il 14 e 15 luglio il Capo di Stato Maggiore, Aldo Rossi, e il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Giovanni De Lorenzo, ex capo del Servizio Segreto Militare (SIFAR). Le convocazioni fecero trasparire un certa inquietudine del Presidente per l’ordine pubblico interno: Indro Montanelli nella sua Storia d’Italia parlò di rassicurazioni che gli alti ufficiali fecero al Presidente, ma le forze politiche si insospettirono (I. Montanelli, Storia d’Italia, vol. 10, 1948-1965, 384).
Risolta la crisi con il nuovo Governo Moro, il 7 agosto 1964 vennero convocati al Colle al cospetto del Presidente, Antonio Segni, il Presidente del Consiglio, Aldo Moro, e il Ministro degli Affari esteri, Giuseppe Saragat. I due leader di maggioranza approfittarono di questo colloquio (tenutosi per discutere di questioni attinenti alle relazioni internazionali, vista la presenza di Saragat) per chiedere chiarimenti sulla consultazione di De Lorenzo. Il colloquio a tre avvenne a porte chiuse nella “sala cinese” del Quirinale; molti commentatori e testimonianze riferirono di toni estremamente accesi con l’accusa di Saragat a Segni di portare il Presidente in messa in stato d’accusa per i suoi colloqui con De Lorenzo. Cronache riferirono di aver sentito Saragat urlare: “So tutto di quel colloquio con De Lorenzo. Potrei mandarti davanti l’Alta Corte!” (cit. G. Mammarella- P. Cacace, Il Quirinale, 2011, 110; P. Guzzanti, I Presidenti della Repubblica da De Nicola a Cossiga, 1194, 134-135). La situazione degenerò in quanto durante l’alterco (Segni fu noto per i suoi scatti d’ira) il Presidente fu colpito da trombosi cerebrale. La supplenza del Presidente del Senato Merzagora non fu, però, bastevole nel rasserenare gli animi nei mesi successivi, permanendo invece un certo immobilismo della maggioranza nella gestione della transizione. Infatti, il Presidente Segni rassegnò le sue dimissioni, accertato l’impedimento permanente, solo il 6 dicembre 1964 e dopo un lungo iter di consulti medici, che però fu gestito, più che dalla supplenza di Merzagora, dal Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, Paolo Strano, creando malumori nelle Camere, poi raccolti in molte interpellanze parlamentari rivolte al Governo Moro II.
L’attendismo sui controlli sullo stato di salute del Presidente se fu, da un lato, probabilmente indice dell’assoluta novità del caso, d’altro canto, instillò numerosi sospetti sia sulla prudenza istituzionale utilizzata da Segni nel convocare gli alti vertici militari e sia sulla stessa figura del Generale De Lorenzo. Le inchieste maggiori provennero dalla stampa e da due commissioni parlamentari e militari d’inchiesta. In particolare, l’“Espresso” a firma di Lino Jannuzzi ed Eugenio Scalfari con il settimanale del 14 maggio 1967 parlò di “colpo di Stato” (denominato “Piano Solo”, secondo le rivelazioni del Colonnello dei Carabinieri, Luigi Bittoni, che spiegò il titolo proprio perché fu un piano elaborato unicamente da De Lorenzo). Il Piano fu in parte programmato e si propose l’obiettivo di prevenire eventuali tentativi di insurrezione armata da parte della sinistra, in generale, di dare all’Arma dei Carabinieri la possibilità di poter gestire l’ordine pubblico, forte dell’appoggio del SIFAR, adottando misure extra ordinem. L’inchiesta giornalistica e la memoria del malore di Segni spinsero il Parlamento ad agire per fare chiarezza sui rapporti tra i vertici dello Stato e l’ordine militare e venne creata sia una commissione parlamentare d’inchiesta il 31 marzo 1969 e una commissione d’inchiesta militare che analizzarono i fatti arrivando a conclusioni non univoche. In particolare, la commissione parlamentare, presieduta dall’On. Alessi (Dc), vide gli esponenti della maggioranza sconfessare Scalfari e Jannuzzi e quelli di minoranza ricostruire gli avvenimenti come un piano eversivo volto ad occupare i punti nevralgici delle comunicazioni radio-televisive del Paese e di spedire in Sardegna un elenco di cittadini ritenuti eversivi.
La Commissione militare, invece, colse qualche risultato più concreto, malgrado l’ampia copertura del segreto di Stato su molti dei dossier prodotti (fonti parlano di più di 120.000 dossier). Infatti, al termine dei suoi lavori il nuovo Presidente della Repubblica, Saragat, spinse affinché De Lorenzo fosse spostato ad altro incarico (nel 1965 fu nominato Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e vi rimase fino all’aprile 1967) (cit. G. Mammarella- P. Cacace, Il Quirinale, 2011, 113), ma in generale la Commissione militare illustrò come, nonostante la riscontrata presenza di numerose attività informative dell’Arma sulla gestione dell’ordine pubblico in caso di degenerazioni, non vi fosse mai stato presente il rischio di un complotto ideato da De Lorenzo e sorretto da Segni. Molte ombre rimasero sullo stesso De Lorenzo che dopo la destituzione entrò in politica prima nella file del Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica nella V legislatura risultando eletto alla Camera, dove successivamente aderì al Movimento Sociale Italiano nel 1971.
Per quanto non vi sia tutt’oggi chiarezza sulle vicende del “Piano Solo”, la vicenda adombrò la Repubblica, aprendo il vaso di Pandora delle tensioni internazionali riflesse e delle mancate riforme socio-economiche che avrebbero, forse, consentito al Paese di accompagnare le trasformazioni sociali esplose sul finire degli anni Sessanta. Il Piano Solo fu solo uno dei vari colpi di Stato accreditati nel corso della storia della Prima Repubblica, ma probabilmente rimase (per usare le parole di Sergio Zavoli) la prima “ombra” sulla Repubblica in attesa dei 7 chili di tritolo sulla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano.
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