Cosa succede quando si cerca di unire totalitarismo, controllo violento delle minoranze e tradizioni religiose millenarie? Lo approfondiamo con il caso della Cina, dove il tentativo di assorbire tutte le minoranze etniche nella cultura cinese (negando ogni differenza) è diventato particolarmente problematico in Tibet per la presenza del Dalai Lama.
Oggi la Cina appare monolitica a causa della centralizzazione del suo potere politico nel Partito Comunista Cinese, e anche per la sua relativa mancanza di differenze etniche: il 91% della popolazione è di etnia Han mentre degli altri cinquantacinque gruppi etnici riconosciuti dallo Stato, solo uno, quello degli Zhuang, supera l’1%. Queste basse percentuali, comunque, in un Paese con una popolazione di un 1,4 miliardi di abitanti si trasmutano in numeri assoluti di una certa importanza: i menzionati Zhuang sono comunque 17 milioni.
Un altro elemento che va a contrastare questa monoliticità è la concentrazione dei gruppi etnici minoritari: gli Han infatti vivono nelle valli del Fiume Giallo e del Fiume Azzurro e nel nord-est (quella che noi chiamiamo Manciuria). Il resto del Paese è popolato dalle minoranze etniche. Come sottolineò infatti Mao Zedong nei lontani anni ’50, gli Han rappresentano il 90% della popolazione ma il 60% della Cina è abitata dal restante 10% di minoranze. Mao notava la situazione con preoccupazione sottolineando come queste minoranze potessero maturare sentimenti secessionisti e di come, dunque, non dovesse essere replicato il sistema per la gestione delle componenti non-russe dell’URSS, che era a suo giudizio fallimentare.
Per questo Mao sviluppò per la Cina un particolare sistema amministrativo. Semplificando, la Repubblica Popolare Cinese è divisa in 22 Province “regolari”, spesso con gli abitanti o il PIL di un paese europeo. Queste sono suddivise in Prefetture, quindi Contee, Distretti e Villaggi o Comunità. Ma ci sono delle eccezioni. Centinaia. Quattro città sono talmente importanti, come Pechino o Shangai, che si chiamano Municipalità e sono governate come Province. Altre città “secondarie”, ma questo non esclude che non possano avere oltre dieci milioni di abitanti come Xian, sono governate come Prefetture. Ci sono anche città governate come Contee.
Tornando al livello delle Province, le cose rimangono comunque intricate. Taiwan, ad esempio, è considerata dalla Repubblica Popolare Cinese la sua ventitreesima Provincia: in stato di ribellione. La Cina Popolare non perde occasione per ribadire la sua vantata sovranità sull’isola, pure nelle piccole cose: ad esempio il Ministero dei Trasporti di Pechino ha progettato un anello autostradale da costruite a Taiwan da numerare G99 non riconoscendo le autostrade erette dalla Repubblica di Cina (il nome ufficiale di Taiwan, per adesso).
Ci sono poi due Zone Amministrative Speciali, cioè Hong Kong e Macao, e infine cinque Regioni Autonome. L’autonomia delle Regioni venne concessa da Mao per l’elevata percentuale di minoranze etniche che ci vivevano. Queste sono: il Guangxi, la Mongolia Interna, il Ningxia, lo Xinjiang e infine il Tibet (che la Cina Popolare chiama Xizang).
Come esistono Regioni-Province Autonome, allo stesso modo per tutelare le minoranze esistono Prefetture e Contee autonome. Per questi enti la Legge sulle Minoranze prevede una certa autonomia legislativa ed economica, una rappresentanza di almeno il 50% della minoranza nell’assemblea locale come anche un capo amministrativo membro della stessa minoranza. Poi, certo, tutti questi dovranno essere comunque membri del Partito Comunista e il Segretario del Partito Locale è sempre un Han. Cosa non da poco perché nella gerarchia di una località il Segretario del Partito è sempre il superiore: quindi, ad esempio, il Segretario del Partito di Shangai è più potente e sovraordinato al Sindaco di Shangai.
