Quando la Francia nazionalizzò per decreto la Chiesa
Il 12 luglio 1790 l’Assemblea costituente, che da circa un anno reggeva le sorti politiche della Francia, promulgò una riforma per cambiare la vita religiosa del Regno. La convinzione dominante in quel consesso era che per la «fille aînée de l’Église» fosse giunta l’ora di emanciparsi dal legame con Roma e il Papato, quantomeno dal punto di vista gerarchico. In fondo non vi era ragione di stupirsi se quell’assise, convocata da Luigi XVI come stati generali e poi proclamatasi rappresentanza del popolo sovrano, ambisse a estendere nel campo della religione ciò che già stava realizzando nel campo politico.
L’intervento normativo
Quel 12 luglio, dunque, il potere politico intervenne in via unilaterale a disciplinare una materia – l’organizzazione interna della Chiesa cattolica – di ordine tradizionalmente ecclesiastico. Di fatto veniva abrogato il concordato di Bologna tra Francesco I e Leone X, che dal 1516 disciplinava il modus vivendi tra il Papato, il Re di Francia e la Chiesa ‘gallicana’. La constitution civile du clergé ebbe la forma di un decreto che disciplinava integralmente, in quattro titoli e poco meno di novanta articoli, l’organizzazione el’intera vita della Chiesa francese, stabilendo princìpi che ricorderemo tra poco. Il 24 agosto il decreto ebbe la sanzione di Luigi XVI, necessaria perché entrasse in vigore. Proprio la figura del devoto sovrano dà la chiave per comprendere quanto la questione fosse centrale e, forse, possa essere considerata il vero punto di non ritorno della Rivoluzione.
Già prima di allora, su proposta di Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, vescovo di Autun, l’Assemblea aveva assunto provvedimenti per la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici (alla fine del 1789) e per la soppressione degli ordini regolari, ossia i conventi e i monasteri. Ma ora che si trattava del clero secolare, incaricato della cura d’anime in parrocchie e diocesi, Luigi XVI fece prevalere il suo scrupolo di cattolico sul ligio ossequio al potere della Costituente che fin lì aveva manifestato. Scrisse perciò a Pio VI nella speranza che il Pontefice potesse, se non avallare, almeno accettare come male minore le annunciate disposizioni sulla riforma della Chiesa d’oltralpe. Così gli consigliava di fare il buon rapporto personale che il Re di Francia aveva instaurato con quel Papa, a cui lo accomunavano un carattere mite e (questo però non si poteva ancora sapere) la sorte della prigionia. Pio VI, infatti, in seguito fu fatto prigioniero durante l’invasione francese di Roma del 1798. Morirà a sua volta in prigionia a Valence-sur-Rhône nel 1799 e, sulla tomba, verrà repubblicanamente ricordato come il «Cittadino Giannangelo Braschi, in arte Papa».
La minaccia di scomunica
Tornando al punto, tuttavia, la risposta da Roma giunse solo a distanza di mesi e non diede conforto al sovrano. Con il breve Quod aliquando del 10 marzo 1791, infatti, Pio VI argomentava con un profluvio di riferimenti storici la minaccia della scomunica: «Non si può negare in nessun modo che il Vescovo di Autun e i suoi seguaci si sono posti da se stessi in uno stato simile a quello di coloro che soggiacquero […] alla sentenza di Liberio, d’Ilario e di Damaso [santi e pontefici che furono protagonisti della battaglia contro l’arianesimo, n.d.r.], e perciò se non ritratteranno quel giuramento che hanno dato, sappiano fin da ora che cosa dovranno aspettarsi». Qualora fosse rimasto qualche dubbio sui margini di manovra, Pio VI precisava:
«Ciò che abbiamo asserito ed esposto fin qui, non abbiamo ricavato dalla Nostra mente, ma dalle più pure fonti della sacra Dottrina».
Tutto quanto stava architettando in questo campo l’Assemblea Francese, in altre parole, era contrario al diritto canonico, che nell’Europa cattolica restava pur sempre ‘l’altra metà’ del cielo del diritto, e il Papa non era certamente disposto a transigere su questo punto.
