Quando nel 1901 fu rinvenuta la stele con sopra inciso il Codice di Hammurabi suscitò un’eco sensazionale in tutto il mondo degli studi giuridici. Era il più antico testo normativo mai scoperto fino ad allora: fu come il ritrovamento dei Rotoli del Mar Morto, ma per il diritto antico. In quel clima di entusiasmo fu pubblicata già nel 1903 la prima traduzione italiana delle Leggi di Hammurabi a cura di Pietro Bonfante, che abbiamo voluto ripresentatare in una nuova edizione con Le Lucerne.
Ma quelle di Hammurabi erano esattamente delle leggi? In che modo giudicavano i magistrati babilonesi nei singoli casi?
Ancora oggi il codice continua ad affascinare lasciando molte domande senza risposta, ma soprattutto offrendo uno spaccato straordinario su una società di tremilasettecento anni fa, con tutte le sue variegate prescrizioni sul commercio e il lavoro, la famiglia e l’omicidio, fino agli incantesimi.
A voi la prefazione di Brenno Bianchi.
Sfogliando un numero a caso della rivista Il Monitore dei Tribunali datata 1903, ci siamo imbattuti in un articoletto che ci ha incuriosito:
La solerte Società Editrice Libraria pubblica le leggi di Hammurabi, in un volumetto in cui il buon gusto del formato si allea all’interesse vivissimo del contenuto.
Si tratta, come i lettori certo già sapranno, di un codice che è il più antico di gran lunga che si conosce: di cinque secoli anteriore l’antichissima legge mosaica. L’interesse intenso che suscitano questi 282 articoli si riconnette al fenomeno davvero meraviglioso che ci offre un corpo di norme rivelatrici di un grado di civiltà quale, prima d’ora, gli studiosi erano ben lungi dal concepire per quei tempi remotissimi. Vi troviamo istituti diretti alla tutela non inefficace del credito, quali il deposito, il mutuo di grani e denaro; tutta un’economia capitalistica e bancaria di cui non vediamo la più piccola traccia in leggi posteriori di due millenni, nelle XII Tavole!
Ma di questo e di altri particolari discorre con quel garbo che non l’abbandona mai il Bonfante in una succinta ed esauriente prefazioncina. Anche nel testo del codice babilonese il chiaro romanista ha in molte note tenuto conto delle diverse lezioni del testo proposte dai vari interpreti del prezioso documento. Qui mi limito a segnalare al pubblico dotto e non dotto questo libriccino; la sua natura non potrà non suscitare melanconiche riflessioni in chi vi vedrà regolato legislativamente quel contratto di lavoro, che da noi oggi, sino a questa trionfante ed orgogliosa alba di secolo, è stato posto tranquillamente da un canto.
L. Barassi
Noi, chiaramente, ci siamo subito esaltati e siamo andati a ricercare questo menzionato libriccino dal titolo Le Leggi di Hammurabi Re di Babilonia.
Abbiamo deciso di ripubblicarlo ed è questa la versione che vi presentiamo nella nostra edizione digitale.
Ma chi era Hammurabi, re di Babilonia?
Hammurabi (circa 1750 a.C.) fu un grandissimo conquistatore. Ereditato un regno che si estendeva poco oltre la città di Babilonia, lo espanse fino ad annettere l’intera Mesopotamia: allora era quasi tutto il mondo conosciuto e dunque Hammurabi assunse il titolo di “Re dei quattro angoli della Terra”.
Il suo nome però ha travalicato i millenni non tanto come quello di un conquistatore indomabile quanto di un Re Legislatore e Giustiziere. La scoperta di una stele di diorite nera alta quasi due metri e mezzo nel 1901 presso l’acropoli di Susa generò un interesse internazionale. Infatti, sopra vi era inciso quello che era il più antico testo normativo mai scoperto. Così antico, per rendere l’idea, che le prime leggi scritte degli antichi romani, le note leggi delle XII Tavole, sono di milleduecento anni successive al codice di Hammurabi, pure di mille anni precedente la fondazione della stessa Roma.