Torniamo però alle nostre cinque Regioni Autonome. Solo in due la popolazione appartenente alla minoranza è superiore a quella degli Han. In Mongolia Interna c’è solo un 17% di mongoli contro l’80% di han (e inoltre siccome i mongoli sono catalogati come una etnia cinese, la storiografia del Partito Comunista considera Gengis Khan un eroe cinese: ma ci torneremo). Invece in Xinjiang gli Uyghur sono il 45% contro il 40% di Han: ma in Tibet si arriva addirittura a un 90% di Tibetani contro un 10% di Han.
Il Tibet è la provincia meno abitata della Cina, con solo 3,5milioni di abitanti (o lo 0,3% del totale), ma sotto questa vasta area montuosa (soprannominata “il tetto del mondo”), si nascondono giacimenti di minerali rari per una somma che è stata stimata di 160 miliardi di dollari. Allo stesso tempo è una area impenetrabile che impedisce e fa da cuscinetto a scontri militari col vicino meridionale indiano.
Probabilmente, però, la risorsa più preziosa che contiene questa terra è l’acqua: il plateau tibetano è la più grande riserva di acqua dolce del mondo dopo l’Antartico e l’Artico. Una dettaglio non da poco, se si considera che la Cina Settentrionale, dove si trovano anche Pechino e Tientsin, dove si trova metà del PIL e oltre il 70% delle terre arabili, è una regione estremamente arida con a disposizione solo il 20% delle risorse acquifere di tutto il Paese. Per superare questa difficoltà che rischia di stritolare l’economia cinese e l’armonia sociale, il Partito già nel 2002 iniziò il “South–North Water Transfer Project” con l’obiettivo di trasferire annualmente 20 miliardi di metri cubi di acqua tramite due giganteschi canali lunghi oltre mille chilometri. Sono stati inaugurati gli anni scorsi. Ciliegina sulla torta del progetto, però, è la costruzione di un terzo canale che dreni 17 miliardi di metri cubi di acqua dal Tibet verso le zone settentrionali.
Quindi, se il Tibet è una delle regioni con più valore strategico della Cina, è pure una a maggior rischio di separatismo (come lo Xinjiang). Per questo il Partito presta moltissimi sforzi nel tentativo di garantire la coesione e l’armonia sociale. Sin dai tempi di Mao, in una direttiva del Comitato Centrale del Partito del 16 marzo 1953, viene ufficialmente condannato lo “chauvinismo Han”, ossia la credenza nazionalistica che solo gli Han siano veri cinesi e che la storia abbia preparato per loro un posto speciale. Ma questa spinta alla coesione è avvenuta anche in modi più sottili. Fino agli anni ’80 il Partito usava il termine Zhōngguó rénmín, traducibile come “Popolo cinese”. Deng Xiaoping invece decise di adottare un mutamento nella politica verso le minoranze e si iniziò a parlare solo di Zhōnghuá mínzú, “Nazione cinese”. Il problema è che in cinese minzú si riferisce contemporaneamente alla nazionalità e a un gruppo etnico, producendo l’effetto di negare una differenza.
L’adozione del concetto di Zhonghua mínzú ha dato luogo alla reinterpretazione della storia cinese. Ad esempio, la dinastia Qing fondata dai Manciù era originariamente a volte caratterizzata come un “regime conquistatore” o un regime “non Han”. In seguito all’adozione dell’ideologia Zhonghua mínzú, che vede i Manchu come membri a tutti gli effetti dello Zhonghua mínzú stesso, le dinastie fondate da minoranze etniche non sono più stigmatizzate, perché sono considerate sempre cinesi.
Il concetto di Zhonghua mínzú ha portato tuttavia anche alla rivalutazione del ruolo di molte figure eroiche tradizionali. Eroi come Yue Fei e Koxinga, che in origine erano spesso considerati combattenti per la Cina contro le incursioni barbariche, sono stati ri-caratterizzati da alcuni come minzu yingxiong (eroi etnici) che combatterono non contro barbari ma contro altri membri dello Zhonghua mínzú (i Jurchen e Manchu rispettivamente). Ed è sempre così, perché tutto si tiene assieme, che Gengis Khan è diventato un “eroe nazionale cinese” come membro dello Zhonghua mínzú.