Le caratteristiche della Costituzione del Clero
Che cosa prevedeva, dunque, quel decreto del 12 Luglio 1791, e in che cosa consisteva quel giuramento che risultava inaccettabile agli occhi di Pio VI? In effetti, se si guarda il tenore del testo normativo, si nota che il conflitto con Roma era frontale e apertamente ricercato. Si stabilivano le modalità di accesso alle cariche ecclesiastiche, disciplinandone le modalità di elezione da parte di comitati politici locali alla stregua di una qualsiasi carica pubblica. Si introduceva una radicale riorganizzazione delle parrocchie e delle diocesi (che da 135 divennero 83), per uniformare l’organizzazione della Chiesa francese – frutto di secolari stratificazioni e consuetudini – al modello amministrativo introdotto con la riforma dei dipartimenti del 22 dicembre 1789 (che prevedeva, appunto, la suddivisione del Regno in 83 dipartimenti). Si recidevano, con il divieto di fare ricorso alla Santa Sede per la risoluzioni di conflitti all’interno della Chiesa e tra questa e il potere politico, i legami gerarchici che univano il clero francese a Roma. Soprattutto, si introduceva per il clero l’obbligo del giuramento di fedeltà alla nazione. Chi veniva eletto a una carica ecclesiastica era tenuto a prestarlo, a pena di gravi sanzioni e, ovviamente, dell’impossibilità di prendere possesso del beneficio ecclesiastico (ossia la sede ecclesiastica a cui avrebbe dovuto presiedere e, cosa non meno importante, le relative rendite):
«Giuro di vegliare attentamente sui fedeli della parrocchia [o della diocesi] che mi sono stati affidati, di essere fedele alla Nazione, alla Legge, al Re e di difendere con tutto il mio potere la Costituzione decretata dal Assemblea nazionale e accettata dal Re».
Nessun riferimento al Papa, dunque, ma in realtà neppure alla Chiesa o a Dio stesso, fosse pure nei panni – grembiule e guanti inclusi – dell’Essere Supremo.
La frattura sociale
Proprio in questa rottura del nesso con la Chiesa universale – un riferimento che rischiava di minare le motivazioni nazionalistiche che tutto, anche la religione, doveva invece contribuire a rafforzare nella popolazione – stava il potenziale dirompente dell’idea sottesa alla costituzione civile del clero. Non per nulla fu attorno a questo atto che si creò una frattura insanabile tra le parti della nazione ancora fortemente cattoliche e l’élite che non soltanto si allontanava da quella tradizione culturale e religiosa, ma intendeva sostituirla con un’altra, plasmata a immagine dei suoi ideali politici e filosofici. L’idea dei rivoluzionari era proprio quella di far diventare anche la Chiesa una sorta di apparato dello Stato. Fu il primo momento in cui la Rivoluzione lasciò emergere chiaramente le venature ideologiche totalitarie che erano più o meno latenti nel modello di Stato che giorno per giorno andava delineandosi: uno Stato che tutto reclama per sé, al punto da incorporare e piegare ai propri fini anche la vita spirituale dei suoi cittadini.
Quanto a radicalismo, la portata della riforma era forse andata oltre gli intenti dello stesso Talleyrand, che fu tra i suoi originari promotori. Anche per questa radicalizzazione del progetto doveva essere messo in conto che una parte del clero – chiamato poi «clero refrattario» contrapposto a quello «costituzionale» – si rifiutasse all’atto pratico di prestare il giuramento. Ciò che invece dovette allarmare i rivoluzionari fu l’entità della resistenza: oltre la metà del clero parrocchiale e quasi tutti i vescovi, tranne sette, risultarono refrattari. Talleyrand, con un gesto di cui non si può non ammirare il coraggio, provvide a sciogliere l’impasse ricorrendo ai poteri che il diritto canonico, malgrado tutto, gli riconosceva: consacrò egli stesso dei nuovi vescovi per infoltire le file dei costituzionali. Quel vescovo senza vocazione, che già aveva dismesso i panni del prelato per indossare quelli del politico di genio e dello spregiudicato tessitore di intrighi («voi siete solo una merda in una calza di seta», lo apostroferà anni dopo Bonaparte, che pure non poteva rinunciare ai suoi servigi), indossò nuovamente i paramenti liturgici e divenne d’un tratto il ‘padre’ della nuova Chiesa di Francia.
