Nacque a Napoli il 18 novembre 1851 da Giovanni, di un’antica famiglia di origine catalana, e da Carolina Zezza di Zapponeta.
Terminati nel 1872 gli studi di giurisprudenza, nel 1874 entrò in magistratura rimanendo a Napoli, dapprima presso la procura distrettuale, poi presso la procura generale della Corte di cassazione napoletana.
Garofalo mostrò di apprezzare la teoria, sostenuta anche da Mancini, che commisurava la gravità dei reati in base all’impulso, ovvero alla causa, che determina l’azione piuttosto che in rapporto alla sussistenza della premeditazione.
Concluso un incarico presso il ministero di grazia e giustizia, dall’anno successivo il Garofalo passò, con il grado di aggiunto, al tribunale civile di Napoli, intraprendendo stabilmente la carriera nella magistratura, anche se non abbandonò mai l’attività di studio e di ricerca. In questo ambito egli è tradizionalmente accostato a Enrico Ferri e a Cesare Lombroso tra i fondatori della scuola positiva del diritto criminale, materia di cui, nel 1891 presso l’Università di Napoli, ottenne la libera docenza, insieme con quella di procedura penale.
Sul Ferri e sul Lombroso Garofalo vantava, tuttavia, una priorità cronologica per aver pubblicato, nel 1877 sul Giornale napoletano, Della mitigazione dei reati di sangue e, poco più tardi, Di un criterio positivo della penalità (Napoli 1880). In quest’ultima opera il criterio di determinazione della pena viene rapportato alla temibilità del colpevole desumibile dai reati commessi, i quali costituiscono la risultante di una gravità criminosa oggettiva, graduata sull’allarme sociale prodotto dal fatto, e di una gravità soggettiva, incardinata alla tendenza del soggetto delinquente a commettere successivamente altri reati.
Nel 1889 Garofalo, ormai presidente del tribunale civile di Napoli, pubblicò, insieme con L. Carelli, lo studio Dei recidivi e della recidiva nel Completo trattato teorico e pratico di diritto penale, in cui, come parte integrante della teoria della pena, prendeva in esame il caso di successive condanne riportate da un medesimo soggetto, colpevole di reati diversi, in quanto dimostrativo del persistere della tendenza criminosa nell’autore delle azioni penalmente rilevanti.
Al riguardo mostrava di non condividere la sistematica del codice Zanardelli che si riferiva alla “recidiva”, mentre meglio sarebbe stato per Garofalo ritornare alla intitolazione “dei recidivi” del corrispondente capo del codice del 1859. In quelle pagine, infatti, egli tacciava la nozione di recidiva di astrattezza e di reverenza alla scuola classica del diritto penale, in quanto, nel giudizio, la reiterazione dei reati avrebbe dovuto essere considerata insieme con la valutazione della personalità dell’autore come espressione della tendenza a delinquere.
Garofalo sostenne con fermezza l’applicazione del massimo rigore nella repressione dei reati e partecipò da fervente conservatore al dibattito sulla eliminazione della pena capitale dall’ordinamento italiano che precedette l’emanazione del codice Zanardelli.
Con la pubblicazione dello scritto Contro la corrente (Napoli 1888) intese derivare dall’antropologia e dalla psicologia criminale le ragioni del mantenimento della pena di morte: considerò l’istinto di pietà congenito nell’uomo e attinente solo in minima parte all’educazione, derivandone l’anormalità psichica di coloro che non mostrassero turbamento per il dolore inflitto ad altri. Classificò tali soggetti come una tipologia della razza su cui non era possibile intervenire attraverso l’educazione e che, dunque, non poteva essere emendata. La pena di morte veniva perciò considerata l’unico strumento repressivo veramente idoneo a preservare la società civile e a essa Garofalo attribuì altresì una funzione eugenetica di eliminazione degli individui psichicamente anormali, limitando, tuttavia, la necessità del ricorso alla soppressione del reo ai casi di omicidi qualificati da eccezionale crudeltà e nei quali, a prescindere dall’indagine sulla premeditazione, era comunque dato di riscontrare l’anormalità psichica di chi li avesse commessi.
In questa chiave giudicò inesatto il convincimento di quella criminologia che riteneva di poter individuare il tipo delinquente dai caratteri fisici esterni e – nell’insistere sulla necessità di affrancare il piano dell’indagine dallo studio dell’anatomia – sostenne la necessità di porre la psicologia criminale al primo posto nell’ambito dell’antropologia criminale.
Nell’inverno del 1896, mentre era procuratore del re a Castiglione delle Stiviere, ritornò a prestare servizio presso il ministero di Grazia e Giustizia, stavolta come capo dell’ufficio legislativo.
La carriera di Garofalo in magistratura raggiunse i più alti gradi: consigliere della Corte di cassazione di Roma nel 1902 e presidente di sezione della corte d’appello di Napoli l’anno seguente; avvocato generale presso la Cassazione di Roma nel 1911, quindi presidente di sezione della stessa nel 1913. Il 23 dicembre 1915 fu nominato procuratore generale presso la Corte di cassazione di Torino, passando poi con lo stesso incarico a Napoli dal 24 dicembre 1919. Qui il 1° maggio 1920 divenne primo presidente, fino al 31 gennaio 1922 quando fu collocato a riposo a domanda per raggiunti limiti di età. Garofalo era stato anche nominato senatore già il 4 aprile 1909.
Conservatore, profondamente avverso al socialismo, aveva aderito al fascismo fin dai suoi esordi.
Garofalo morì a Napoli il 18 aprile 1934.