Non solo, ma quando la Cina Popolare parla di “overseas chinese” non si riferisce ai cittadini della Repubblica Popolare che vivono all’estero, ma proprio a tutti i cinesi membri Zhonghua mínzú, non importa la cittadinanza. Tanto che anche la componente etnica cinese di Singapore è considerata parte della Zhonghua mínzú (e quando morì il padre fondatore dello Stato Lee Kuan Yew venne velatamente criticato sui giornali di Partito per aver consentito la westernization di quei cinesi).
Dove poi la retorica non è stata sufficiente per cooptare le minoranze etniche nel sistema si sono utilizzate l’esenzione dalla politica del figlio unico, accessi semplificati nelle università ma anche ai mutui. Ma pure forti investimenti nelle singole Regioni Autonome: il prossimo piano quinquennale 2021-2025 prevede 30 miliardi di dollari solamente nuove costruzioni infrastrutturali in Tibet, per quanto i critici sostengono che questo denaro andrà ad aziende Han vicine al Partito che impiegheranno manodopera Han, anche importandola da altre Province e facendo così diminuire la percentuale assoluta di Tibetani sul territorio.
Quando poi tutto ciò ancora non basta, per riportare le zone di confine abitate da minoranze vicine al centro politico, rimane sempre la cara vecchia violenza. Il predecessore di Xi Jinping nella posizione di Segretario del Partito Comunista, Hu Jintao, occupò dal 1988 al 1992 l’incarico di Segretario del Partito in Tibet e Commissario Politico dell’Esercito della Regione, periodo durante i quali ci furono scontri sanguinosi e venne anche applicata la legge marziale. Successivamente, scalato il potere, nominò il 25 agosto 2011 Chen Quanguo come nuovo Segretario Regionale, dove divenne famoso per il pugno di ferro e il sistema di sorveglianza di massa che mise in piedi. Lo stesso Chen Quanguo nell’agosto 2016 venne trasferito nel ruolo di Segretario dello Xinjiang, applicando sugli Uyghuri quanto già praticato sui Tibetani con l’aggiunta di tecnologie più moderne, dando a tutta la sua operazione dei contorni che numerosi giornali occidentali hanno identificato come “genocidio”.
In sostanza il Tibet è stato il campo prova per lo Xinjiang. Ma c’è una differenza fondamentale fra i due casi: il Dalai Lama. Se i “campi di lavoro” in Xinjiang producono condanne manca un volto da dare alla causa. Il Tibet rappresenta uno scoglio così difficile per la Cina Popolare perché il Dalai Lama è una figura carismatica riconosciuta a livello globale.
Per riassumere la storia del Tibet, questo ha subito numerose trasformazioni politiche: da un impero unificato (640-842) che incorporava parti di quelli che oggi sono il Nepal, l’India, il Pakistan e diverse province della Cina (Gansu, Xinjiang, Sichuan, Yunnan), a un insieme di regni e sistemi politici a volte antagonisti associati a vari monasteri (842–1248), a protettorato sotto il potere di un impero mongolo in espansione (1248–1368), a una nuova raccolta di regni e sistemi politici indipendenti e talvolta antagonisti associati a vari monasteri (1368–1642), a uno stato centralizzato sotto l’amministrazione teocratica dei Dalai Lama (1642–1720), a un protettorato della dinastia Manciù Qing (1720–1911), e infine a una nazione dotata di indipendenza de facto sotto l’amministrazione teocratica dei Dalai Lama (1911-1951). Una storia, dunque, molto lunga e intricata. Comunque, nel 1950 la Repubblica Popolare Cinese invase il Tibet per “liberarlo dalle forze imperialiste” (infatti dalla storiografia cinese l’evento è riferito come “Liberazione Pacifica del Tibet”), anche se oggi il Partito tende a enfatizzare maggiormente ragioni modernizzatrici e umanitarie connesse all’abolizione del feudalesimo e della servitù della gleba. La guerra, brevissima, si concluse con la firma dell’Accordo dei 17 Punti nel 1951, che sostanzialmente annetteva il Tibet ma ne riconosceva l’autonomia, anche della struttura politica.