Proprio per questo il nuovo provvedimento di Pio VI, il breve Charitas quae del 13 aprile 1791, dedicò particolare attenzione al vescovo di Autun e a coloro che lo assistettero nel suo «sacrilego gesto», responsabili dello scisma – fattispecie che è tutt’oggi uno dei delicta graviora contro l’unità della Chiesa, punito con la più grave delle scomuniche, irrogata latae sententiae – di una parte del clero di Francia. Tutto ciò in nome di una legge che, come scriveva il Papa, «nasceva da principi contaminati dall’eresia, e perciò in parecchi decreti era eretica a propria volta e contraria al dogma cattolico; in altri invece sacrilega, scismatica, distruttiva dei diritti del Primato e della Chiesa, contraria sia alla vecchia sia alla nuova disciplina; in definitiva, strutturata e diffusa senz’altro scopo che abolire la religione cattolica».
Il seguito della vicenda assunse presto tinte tragiche. La ribellione della Vandea, che prima ancora che monarchica fu cattolica, nacque da qui e sfociò in una guerra civile di violenza mai sperimentata prima. Per misurarne l’entità basti dire che, ancora oggi, essa resta un capitolo della storia francese su cui è difficile fare luce . Inoltre, lungi dal fermarsi, dopo l’approvazione della Costitution Civile le pulsioni antiromane e anticattoliche dei fautori della Rivoluzione si esacerbarono sempre di più, portando alla persecuzione del clero superstite e infine introducendo – ancora una volta per legge – il culto della Dea Ragione in luogo del cristianesimo. Al termine di un decennio sanguinario, la costituzione civile del clero fu archiviata già in epoca napoleonica, quando il còrso autoritario e il pragmatico Pio VII ritennero più opportuno guardare al futuro che al passato e stipularono il Concordato del 1801.
Talleyrand nel momento della morte
A beneficiare di quell’oblio traumatico consigliato dagli eventi; – come il silenzio che si fa attorno a un ricordo troppo doloroso anche solo per essere evocato, – fu anche lo stesso Talleyrand. Il quale, in punto di morte, poté cavarsela ancora una volta senza rinnegare nulla e ottenendo tutto, con un gesto che unì mirabilmente il cinismo del Siècle des Lumières e il romanticismo edificante del pieno Ottocento in cui ormai ci si trovava (regnava infatti Luigi Filippo, la cui ascesa sul trono del cugino Carlo X era stato l’ultimo capolavoro di Talleyrand; quando il “Re borghese” gli aveva fatto visita nei giorni della malattia, l’antico ministro si era lasciato sfuggire una rara lamentela: «Soffro le pene dell’Inferno»; «Di già?», pare avesse risposto lo stupito sovrano). Il 17 maggio 1838, ad ogni modo, Talleyrand ricevette al capezzale l’assoluzione dai suoi abbondanti peccati. Subito dopo trovò la forza per porgere al sacerdote, che ora gli impartiva l’estrema unzione, le mani chiuse e rivolte verso il basso, anziché aperte e rivolte verso l’alto come avrebbe fatto qualsiasi altro fedele: «Non dimenticate, signor abate, che sono vescovo». E, come vescovo, i palmi delle sue mani avevano già ricevuto il crisma della consacrazione, nel lontano 1788. Nulla di personale contro la Chiesa, insomma, ma ciò che Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord aveva realizzato insieme e per conto della Costituente fu, e per molti versi resta tuttora, l’attacco più temibile che la Chiesa cattolica abbia subito nel corso degli ultimi secoli della sua storia.
Nostre Massime a tema religioso:
- 62. In Chiesa scamiciato come un matto (1902)
- 55. Il Campanile di Asiago (1901)
- 44. Le Cure del Taumaturgo (1931)
- 29. Il discorso del Papa Re (1876)
- 19. Quando la Madonna appare (1896)
Una conclusione
Quello della costituzione civile del clero, però, è anche un esempio storico lungi dell’essere fine a sé stesso. Basti pensare alla situazione cinese e al paziente lavoro diplomatico che papa Francesco, e prima di lui Benedetto XVI, hanno dedicato e dedicano oggi al problema delle consacrazioni dei vescovi di quel paese, oltre che al fragile accordo su cui si regge oggi l’equilibrio tra la Chiesa di Roma e un regime che ha istituito, per fini del tutto simili a quelli che mossero la Costituente francese 230 anni fa, la propria «Chiesa cattolica» Ma sarebbe un discorso lungo. Basti l’evocazione dell’esempio, per ricordare come la storia abbia sempre qualche buona ragione da farci ascoltare.
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