Nel 1968, nel bel mezzo dell’ondata di contestazione collettiva che travolse anche l’Europa, la magistratura italiana condannava lo scrittore Aldo Braibanti per aver plagiato un giovane ventitreenne che lo aveva seguito a Roma. Poco più di un decennio dopo, nel 1981, la Corte Costituzionale dichiarò l’illegittimità del delitto di plagio. Oggi che il tema della manipolazione mentale è tornato alla ribalta alla luce dei problemi di radicalizzazione religiosa che si sono verificati anche in Italia a partire dai primi anni del 2000 proviamo a ripercorrere con questo articolo la storia di quei processi e di quelle sentenze.
Una fattispecie sfumata
Nel luglio del ’68, pochi mesi dopo che a Parigi gli studenti avevano chiaramente fatto capire di voler rigettare in toto l’idea di società dei loro padri, la Corte d’assise di Roma condannava a nove anni di reclusione l’intellettuale Aldo Braibanti per aver plagiato due giovani e averli spinti ad allontanarsi proprio da quel modo di vivere tradizionale contro cui gran parte di una generazione stava contemporaneamente insorgendo.
Si tratta di una sentenza che ha segnato la storia giuridica italiana, costituendo l’unica pronuncia di condanna avutasi nell’Italia repubblicana per questo tipo di reato prima della sua dichiarazione di incostituzionalità sancita dalla Consulta nel 1981.
Ma cosa si intendeva per plagio nell’accezione penalistica del termine? Questo, a dire il vero, era il vero problema: non era chiaro a nessuno quali condotte integrassero questa fattispecie.
L’art. 603 del codice penale del 1930, rubricato appunto “Plagio”, puniva infatti genericamente «Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, […] con la reclusione da cinque a quindici anni».
A ben vedere, la disciplina del codice fascista aveva sostanzialmente modificato il significato che in precedenza questo termine aveva nell’ordinamento penale italiano. Sotto la vigenza del codice penale Zanardelli (1888) il reato di plagio veniva infatti integrato solo da chi riduceva «una persona in schiavitù o in altra condizione analoga». L’allargamento delle “maglie” della fattispecie operato dal codice del 1930 (con la soppressione del riferimento alla schiavitù) e la sua “psicologizzazione” l’aveva privata di quel necessario carattere oggettivo, essenziale per non lasciare l’applicazione di una norma in completa balìa dell’arbitrio dell’interprete.
Quanto poi questo arbitrio potesse essere utilizzato per colpire idee più che fatti (i soli che dovrebbero essere sottoposti a sindacato penale, se criminalizzati dalla legge) emerge bene dal “caso Braibanti”.
Lo scrittore e drammaturgo (che all’epoca dei fatti aveva circa 45 anni) venne accusato da Ippolito Sanfratello di aver ridotto il figlio Giovanni in uno stato di totale soggezione psicologica, inducendolo ad allontanarsi dalla sua famiglia e inibendogli ogni autonoma iniziativa. Nell’esposto presentato alla magistratura il padre aveva infatti sostenuto che
«il Braibanti non solo esercitava ormai un dominio sulla sfera psichica del figlio, non solo gli aveva annientato ogni potere di libera determinazione, ma lo sfruttava anche fisicamente perché, essendo omosessuale, gli impone di subire gli sfoghi dei suoi istinti contro natura»
(Sentenza della Corte d’assise di Roma, 14 luglio 1968 [di seguito C.A.R.] in Il Foro Italiano, Vol. 92, n. 4, p. 157)

Il processo ad Aldo Braibanti
Giovanni Sanfratello, all’epoca diciannovenne, aveva conosciuto Braibanti a fine anni ’60 a Castell’Arquato, piccolo comune nel piacentino dove questi aveva costituito «una associazione di giovani dalle idee esistenzialiste e dalle strane abitudini, sia per il modo di vestire e sia per gli atteggiamenti esterni» (C.A.R., p. 155). In effetti nel dopoguerra lo scrittore emiliano, dopo aver partecipato attivamente alla Resistenza, aveva creato in un torrione rinascimentale presente in quella località un laboratorio artistico che veniva frequentato da artisti e intellettuali assai poco allineati con il pensiero dominante, tanto che l’amministrazione comunale democristiana decise dopo pochi anni di non rinnovargli la concessione di quello spazio.