Nel 1956 nelle prefetture e contee di confine col Tibet iniziò una forte guerriglia contro le riforme agrarie di Mao Zedong; la situazione in breve si diffuse anche in Tibet. Mao commentò, da testo pubblicato nei suoi manoscritti:
Più la situazione in Tibet diventa caotica, meglio è; perché aiuterà ad addestrare le nostre truppe e a indurire le masse. Inoltre, il caos fornirà una ragione sufficiente per reprimere la ribellione e realizzare riforme in futuro.
Il 10 marzo 1959 iniziò una manifestazione di migliaia di persone a Lhasa, la capitale del Tibet, nel timore che le autorità cinesi avessero l’intenzione di rapire e deportare il Dalai Lama.
Il 17 marzo questi scappò in India chiedendo e ottenendo asilo politico. Qui a Dharamsala mise un governo in esilio (l’Amministrazione Centrale Tibetana) e creò una comunità di circa 100 mila tibetani rifugiati.
Da allora il Dalai Lama, che comunque non chiede più indipendenza per il Tibet dal 1973 ma solo vera autonomia, ha effettuato centinaia di visite all’estero, incontrato politici, tenuto discorsi pubblici e ricevuto il Premio Nobel per la Pace, lo stesso anno delle proteste a piazza Tienammen. Fra le varie cose, nel 2006 è diventato una delle sole sei persone ad aver ottenuto la cittadinanza onoraria canadese e nel 2007 è stato premiato con la Medaglia d’oro del Congresso Americano.
Il lato negativo di avere un individuo così famoso a portare avanti una causa è che gli individui, prima o poi, muoiono. Un argomento che è come un orologio che ticchetta sempre più velocemente per un uomo che ormai ha 85 anni. Si pone dunque il problema di cosa possa succedere “dopo”.
I “Dalai Lama” sono considerati, nel contesto del buddhismo tibetano, la manifestazione terrena del bodhisattva cosmico Avalokiteśvara. Il bodhisattva è un soggetto che, pur avendo ormai raggiunto l’illuminazione, e avendo quindi esaurito il ciclo delle sue esistenze terrene, sceglie tuttavia di rinunciare provvisoriamente al nirvana e di continuare a reincarnarsi, sotto la spinta della compassione, per dedicarsi ad aiutare gli altri esseri umani a raggiungerlo, spendendo per loro i propri meriti. L’attuale è il quattordicesimo Dalai Lama, mentre il primo nacque nel 1391.
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Proprio perché si tratta di una reincarnazione, non ci può essere una successione ereditaria nella posizione. Una volta morto un Dalai Lama i monaci devono condurre una ricerca fra neonati e infanti per ritrovare il nuovo corpo in cui lo spirito si è incarnato. Questa ricerca può richiedere anni e coinvolge l’interpretazione di diversi simbolismi arcani. Dopo aver individuato la zona corretta del Tibet da passare al setaccio, sono presentati ai neonati oggetti appartenuti o meno al precedente Dalai Lama e si valuta se il bambino mostra di riconoscerli o meno, indicando dunque una qualche conoscenza della sua precedente vita. Se questa e altre prove sono passate, molte delle quali organizzate dal Panchen Lama, anche lui un “reincarnato” e seconda figura del buddismo tibetano, avremo trovato il nuovo corpo del Dalai Lama.
Chiaramente un processo di questo tipo lascia molto spazio alla Cina Popolare per intervenire. Già nel 1991 venne emanato “L’avviso del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese e del Consiglio di Stato su diverse questioni relative all’ulteriore svolgimento di un buon lavoro nel campo religioso” in base al quale i lama reincarnati dovevano ottenere l’approvazione del Partito Comunista. La norma venne chiarita e specificata con l’Ordine N. 5 dell’Amministrazione Statale per gli Affari Religiosi del 13 luglio 2007. L’Ordine, emanato da un ente dipendente direttamente dal gabinetto cinese (il Consiglio di Stato), prevede all’articolo 5 che i buddha viventi reincarnati debbano presentare una “appropriata domanda di reincarnazione” al governo locale, in una piramide gerarchica che sale sempre più man mano che aumenta “l’impatto” della reincarnazione: quelle con una “intensità particolarmente inusuale” devono essere approvate dallo stesso Consiglio di Stato. L’articolo 11 prevede una responsabilità penale per la violazione della norma. Con successivo Decreto del 3 agosto, la stessa Amministrazione ha stabilito che le reincarnazioni che avvengono non seguendo l’Ordine N. 5 sono illegali o invalide.
