L‘anniversario della promulgazione del Codice Civile ci offre l’occasione per fare una riflessione su questo testo. Possibile che in ottant’anni non si sia riusciti a superarlo? Per quali ragioni si optò per mantenere in piedi questa normativa all’indomani della fine della seconda Guerra e della nascita della Repubblica?
Sono passati ottant’anni da quando, il 16 marzo 1942, Vittorio Emanuele III firmava il Regio Decreto n. 262 con il quale veniva promulgato il testo definitivo del Codice Civile. (Ne abbiamo parlato recentemente a proposito del suo stato di salute e dei discorsi che ne precedettero la promulgazione.)
Ricordo bene l’impressione provata il primo anno di giurisprudenza accorgendomi, insieme ai miei compagni di corso, che sotto la firma dell’ultimo re d’Italia comparivano anche le firme del Guardasigilli Dino Grandi e, soprattutto, di Benito Mussolini.
L’assoluta ignoranza giuridica di chi ha avuto il privilegio di frequentare un liceo era in effetti tale (e penso che lo sia ancora oggi) da stupirsi nell’apprendere che la principale fonte che regola i rapporti tra i privati in Italia è stata introdotta nel corso della dittatura fascista e che la sua data di entrata in vigore (21 aprile) era stata appositamente ed eloquentemente scelta affinché coincidesse con quella dei mitici natali di Roma.
Oggi, a distanza di quasi quindici anni da quando ho preso in mano per la prima volta un codice civile, mi rendo conto che quello stupore non mi è del tutto passato.
Possibile che in ottant’anni non si sia riusciti a superare quel testo? Possibile che, in tutto questo tempo, non si sia avvertita la necessità di innovare i paradigmi privatistici fondamentali? O, forse più concretamente, non si è riusciti a farlo per ragioni politiche e logiche parlamentari?
Il discorso, tra l’altro, cade in queste pagine sul codice civile, ma potrebbe essere ampliato anche agli altri testi compilati sotto il regime ed ancora pienamente vigenti (in pratica tutti, tranne quello di procedura penale sostituito solo alla fine degli anni ’80).
In effetti l’operazione di codificazione, se non proprio totalitaria, è certamente “totalizzante”, almeno nelle ambizioni che da circa duecento anni essa si porta dietro. Si tratta di compendiare un’intera branca giuridica, o più realisticamente le sue regole di funzionamento fondamentali, in qualche migliaio di articoli, in un pacchetto unitario che o si prende o si lascia.
Guardiamo ad esempio a quello che viene comunemente considerato il primo codice in senso moderno: imponendosi dopo una decade di infruttuosi progetti e discussioni Napoleone riuscì in pochi mesi a tirare le fila di un lavoro iniziato immediatamente dopo lo scoppio della Rivoluzione.
Gli stessi codici sabaudi, che hanno poi rappresentato la base del primo ordinamento unitario, furono in effetti emanati da Carlo Alberto nel contesto di una monarchia ancora assoluta, dove certo non c’era la necessità di passare dalle “Forche Caudine” di un Parlamento per l’emanazione di una nuova normativa. Se per il diritto civile l’esperienza del regno d’Italia è in effetti cominciata con una riforma della legislazione culminata nel codice del 1865, i successivi interventi registrati tra otto e novecento sono stati per lo più sporadici fino a che non si è arrivati proprio al 1942 e al codice che oggi utilizziamo nelle nostre aule di giustizia.
Al netto di questa constatazione di carattere generale in tema di politica legislativa, possiamo cercare di capire per quali ragioni si optò per mantenere in piedi questa normativa all’indomani della fine della seconda Guerra e della nascita della Repubblica, quando la spinosa questione della sua compatibilità con il nuovo corso istituzionale cominciò ad essere sollevata da più parti.
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Ai colossali lavori preparatori del codice lavorarono, per circa vent’anni, i principali esponenti della classe giuridica italiana coordinati e guidati da Filippo Vassalli. Una delle prime “difese” del codice dopo la caduta del regime venne dallo stesso Vassalli in un articolo dal titolo “Motivi e caratteri della codificazione civile“, pubblicato nel 1947 sulla Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche. In questo scritto, forte del proscioglimento ottenuto due anni prima nell’ambito del procedimento di epurazione che lo aveva direttamente interessato con l’accusa di aver contribuito a dar voce alla passata dittatura, Vassalli sostenne con forza la tesi della natura prevalente tecnica del lavoro della Commissione di riforma da lui presieduta. Innanzi tutto cominciò col rilevare che i lavori di riforma erano cominciati già prima dell’avvento di Mussolini, ovvero nel giugno del 1918 sotto la direzione di un altro grandissimo romanista come Vittorio Scialoja di cui lo stesso Vassalli si considerava allievo.