Nel 1962, quando Braibanti decise di recarsi a Roma, Giovanni Sanfratello decise di lasciare la sua famiglia e di trasferirsi con lui nella Capitale in una stanza di una pensione in via Montecatini, fino a quando nel 1964 alcuni uomini fecero irruzione e, in accordo con il padre, portarono via a forza il ragazzo.
Nella denuncia presentata da Ippolito Sanfratello si sostiene che Braibanti sarebbe riuscito ad annichilire la volontà del figlio, riuscendo in modo capzioso a insinuare nel giovane le proprie convinzioni politiche e religiose, nella volontà di assoggettarlo totalmente a sé e instaurare una relazione di tipo sessuale. Braibanti diede una versione totalmente diversa dei fatti, sostenendo che le accuse della famiglia di Giovanni Sanfratello erano prive di fondamento.
La stessa presunta vittima negò di aver mai subito pressioni da Braibanti, dichiarando di essersi allontanato da casa spontaneamente proprio per sottrarsi alle asfissianti aspettative famigliari che gli avrebbero impedito di esprimere appieno la propria personalità. Incredibilmente le dichiarazioni di Giovanni Sanfratello non vennero considerate dai giudici se non come conferma ulteriore della consumazione del reato; il ragionamento, capzioso e circolare, era chiaro: dice così proprio perché il plagio è effettivamente avvenuto. Tra l’altro, dopo la separazione forzata da Braibanti, Giovanni Sanfratello finì per affrontare un vero e proprio calvario durato fino al 1966 e scandito da ricoveri in cliniche psichiatriche e continui cicli di elettroshock che tuttavia non scalfirono mai la sua volontà di difendere lo scrittore dalle accuse sollevate nel processo a suo carico.
A dar man forte alle ragioni dell’accusa si aggiunse però la testimonianza di un altro giovane, Pier Carlo Toscani, che in precedenza aveva frequentato per un certo periodo Braibanti. Le accuse di Toscani contro l’intellettuale emiliano erano gravi: il giovane riteneva di essere stato soggiogato mediante un lento e continuo «impossessamento della sua volontà» culminato con molestie e violenze di natura sessuale.
Bisogna dire che Braibanti negò anche in questo caso ogni accusa, bollando queste dichiarazioni come frutto di fantasie. È però innegabile che più che alle azioni dello scrittore la Corte fosse interessata al suo modo di vivere e alle proprie preferenze sessuali. Siamo in effetti di fronte a una magistratura (e a una società in genere) che concepiva l’omosessualità, se non più formalmente come un crimine, quantomeno come un severo indice di una personalità deviante. In effetti, nella sentenza, la stessa Corte d’assise di Roma, come un’excusatio non petita, aveva cercato di prevenire un po’ goffamente critiche su questo aspetto dicendo che:
«La Corte ha dovuto esaminare […] se e come il reato sia stato commesso ed unicamente a questo fine ha analizzato la personalità e la condotta del Braibanti, le sue idee e i suoi rapporti omosessuali, senza tuttavia emettere alcun giudizio né sulle idee né sulla omosessualità. Ma non è negabile che le idee del Braibanti hanno avuto una funzione di strumentale mezzo di invasione psichica: esse […] hanno contribuito a produrre gli effetti della suggestione plagiante»
(C.A.R., pp. 190-191)
Sulla base di perizie che appurarono il presunto condizionamento psicologico (svolte anche dal tristemente noto professor Semerari, psichiatra e criminologo che ha legato il suo nome a quello della “Banda della Magliana” e che finirà per essere ritrovato anni dopo con la testa mozzata in un comune dell’area metropolitana napoletana…) Braibanti venne quindi condannato per plagio. Il paradosso (almeno apparente) è che nessuna delle condotte poste in essere dall’imputato vennero considerate di per sé illecite, ma delittuoso era il fine per cui erano state realizzate:
«Di per sé lecite le idee dell’imputato, al pari delle pratiche omosessuali, furono mezzi posti in essere per un fine illecito costituente reato: il plagio. È questo fine non il mezzo (o la serie di mezzi) utilizzato per raggiungerlo che l’art. 603 cod. pen. punisce e che questa corte ha il dovere di sanzionare»
(C.A.R., p. 192)
Al netto del merito di questa sentenza (e dei successivi gradi di giudizio che ridussero infine a 2 anni il quantum della reclusione confermando però la condanna) è interessante soffermarsi sull’ampia motivazione giuridica presente nella stessa.

