Il 26 novembre 1865 veniva emanato il primo codice di procedura penale della storia dell’Italia unita, a firma del Ministro di Grazia e Giustizia On. Paolo Cortese.
Vediamo come questo intervento si colloca nel quadro politico dell’epoca.
Lo Stato italiano era nato appena quattro anni prima. Tra le innumerevoli questioni che andavano risolte, vi era anche quella di dover (in breve tempo) intervenire con interventi legislativi tesi a rendere omogeneo l’apparato legislativo dell’intero territorio, diviso in codici e disposizioni di legge diversi.
Tra i Governi investiti dal Parlamento affinché intervenissero in tal senso, vi rientra anche quello in carica nel 1865, presieduto da Alfonso La Marmora, già comandante durante la Prima guerra di indipendenza, appartenente allo schieramento politico della c.d. Destra storica.
Ma prima di tutto, chi era Paolo Cortese, personaggio di cui in realtà non si sa molto e senza molta frequenza compare nei libri di storia?
Nato a Napoli nel 1827 e scomparso nel 1876, amava definirsi “unitario sinceramente monarchico costituzionale”. Convinto liberale, combatté contro il regime borbonico, rischiando più volte l’arresto.
Entrò in Parlamento nel 1862, e ricoprì la carica di Guardasigilli per un tempo limitato (10 agosto ’65- 31 agosto ’65), fu autore di importanti interventi, quali, oltre a quello già citato, il regolamento dello stato civile italiano, così come un importante intervento in ambito ecclesiastico.
Tornando al codice di rito del ’65, questi è anticipato da una lunga relazione indirizzata a Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele II, dove si illustra al monarca l’atto di dover uniformare l’intero Regno, e della complessità di tale atto legislativo in quanto
“la diversità degli ordini processuali costituisse una delle meno compatibili anomalie dello Stato”.
Alla conclusione della relazione, che sintetizza l’assetto del nuovo codice, Gentile annuncia al Re di aver realizzato un testo in direzione (potremmo dire oggi) liberale:
“Se io non mi inganno, esso è tale da raggiungere gli scopi che un savio legislatore si deve imporre: difendere il diritto, tutelare la sicurezza senza violentare la coscienza dei giudici, aprir l’adito e ripararne gli errori, e insieme non perpetuare le incertezze”.
Infine, per chi fosse rimasto insoddisfatto per questo nuovo codice,
“sarà nondimeno giusto il notare che il mandato del Governo non si spingeva fino alla completa redazione di legge nuova, sicchè gli intenti pratici dovevano essere considerati come i più urgenti in questa occasione”.
E infatti diverse critiche furono immediatamente mosse, sia in sede accademica che parlamentare. Su quest’ultimo aspetto, basti ricordare che numerosi interventi di modifica del codice, di cui il primo dopo soli ventotto giorni dall’entrata in vigore.
Le maggiori critiche erano dovute a “vuoti” normativi dovuti all’urgenza di uniformare il sistema processuale penale per l’intero Regno.Ma arrivarono altre critiche non dovute solamente alle carenze del nuovo rito, quanto anche alle garanzie tradite. Fu accusato di addirittura di “zavorra inquisitoria” (Lucchini).
Tra le varie critiche, si ricorda quella rivolta alla figura del Pubblico Ministero, non completamente indipendente dal potere esecutivo secondo la Legge 2626 sempre del 1865, che, prevedendo fosse sotto la direzione del Ministero, lo rendeva
”persona ibrida quant’è ibrido il sistema misto, un poco parte e un po’ magistrato, un po’ soggetto all’azione del governo e un po’ indipendente” (sempre Lucchini).
Sintetizzare ogni singolo istituto di questo nuovo codice sarebbe impossibile; se ne ricorderà una, apparentemente di forte di stampo liberale ma allo stesso tempo carente di quelle garanzie difensive oggetto di critiche.
Il Codice Cortese prevedeva la presenza della giuria nei processi avanti le Corti di Assise (art. 486 e seguenti).
Questi, similmente a ciò che oggi vediamo in alcuni processi negli Stati Uniti d’America, prestato il giuramento di rito, dovevano prendere posto necessariamente “in faccia al banco degli accusati”.
Esaurita l’istruttoria, il Presidente della Corte doveva loro sinteticamente riassumere quanto accaduto in aula, riportando le prove contro ed a favore dell’imputato.
I giurati si ritiravano in camera di consiglio con divieto tassativo di allontanarsi, dove aveva luogo la votazione.
Se l’accusato era giudicato colpevole dai giurati, si tornava in aula e là il Pubblico Ministero faceva la requisitoria avanti la Corte chiedendo l’applicazione della legge.
Il Presidente poi chiedeva al difensore se avesse qualcosa da dire, senza però non poter più mettere in discussione che il fatto o le circostanze già giudicate dai giurati sussistessero, ma solamente che il fatto non era qualificato alla legge come reato, o che non era punito con la pena richiesta dal Pubblico Ministero, o che non dava luogo al risarcimento del danno.
Pronunciata la sentenza, il Presidente poteva “fare all’accusato quelle esortazioni che crederà convenienti” (art. 522).
Come detto, furono molte le modifiche apportate a questo codice, e già sul finire del XIX secolo fu istituita una commissione per superarlo, conclusasi, diversi anni dopo (l’evoluzione del pensiero giuridico moderno era in atto, motivo per il quale la scrittura del nuovo codice doveva necessariamente impiegare un importante lasso di tempo) con il R.D. n. 127 del 27 febbraio 1913 che introdusse un nuovo codice di procedura penale (anch’esso in realtà di breve durata in quanto a sua volta superato nel 1930 dalle riforme del Governo Mussolini a opera del Ministro Rocco).
Bibliografia:
Indro Montanelli, Mario Cervi – L’Italia dei notabili (Storia d’Italia), ed. Rizzoli.
Marco Nicola Miletti – La giustizia penale, in Treccani.it.