Il barone Mistrali, scrittore controverso e giornalista del Risorgimento italiano, costellò la propria vita di misfatti: divulgò in un libro tutti gli scandali della Corte di Parma, si diceva che fosse una spia e un ladro. Ma non fu per questo che finì a processo: a incastrarlo furono le accuse di pederastia. Una cosa è certa: chi di scandalo ferisce, di scandalo perisce.
La vicenda che stiamo per raccontarvi ha come protagonista un nobile vissuto in pieno Risorgimento, il barone Mistrali. Un uomo che non solo era un furfante, bensì anche uno spione. Ma si sa, chi di spada ferisce, di spada perisce. Nel nostro caso, potremmo così riformulare: chi di scandalo ferisce, di scandalo perisce.
Franco Mistrali è stato un protagonista delle vicende del Risorgimento italiano, controverso giornalista, romanziere e politico d’idee filo-asburgiche. Di nobili natali, era cresciuto presso la Corte borbonica di Parma. Qui aveva raccolto così tanti segreti e assistito a tanti episodi peccaminosi da sentirsi come un otre oltremodo colmo, così aveva deciso di liberarsi del peso delle frivolezze dei nobili parmigiani affidandole a un’opera scritta di suo pugno, Cinque anni di reggenza, che lasciò circolare a partire dal 1859. Ma la sua vena scandalistica si spinse ancora oltre: nell’aprile del 1868, in occasione delle auguste nozze tra Umberto e Margherita di Savoia, aveva composto una poesia giudicata “di massima veemenza contro gli sposi reali”. La storiografia lo ricorda infatti come un giornalista in costante polemica contro la casata Savoia e i liberali del tempo, tra cui il noto Carducci, che fu un accanito rivale a colpi di penna.
Ma il nostro protagonista non era soltanto un uomo di lettere, bensì un uomo d’azione: si sospettava che fosse una spia di “governi esteri”, e che presso la ferrovia di Orte avesse rubato l’oro destinato al Comitato insurrezionale di Roma al fine di comprare le armi per la rivolta contro lo Stato pontificio. Ancora, aveva contribuito agli eccidi dei soldati austriaci nella città di Parma, essendo allora ufficiale per l’esercito imperiale. Mistrali avrebbe poi passato importanti informazioni via telegrafo agli autori del furto avvenuto a Firenze di un pacco che custodiva preziose riproduzioni dell’Ode di Giovanni Prati, dedicata al defunto Carlo Alberto.
Pensate che furono però malazioni contro il Regno a portare il Mistrali a processo? Ebbene no, fu piuttosto il vizio brioso, da nobile tronfio e annoiato qual era, di intrattenersi con giovinotti per il proprio piacere. Almeno, questa era l’accusa dei suoi contemporanei.
Per di più, fu lo stesso barone Mistrali a mettersi nel sacco: inizialmente era stato proprio lui ad appellarsi al giudice contro la Gazzetta rosa di Milano, non sapendo di essersi così condannato al lungo processo in cui sarebbero emerse le sue tante malefatte. Mistrali aveva fondato nel 1868 a Milano un foglio, Il Gazzettino rosso, in aperto contrasto con le idee della democrazia radicale che trovava voce ne Il Gazzettino rosa. Non sappiamo il motivo per cui Mistrali aveva citato in giudizio la Gazzetta rosa, ma possiamo immaginare, vista la nota condotta sopra le righe, che si trattasse di motivi legati a controversie politiche magari conditi da qualche succoso pettegolezzo.
A riportare la prima fase del processo è la Gazzetta Piemontese, 28 agosto 1868, n. 239, pp. 2-3. Principale testimone della condotta deplorevole del Mistrali fu il deputato del Parlamento del Regno d’Italia Carlo Righetti, più noto con lo pseudonimo Cletto Arrighi, uno dei massimi esponenti della Scapigliatura e caro amico del Manzoni. Il Righetti venne chiamato in causa dall’avvocato Billia, curatore dell’accusa. Con il procedere del processo, emerse tutta una lista di personaggi influenti che erano a conoscenza di misfatti del Mistrali: il deputato Macchi, il questore di Firenze Solera, il segretario generale degli interni Borromeo. Anche coloro che erano stati colpiti dalla penna pettegola del Mistrali si fecero avanti, come la contessa Zuccardi di Parma.
Chiamato a testimoniare, un ex-dipendente della questura di Firenze si trovò dinanzi alla domanda: “Qual concetto si è formato, dopo questi fatti, del Mistrali?”, la risposta, tagliente:
“Un concetto tristissimo e quale si può concepire, di un uomo che fa due parti egualmente riprovevoli di una commedia”.
Infine, l’avvocato Billia presentò quattro lettere in cui si fa cenno del reato di pederastia: il colpo di grazia per il nostro barone.
Non sappiamo quale fu l’esito del processo, ma di sicuro non tolse al Mistrali il gusto per le condotte spregiudicate. La storiografia scrive infatti di un Mistrali ancora attivo nelle cronache politiche e scandalistiche degli anni ’70 dell’Ottocento italiano. Si trasferì a Bologna, dove continuò a produrre attacchi politici, prima dalle pagine de Il Monitore di Bologna, il più importante giornale locale di cui divenne direttore nel 1869, poi dalle righe dei quotidiani da lui fondati: Il Piccolo Monitore (1874) e la Stella d’Italia (1878). Fu anche sospettato dell’omicidio del procuratore del Re Giovanni Cavagnati, poi assolto per mancanza di prove.
La vera batosta arrivò nel 1874, quando il barone restò coinvolto nel fallimento della Banca delle Romagne, di cui era diventato consigliere delegato due anni prima, e fu arrestato. Venne condannato a cinque anni di reclusione presso il carcere bolognese di San Lodovico, dove rimase fino al 1878. Nello stesso periodo, nonostante fosse già in carcere, venne denunciato dal Carducci e dall’altro noto poeta e politico Enzo Panzacchi per diffamazione e ingiurie, che continuava a pubblicare sulle pagine dei suoi quotidiani. Lo stesso Carducci, nel 1869, si era scagliato contro la prepotenza del Mistrali nel giornale L’amico del popolo, scrivendo:
Qui a Bologna, in Bologna sede gloriosa degli studi, tra queste memorie dell’antichità veneranda, (…) Franco Mistrali rizzerà in punta di piedi la sua paurosa persona, rigetterà indietro le spalle deformi, solleverà l’orribile testa, e dirà con una smorfia da Truffaldino: Io sono un dotto, io sono uno scrittore?
Il barone Mistrali morì nel 1880 lasciando dietro di sé una scia di sospetti e malafama, ma è innegabile la sua cultura letteraria. Compose vari romanzi ispirati ai racconti popolari dell’epoca, ma anche romanzi storici e soprattutto un romanzo di genere gotico considerato il primo romanzo italiano sui vampiri: Il vampiro. Storia vera (1869), pubblicato quasi trent’anni prima del Dracula di B. Stoker.
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