La tesi esposta in questo articolo era duplice. Da un lato si affermava che molte parti del codice non erano che il precipitato del diritto già vigente, riorganizzato e corretto. Era il caso ad esempio dei primi due libri, dedicati alla disciplina delle persone e delle successioni, dove «gli emendamenti tecnici prevalgono sulle innovazioni sostanziali» (p. 82). Dall’altro la difesa abbracciava anche le materie che – apparentemente, sosteneva Vassalli – più avevano risentito degli indirizzi politici del regime. Il riferimento era ai principi corporativistici ed economici contenuti nella Carta Nazionale del Lavoro, documento che avrebbe dovuto essere collocato come premessa al codice stesso:
Un osservatore superficiale o politicamente prevenuto potrebbe credere che con ciò il codice si ricolleghi necessariamente a un indirizzo politico ormai tramontato e inviso. Ma costui s’ingannerebbe. (p. 85)
Ad esempio, sempre secondo Vassalli, la scelta di riconfigurare l’istituto della proprietà, optando per una funzionalizzazione di questo diritto che ne responsabilizzasse il titolare nei confronti dello Stato e delle sue esigenze produttive, così come la disciplina posta in materia di impresa e commercio, rispondevano in fondo a orientamenti diffusi «pur con atteggiamenti diversi, in tutti i paesi» (p. 85). Lo stesso dicasi per la volontà di far entrare nel codice civile anche gran parte della materia commerciale e del lavoro:
Tutte queste materie affluiscono nel codice, non per smarrirvi i loro tratti caratteristici, per confondersi nell’uniformità di una disciplina che ne mortifichi le disparate esigenze, ma per realizzare, al lume di uno stesso spirito informatore, il reggimento unitario della vita del paese. (p. 89)
Dalle parole di chi aveva guidato (almeno nell’ultima parte) le operazioni compilatorie emerge che questo codice si prefiggeva di rimodulare la vecchia concezione del diritto soggettivo secondo una visione diversa, resa necessaria dalla crisi dello Stato liberale ottocentesco più che dall’avvento del Fascismo:
All’astrazione dell’homo juridicus il codice attuale fa subentrare, in più regole, una considerazione più concreta dell’uomo, nella varietà delle sue attività: l’operaio, l’artigiano, il commerciante, il professionista, il domestico, l’impiegato. (p. 97)
Sulla fondatezza di queste posizioni “tecnicistiche”, in fondo poi accettate dalla classe giuridica post-bellica, tocca ai cultori ed agli storici del diritto civile pronunciarsi.
In un noto saggio di ormai vent’anni fa dedicato proprio a questo codice, Paolo Cappellini sostenne, senza fare troppi giri di parole, che «probabilmente il grado di fascistizzazione del codice fu in generale più profondo di quanto si è per solito disposti ad ammettere» (Il Fascismo invisibile. Una ipotesi di esperimento storiografico sui rapporti tra codificazione civile e regime, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 28, 1999, I, pp. 175-290). Si può pensare che un concorso di fattori abbia impedito un complessivo ripensamento della legislazione (non solo civile) nei primi anni repubblicani: un progressivo indebolimento del ruolo di innovazione dell’ordinamento da parte della scienza giuridica, una implicita scelta di politica legislativa improntata alla necessità ed al pragmatismo e ancora una sottovalutazione della pervasività della cultura fascista. Quest’ultimo aspetto sembra ad esempio emergere da quanto sostenuto, già nel 1945, da Calamandrei, secondo il quale i codici redatti fra gli anni ’20 e ’40 del Novecento di “fascista” avrebbero avuto più che altro l'”etichetta”, contenendo «soluzioni di problemi tecnici che sarebbero state adottate identiche anche se non ci fosse stato il fascismo, semplicemente perché a quelle conclusioni portava il progresso degli studi e l’evoluzione storica della vita sociale» (P. Calamandrei, Sulla riforma dei codici, in Id., Scritti e discorsi politici, I, Storia di dodici anni, I, Firenze 1966, p. 62).
A prescindere da come sia andata, un dato pare difficilmente contestabile: nel complesso il codice ha funzionato. Certo, nel corso del tempo molte sono state le modifiche e i ripensamenti, a cominciare dalla epocale riforma del diritto di famiglia del 1975 e dalla progressiva erosione della materia giuslavoristica che man mano è trasmigrata in leggi speciali privando di centralità la fonte codicistica. L’impianto di fondo, le categorie giuridiche in esso disciplinate e la configurazione dei principali istituti hanno però superato l’urto dei decenni anche grazie ad una dottrina giuridica e ad un legislatore che paiono sempre meno interessati a questioni di dogmatica pura ed piuttosto propensi a lasciarne la soluzione ad una giurisprudenza ormai da tempo assurta, all’interno dell’ordinamento, al ruolo di formante dominante.
Tornando al tema iniziale, siamo noi, cinici giuristi, ad essere ormai assuefatti ad avere il principale codice del nostro sistema giuridico che reca la firma di Mussolini o la cosa non è in effetti così problematica?
Se ci si sofferma a riflettere un secondo, anche il più celebre codice della storia, quello napoleonico del 1804, venne emanato in un contesto istituzionale assai diverso (per usare un eufemismo) da quello degli Stati in cui venne esportato e da quello della Francia dei secoli successivi, senza che ciò gli abbia impedito di diventare un vero e proprio simbolo nazionale. Ancora oggi, pur in un momento in cui la memoria di Napoleone è duramente contestata proprio Oltralpe, questo vero e proprio monumento legislativo si può dire che goda di buona salute, nonostante le nuove
suggestioni transnazionali e gli “acciacchi” dell’età che, ovviamente, hanno reso necessarie delle modifiche. È l’idea del codice che, nonostante tutto, regge.
Ma il codice Mussolini-Grandi ha le carte per diventare il code Napoléon degli italiani? Una simile affermazione sarebbe oggettivamente troppo per svariate ragioni, anche a volerla fare come semplice provocazione! Ogni Paese, d’altronde, ha il “Napoleone” che si merita….
È tuttavia altamente probabile che, come il suo omologo francese, anche il codice del 1942 sia destinato a rimanere in vigore ancora per lungo tempo; magari proprio fino a quando non verrà sostituito, in tutto o più probabilmente solo in parte, da un “codice” europeo di diritto privato. Ma questo, almeno per ora, è ancora “fantadiritto”.
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