A complemento di questo sforzo, nel dicembre del 2015 l’Amministrazione per gli Affari Religiosi ha pubblicato un database di tutti gli 870 buddha viventi. Chiaramente solo quelli approvati dal Governo: infatti il Dalai Lama non era compreso.
Nello sforzo di Xi Jinping di trasferire poteri dallo Stato al Partito, inoltre, nel 2018 l’Amministrazione Statale per gli Affari Religiosi è stata dissolta e tutti i suoi compiti sono passati direttamente al Dipartimento del Lavoro del Fronte Unito del Comitato Centrale del Partito Comunista. Allo stesso è stata trasferita anche la responsabilità sulla Commissione Nazionale degli Affari Etnici (che dal 2020 vede per la sua prima volta come presidente un Han). Il Dipartimento del Fronte è una organizzazione da oltre 40mila dipendenti con budget segreto, suddivisa in sedici uffici dedicati a elaborare politiche in ogni campo e garantire il sostegno collettivo, interno ed esterno, al Partito. Ben due uffici (l’undicesimo e il dodicesimo) sono dedicati allo studio e applicazione delle politiche religiose e perseguono da una Conferenza dell’aprile 2016 l’obiettivo di spingere le cinque religioni legali nella Repubblica Popolare alla “sinicizzazione”, anche dottrinaria.
Per quanto riguarda il buddhismo tibetano, il vice-direttore esecutivo del Dipartimento, Zhang Yijiong, che è stato anche vice segretario del Partito in Tibet dal 2006 al 2010, ha dichiarato che “Il buddismo tibetano, nato nella nostra antica Cina, è una religione con caratteristiche cinesi. È vero che il buddismo tibetano in formazione aveva ricevuto influenza da altri paesi buddisti vicini, ma si è adattato alla realtà locale e ha formato la sua dottrina e i suoi rituali unici, che è un modello di sinicizzazione stesso… Stiamo guidando attivamente il buddismo tibetano nel la direzione della sinicizzazione nella speranza che il buddismo tibetano assorba ulteriormente il nutrimento dell’eccellente cultura cinese.”
Un’altra difficoltà che deve fronteggiare il Dalai Lama nella sua reincarnazione è la figura del Panchen Lama. Questi, a differenza del Dalai Lama, non fuggì dal Tibet. Per quanto fin dal 1949 supportasse il Partito Comunista Cinese, come pure la sua rivendicazione di sovranità sul Tibet, nel 1964 a 26 anni venne arrestato, torturato, umiliato pubblicamente e dichiarato “nemico del popolo tibetano”. Venne rilasciato solo nel 1978, quando venne dichiarato “riabilitato” e abbandonò l’abito monacale. Morì nel 1989 a 51 anni.
A quel punto il Dalai Lama iniziò dall’India la ricerca del neonato in cui si fosse reincarnato. Questi venne individuato in Gedhun Choekyi, di sei anni. A tre giorni dalla sua scoperta, venne rapito dalla polizia cinese e da allora non si hanno sue notizie. È considerato il più giovane prigioniero politico della storia. Al suo posto il Partito organizzò una propria ricerca che nominò Panchen Lama Gyaltsen Norbu. Il Panchen Lama “ufficiale” non tiene residenza nel monastero di sua competenza in Tibet ma vive a Pechino in uno stato di semi arresti domiciliari. Dal 2008 è stato nominato ripetutamente membro della Conferenza Politica Consultiva del Popolo Cinese, la “camera alta” del “parlamento” cinese, sebbene come da nome abbia funzione solo consultiva. Dopo qualche anno è stato anche promosso al suo Comitato Permanente. Nel discorso tenuto alla Conferenza nel 2017 ha dichiarato:
Ci mancano particolarmente gli sforzi per trovare teorie religiose che vadano con i valori fondamentali del socialismo. In questo, non riusciamo a soddisfare la maggior parte delle aspettative dei nostri seguaci.