La Corte capitolina non ignorava infatti che già prima degli anni ’60 parte della dottrina aveva ritenuto inapplicabile questo reato per via della sua indefinitezza normativa, bollandolo come «un assurdo giuridico poiché un rapporto di soggezione di un soggetto verso un altro soggetto è dato di essere configurato inevitabilmente in innumerevoli situazioni che invece la coscienza etico-sociale accetta ed approva» (C.A.R., pp. 168-169).
È probabile che la dottrina citata dalla Corte d’assise di Roma che escludeva la stessa configurabilità giuridica del plagio facesse riferimento ai precedenti casi giudiziari che si erano conclusi con assoluzioni anche laddove era stata appurata una situazione di sudditanza psicologica ma in contesti ideologicamente più “affini” alla società dell’epoca (ad esempio nel 1956 il Tribunale di Torino aveva escluso il reato di plagio in un caso in cui un marito aveva segregato, imposto l’utilizzo di una cintura di castità e inferto altre sofferenze fisiche e morali alla moglie convivente).
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Tuttavia, secondo i magistrati che condannarono in primo grado Braibanti, il plagio non costituiva un reato impossibile come talvolta era stato sostenuto ma era piuttosto compito della giurisprudenza andare a definire nella pratica i confini di questa fattispecie criminosa. La tutela della libertà di autodeterminazione dell’individuo che esso presidiava costituiva infatti un bene giuridico essenziale (e si citavano a riguardo la Dichiarazione Universale dei diritti umani dell’Onu del 1948, e la Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata dagli Stati membri del Consiglio di Europa e ratificata in Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848) che andava quindi garantita anche dall’ordinamento penale.
La motivazione proseguiva poi con una dotta disquisizione di ordine quasi filosofico, costellata di citazioni storiche, giuridiche e psicologiche:
«Se si considera poi, come è stato autorevolmente sostenuto anche da filosofi lodati dal Braibanti (valga per tutti il Marcuse), che “il maggior male della civiltà moderna è la repressione”, la quale, per concorde affermazione di tutti gli psicologi, può realizzarsi anche mediante la suggestione, e che “il nemico da combattere è la reificazione dell’individuo”, ci si renderà conto agevolmente come questa norma penale dell’art. 603 sia oggi più attuale che mai, rispondente ed impellente come non mai al dovere sociale e giuridico di applicazione inflessibile»
(C.A.R., p. 176)
Alla lettura di questa interessante testimonianza storico-giuridica, nel giurista contemporaneo rimane soprattutto lo sconcerto per la sfacciata tendenza nel considerare l’omosessualità come una sottospecie di disturbo psichico. C’è chi ha detto (e forse non a torto) che proprio l’essere omosessuale di Braibanti fu la causa principale della sua durissima condanna. Ma l’altra questione affrontata in questo processo, l’individuazione cioè di un limite tra il lecito condizionamento reciproco esercitato fisiologicamente tra gli individui e la violazione della libertà di autodeterminare il proprio Io, sembra ancora attuale e forse ancora non pienamente tutelata a livello ordinamentale, ma su questo torneremo alla fine…
La dichiarazione di incostituzionalità
Il caso “Braibanti” sollevò accese critiche. Contro questa sentenza, letta come l’ennesimo tentativo delle istituzioni di un’Italia benpensante di arrestare il cambiamento culturale e sociale in atto, si schierò quasi tutta la classe intellettuale italiana. Parliamo di nomi di rilievo internazionale. L’anno dopo la condanna Alberto Moravia, Mario Gozzano, Umberto Eco, Adolfo Gatti, Cesare Luigi Musatti e Ginevra Bompiani scrissero un volume dal titolo Sotto il nome di plagio: studi ed interventi sul caso Braibanti; alla loro voce si unirono Pier Paolo Pasolini, Carmelo Bene, Elsa Morante e il partito radicale di Marco Pannella (a fronte invece di un certo imbarazzato silenzio della sinistra parlamentare).

