Sono passati 80 anni dalla promulgazione del Codice Civile. Ma il Codice è ancora in salute? Si è parlato di “decodificazione”, e pure di “delegificazione”, però l’etichetta codicistica non sembra essere andata fuori moda in Italia e all’Estero. Perché?
Il Codice civile italiano compie ottant’anni. A ben vedere, il tempo che ci separa da quel 16 marzo 1942 non è molto: un professore universitario, nato quello stesso giorno, sarebbe andato in pensione da meno di un decennio; un avvocato coetaneo potrebbe ancora esercitare la libera professione; l’attuale Presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, e due dei suoi colleghi, i giudici Augusto Barbera e Franco Modugno, sono addirittura più anziani del codice stesso. Eppure, nonostante la sua relativa “giovinezza”, i dubbi sull’adeguatezza del codice ai bisogni e alle manifestazioni della contemporaneità sono assai conosciuti e risalenti.
A quei dubbi si è volto – nel 1974, cioè appena 34 anni dopo l’entrata in vigore del codice – Natalino Irti, con il suo celebre saggio sull’«età della decodificazione». Irti è stato tra i primi a osservare che il sorgere dello Stato sociale di diritto ha condotto a una progressiva “giurificazione” della società: all’ampliamento dello spazio che il “pubblico” ha occupato nella vita economica e collettiva, è conciso il ricorso crescente alla legge in funzione di orientamento della società, secondo quell’ottica programmatrice che caratterizza diverse sezioni della nostra Costituzione. È questa evoluzione, secondo la diagnosi di Irti, ad aver causato la frattura dell’unità sistematica del diritto privato, come racchiusa nel Codice, “unica legge per ogni materia”.
L’elefantiasi statuale del secondo dopo guerra, infatti, ha condotto al proliferare di leggi speciali, le quali, per di più, non sono state solo “una per ciascuna materia”, bensì addirittura una per ogni differente prospettiva politica su ciascuna materia. D’altronde, se, per il pensiero liberale che ha nutrito ideologicamente la stagione dei codici, la legge non è che una cornice di riferimento in grado di accogliere i più diversi accomodamenti pratici, per quello “welfaristico” la legge è regola di ogni dettaglio, sicché essa, al mutare delle maggioranze elettorali, va sostituita con una integralmente in tono con il colore politico del momento.
Come ben noto, le ambizioni programmatrici dello Stato sociale di diritto sono entrate in crisi, nel momento in cui, a partire dai primi anni ’90, si sono scoperte insostenibili sul piano economico e finanziario. In quel frangente, alla “decodificazione” si è addirittura affiancato un processo di “delegificazione”, ossia un tentativo di impiegare, in luogo della legge formale, la fonte regolamentare, ritenuta più duttile e meno costosa.
Questo pare aver contribuito, in misura ancor maggiore, a mettere in ombra il Codice: se nell’età della “decodificazione”, appariva aver perso la propria centralità a favore della Costituzione, sul cui tronco valoriale erano state innestate le plurime leggi speciali, nell’età della “delegificazione”, esso sembrava destinato a essere non più soltanto “sorpassato” da altre fonti normative sovra o pari-ordinate, bensì addirittura da quelle sotto-ordinate.
Tuttavia, dopo ottant’anni dal 1942 e dopo più di trenta dai ’90, il Codice civile è ancora tra noi, e la sua vitalità sembra aver resistito alle più nere previsioni su una sua ineluttabile obsolescenza. Alcune prove, in tal senso, si ricavano da circostanze per così dire fattuali. Da una parte, il Codice è ancora uno tra i primi, se non il primo, strumento giuridico con cui ogni neo-iscritto alla facoltà di giurisprudenza entra in contatto, ed è quello cui farà riferimento, probabilmente con più costanza, nel corso degli studi e della carriera professionale. Dall’altra, le norme codicistiche (sulla famiglia, sulle successioni, sulle obbligazioni, sulla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale…) sono quelle che interessano, con maggiore frequenza, qualsiasi cittadino. Altri indizi sono invece di carattere “giuridico”: il più importante dei quali è l’approvazione, qualche anno fa, di un’ambiziosa delega di riforma del Codice, la quale difficilmente avrebbe avuto senso, se quest’ultimo fosse soltanto un relitto del passato.
Invero, ciò che appare ancora “vitale” è l’idea stessa di codice, quale aspirazione all’unità sistematica tra discipline normative che regolano rapporti assimilabili sul piano formale. Di essa, Luigi Mengoni ha detto che è un «concetto puramente tecnico, ordinato alla funzione di apprestare un nucleo sistematico di principi e di categorie ordinatorie», che garantisce «il primato dell’argomentazione giuridica sulla contingenza delle valutazioni politiche» e il cui “fascino” «deriva precisamente dal senso profondo della sistematicità del diritto, che assegna ai concetti una funzione irrinunciabile di guida e di controllo dell’argomentazione giuridica, e quindi di razionalizzazione unificante dell’esperienza giuridica» (L’Europa dei codici o un codice per l’Europa?, ora in Scritti I, 2011, p. 320).