Mentre in una intervista prima di parlare alla Conferenza nel 2021 ha sostenuto che: “Il buddismo tibetano si adatterà a una società socialista con caratteristiche cinesi e si sposterà verso la sinicizzazione”.
Come ha reagito il Dalai Lama a tutto questo?
In una intervista al Time del 2004 ha dichiarato: “L’istituzione del Dalai Lama, e se debba continuare o meno, spetta al popolo tibetano. Se ritengono che non sia rilevante, cesserà e non ci sarà il 15° Dalai Lama. Ma se muoio oggi penso che vorranno un altro Dalai Lama. Lo scopo della reincarnazione è di adempiere al precedente compito della vita precedente. La mia vita è fuori dal Tibet, quindi la mia reincarnazione si troverà logicamente fuori. Ma poi, la prossima domanda: i cinesi lo accetteranno o no? La Cina non accetterà. Il governo cinese molto probabilmente nominerà un altro Dalai Lama, come ha fatto con il Panchen Lama. Poi ci saranno due Dalai Lama: uno, il Dalai Lama dal cuore tibetano, e uno ufficialmente nominato.”
Da quel momento ha rilasciato numerose altre dichiarazioni, ad esempio nel 2007 ha affermato che il prossimo Dalai Lama potrebbe benissimo essere una donna, se ciò dovesse essere più utile al fine spirituale della figura. Nel 2011 si è dimesso da ogni ruolo nel governo tibetano in esilio, sostenendo che il tempo per la teocrazia è finito e che il Tibet futuro sarà libero e democratico. Lo stesso anno ha affermato che “Quando avrò circa 90 anni, consulterò gli alti lama delle tradizioni buddiste tibetane, il pubblico tibetano e altre persone interessate che seguono il buddismo tibetano, e valuterò nuovamente se l’istituzione del Dalai Lama debba continuare o meno. A parte la reincarnazione riconosciuta attraverso metodi legittimi, nessun riconoscimento o accettazione deve essere concessa a un candidato scelto per fini politici, compresi quelli della Repubblica popolare cinese”. Inoltre ha annunciato che la decisione di reincarnarsi o meno appartiene alla sfera prettamente personale del reincarnato e non può dunque essere forzata. Comunque, quando sarà ancora nel pieno delle sue facoltà mentali, per evitare fraintendimenti, lascerà indicazioni scritte su come riconoscere il suo successore.
Queste dichiarazioni vennero commentate nel 2015 da Padma Choling, allora Presidente dell’Assemblea Legislativa del Tibet e attualmente Vice-Presidente di quella Nazionale (il Congresso Nazionale del Popolo), sostenendo che
“Se [il Dalai Lama] vuole cessare la reincarnazione o no… questa decisione non spetta a lui… Può decidere quando smettere di reincarnarsi? Questo è impossibile”.
Padma Choling è di etnia tibetana, ma è ovviamente membro del Partito Comunista Cinese, che richiede obbligatoriamente a tutti i sui membri di essere atei. Inoltre il Segretario Generale Xi Jinping ha anche invitato tutti i membri del Partito a ripudiare con fermezza la ricerca di valori nelle religioni. Non risulta nemmeno che Padma Choling abbia ricoperto posizioni in organizzazioni che si occupino politicamente di amministrare la religione. Dunque non si può dire quanto sia fondata la sua affermazione circa l’inevitabilità del Dalai Lama di reincarnarsi.
Anche l’ultima dichiarazione rilasciata dal Dalai Lama in merito alla sua reincarnazione nell’ottobre 2019 ha suscitato la rabbia del Partito Comunista Cinese. Infatti, “Sua Santità” ha dichiarato che l’istituzione del Dalai Lama dovrebbe cessare per i suoi legami col passato feudale. Una rabbia da parte del Partito che risulta incongruente col fatto di vantare di aver liberato pacificamente il Tibet proprio da quel passato feudale.