Chi circa 13 anni dopo smonterà giuridicamente la stessa configurabilità astratta di questo delitto sarà la Corte Costituzionale con la sentenza del 9 aprile 1981 n. 96.
Si tratta di una sentenza molto colta, in linea con il livello dei membri del collegio che annoverava giuristi della statura e sensibilità di Leopoldo Elia (costituzionalista), Edoardo Volterra (storico del diritto) e Brunetto Bucciarelli-Ducci (magistrato ed esperto di diritto parlamentare).
La questione di costituzionalità del plagio verteva in particolare sul contrasto dell’art. 603 c.p. con il principio di tipicità della norma penale di cui all’art. 25 co. 2 della Costituzione. Dopo un lungo approfondimento di carattere storico, giuridico, medico e sociale, la Consulta concludeva per l’assoluta indeterminatezza della condotta criminosa e quindi per l’incostituzionalità del delitto di plagio:
«La formulazione letterale dell’art. 603 prevede pertanto un’ipotesi non verificabile nella sua effettuazione e nel suo risultato non essendo né individuabili né accertabili le attività che potrebbero concretamente esplicarsi per ridurre una persona in totale stato di soggezione, né come sarebbe oggettivamente qualificabile questo stato, la cui totalità, legislativamente dichiarata, non è mai stata giudizialmente accertata»
(Sentenza della Corte Costituzionale n. 96 del 1981)
Come faceva indirettamente notare la Corte, la condanna di Braibanti aveva in effetti scosso le coscienze sociali e anche giuridiche del paese, rendendo palese le difficoltà di dare a questo delitto una lettura, se non univoca, almeno coerente. L’imprecisione, l’indeterminatezza della norma, l’impossibilità di attribuirle un significato oggettivo rendevano quindi la sua applicazione del tutto arbitraria e, dunque, non compatibile con il dettato costituzionale.

Una reintroduzione?
Dopo la dichiarazione di incostituzionalità del 1981 ci sono stati diversi momenti in cui si è cercato di reintrodurre nell’ordinamento penale italiano questo reato. I più noti esempi sono i disegni di legge presentati nel 1988 a opera di Rosa Russo Iervolino e Giuliano Vassalli e quello presentato nel 2005 dal senatore di Alleanza Nazionale Renato Meduri. Nessuno di questi tentativi andò a buon fine anche per le critiche da più parti sollevatesi contro il rischio di una nuova legge potenzialmente liberticida.
Tuttavia l’incremento di episodi di violento condizionamento psicologico, legate soprattutto a fenomeni di radicalizzazione religiosa in soggetti particolarmente vulnerabili (come ad esempio all’interno delle carceri), portano inevitabilmente a farsi domande sul punto.
Va detto che in materia di terrorismo l’introduzione degli articoli da 270 bis al 270 quinquies nel codice penale ha in parte colmato questa lacuna, benché la Cassazione si mostri ancora piuttosto incerta e ondivaga nel ritenere la sola attività di indottrinamento al martirio sufficiente a integrare queste fattispecie criminose. Al netto di questa questione, verosimilmente destinata ad attirare ancora l’attenzione dei giuristi nel prossimo futuro, viene spontaneo chiedersi se oggi il diritto riesca a fornire una adeguata tutela al diritto di formare liberamente il proprio pensiero.
È innegabile che il triste ricordo del “caso Braibanti” pesi come un macigno in queste discussioni e che le gravi perplessità evidenziate dalla Corte Costituzionale nel 1981 non siano facilmente superabili, ma è probabile che dell’argomento, anche alla luce delle nuove emergenze criminali internazionali, si tornerà presto nuovamente a parlare.
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