Lo stesso legislatore italiano fa ricorso, anzitutto evocativamente, all’etichetta codicistica ogni qualvolta licenzia un testo che intende esaurire l’intera disciplina di una data materia. Si pensi, fra gli altri, al Codice del consumo (2005) e ai coevi Codice delle assicurazioni private e Codice della proprietà industriale, o al Codice dell’Ambiente (2006) o al Codice del turismo (2011), per giungere ai più recenti Codice del Terzo settore (2017) e Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (2019). E questo non vale solo per il settore civile. Si pensi, infatti, nell’ambito amministrativo, al Codice dei beni culturali (2004), al Codice del processo amministrativo (2010) e al Codice dei contratti pubblici (2016); e, nel ramo penalistico, al Codice delle leggi antimafia (2011). Proprio il legislatore penalistico, peraltro, ha di recente positivizzato il cosiddetto principio di riserva di codice (d.lgs. 21/2018), a norma del quale nuove disposizioni incriminatrici possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il Codice penale, o se inserite in leggi che disciplinano sempre in modo organico la materia (art. 3-bis c.p.). È facile rammentare, a proposito di questa norma, che la sua collocazione in una fonte ordinaria e non nella Costituzione può renderla derogabile da una successiva legge, eppure – come sottolinea la stessa Relazione al d.lgs. 21/2018 – essa, «inserita nella parte generale del codice, si eleva a principio generale di cui il futuro legislatore dovrà necessariamente tenere conto, spiegando le ragioni del suo eventuale mancato rispetto».
Anche uno sguardo al di fuori dei confini nazionali suggerisce che la stagione dei codici, avviata nell’Ottocento liberale, continui a proiettare il proprio dinamismo nel tempo presente. Per restare soltanto all’ambito privatistico, si può ricordare che: nel 1992, l’Olanda ha adottato un nuovo codice (Burgerlijk Wetboek); l’anno prima è stata la volta del Québec; nel 2001, la Germania ha varato la Modernisierung des Schuldrechts, per riformare il diritto delle obbligazioni, lasciandolo al contempo all’interno del BGB; nel 2016, un’operazione simile è stata compiuta sul Code civil francese, che vanta una sorta di primogenitura culturale nel panorama continentale; nel 2021, la Cina si è addirittura data, per la prima volta, un codice civile, in cui peraltro hanno trovato spazio aspetti sia della cultura di civil law che di quella di common law. Né possono dimenticarsi i vari tentativi di costruire un Codice civile europeo, e che hanno messo in collaborazione i migliori studiosi dei vari Stati membri: se è vero che nessuno di essi si è mai tradotto in legge, è altrettanto vero che in diversi si rinvengono spunti progettuali utili, che sono stati variamente recepiti dai singoli ordinamenti nazionali.
Tornando in Italia, va da sé che, in alcuni casi, il ricorso alla qualificazione di “codice” è tradito dalla reale fattura legislativa. Ciò, però, non conduce a negare che l’idea di codice rappresenti ancora un orizzonte cui il legislatore preferisce richiamarsi e su cui, per di più, quasi intenda misurare il successo della propria opera innovatrice. Allo stesso modo, è vero che, sebbene il Codice civile sia meno “importante” di quanto lo fosse nel 1942, esso lo è comunque sempre più delle varie leggi speciali che gli si affastellano attorno. Sempre Mengoni (op. cit., p. 320-321) ha infatti rammentato come il Codice, pur «non essendo più accreditato di valore deduttivo della soluzione di tutti i possibili casi giuridici», conservi sempre «una forte valenza politico-culturale come deposito della tradizione giuridica nazionale e perciò elemento primario del complesso meccanismo che determina l’identità nazionale dello Stato».
Dire questo non significa cadere nell’equivoco di confondere la pretesa di “totalità” e di ordine razionale, che soggiace all’idea di codice, con una pretesa di completezza o di assenza di lacune nella disciplina normativa: in questo equivoco, d’altronde, non è caduto neanche il legislatore storico del 1942, il quale si è premurato di far precedere il testo del Codice con quelle Preleggi che, tra le altre cose, stabiliscono che se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si fa ricorso all’analogia legis o all’analogia iuris (art. 12). Né significa negare che, in alcuni punti, la disciplina codicistica trarrebbe beneficio da un intervento riformatore che risolva aspetti problematici ignorati o lasciati insoluti in sede di sua promulgazione.
Riconoscere la vitalità del Codice e dell’idea di codice significa piuttosto constatare la lungimiranza di quel pensiero magistralmente sintetizzato, nell’occasione di un altro compleanno codicistico (1992), da Carlo Castronovo. Questi, in un momento storico in cui – come già ricordato – sembrava compiersi il passaggio dall’età della “decodificazione” a quella della “delegificazione”, ha invece fatto riferimento alla via della “ricodificazione”, descrivendola «come l’unica seriamente percorribile per uscire dalle difficoltà di una delegificazione che non può diventare pura e semplice eliminazione di disciplina legislativa e che però vuole e deve essere semplificazione dell’ordinamento: perché una società complessa non può permettersi ammanchi legislativi, ma non deve neanche annegare nell’alluvione delle leggi, nell’un caso e nell’altro derivandone una confusione alla lunga insostenibile. La ricodificazione sembra allora il rimedio possibile per evitare l’alternativa, in ogni caso disastrosa, tra disintegrazione sociale mediante la legge e disintegrazione dell’ordinamento ad opera della società» (Decodificazione delegificazione ricodificazione, ora in JUS, 1993, 1, p. 55).
Ad multos annos!, caro Codice.
© Riproduzione riservata
La fruizione dei contenuti sul nostro sito e sulle nostre pagine social è totalmente gratuita, libera da immonde pubblicità ed è il frutto del lavoro di una nutrita squadra di persone. Puoi contribuire al mantenimento e allo sviluppo della nostra rivista acquistando i nostri libri targati Le Lucerne.