Oggi ci sono note raccolte normative anteriori al Codice di Hammurabi (la più antica è il Codice di Ur-Nammu del 2050 a.C.), ma questo rimane il corpo normativo giunto a noi dall’antichità remota in modo più consistente: per trovare un testo più lungo ed elaborato bisogna saltare quasi duemila anni e arrivare al Codice Teodosiano del 439 d.C. Quando venne steso il Codice di Hammurabi l’umanità non adoperava ancora il ferro; quando troviamo qualcosa di comparabile, l’Impero Romano d’Occidente sta per crollare.
Hammurabi, dunque, voleva passare alla storia come un Re Legislatore e Giustiziere. Nel prologo al codice è dedicato poco spazio alle sue conquiste: il punto focale è piuttosto la missione che gli hanno comandato gli dei di riportare la giustizia sulla terra e fra gli oppressi. A rimarcare ciò, sulla cima della stele è raffigurato il dio della giustizia Shamash (e non la principale divinità babilonese Marduk) che, assiso su un trono con due fasci di raggi solari alle spalle, come a dissipare le ombre e portare la luce della giustizia, consegna a Hammurabi un bastone e un cerchio, strumenti cerimoniali che confermano la legittimità della sovranità del Re e delle sue Leggi.
Ma erano esattamente delle leggi? In realtà non lo sappiamo con sicurezza. Il corpus normativo del Codice di Hammurabi è molto disomogeneo. Rubare in una abitazione in fiamme è una fattispecie prevista, dare fuoco a una abitazione no. È previsto come reato dal codice accusare qualcuno ingiustamente di omicidio (primo testo normativo a prevedere la presunzione d’innocenza), ma l’omicidio in sé non è presente. In che modo, dunque, giudicavano i magistrati nei singoli casi? Non lo sappiamo.
È pure possibile che il codice fosse una raccolta di massime estratte da giudizi emessi da Hammurabi di fronte a casi a lui rimessi in qualità di sovrano giustiziere. In questa ipotesi, probabilmente, il Re era andato a innovare le norme preesistenti offrendo quella che era la “sua” giustizia, cucita sull’abito di domini che si erano allargati velocemente a tutto il mondo conosciuto, includendo genti, tribù e culti diversissimi.
In effetti, il Codice di Hammurabi presenta delle differenze rispetto al precedente Codice di Ur-Nammu, redatto sempre in Mesopotamia ma da una popolazione sumera e non semitica come i Babilonesi. Il Codice di Ur-Nammu era sostanzialmente egalitario nella comminazione delle pene. Queste, a loro volta, erano principalmente multe destinate a riparare i danni prodotti. Hammurabi, per il suo impero multietnico, propone una soluzione diversa per garantire l’ordine e la pace sociale: la società è divisa in liberi possidenti, liberi non possidenti e schiavi; le condotte criminose prevedono pene diverse in relazione alla qualità del soggetto che le ha commesse o verso cui sono state commesse. Le pene raramente sono monetarie ma seguono una legge del taglione corporale. Dunque, se un possidente cava un occhio a un altro possidente, come pena gli sarà cavato anche a lui un occhio; se invece il possidente avrà cavato un occhio a uno schiavo, dovrà pagare un risarcimento. Altro caso esemplificativo, se crolla una casa uccidendo il figlio del proprietario, dovrà essere ucciso anche il figlio del costruttore di quell’edificio.
Queste leggi possono apparire molto dure al lettore moderno. Sicuramente appaiono così a Facebook, che ha minacciato di chiudere la nostra pagina Massime dal Passato quando abbiamo proposto il testo dell’articolo sul furto di un bue, pecora, asino, porco o battello.
Il codice offre, a noi lettori contemporanei, uno spaccato molto dettagliato su una società di tremilasettecento anni fa, con tutte le sue variegate norme riguardo il commercio o il lavoro. Hammurabi aveva previsto salari minimi per braccianti, pastori e marinai! E troviamo anche norme dettagliate sulle prestazioni mediche e la loro retribuzione! Pure le assicurazioni dei carichi marittimi di oggi sono regolate sugli stessi principi di allora.
Le norme di procedura rinvenute, invece, sono pochissime, ma in compenso il codice ci presenta la moderna necessità di atti scritti e notai, a pena di nullità, per atti di matrimonio, obbligazioni, quietanze e donazioni. Non si sfugge dalla carta o, piuttosto, dalla tavoletta di argilla.
A oggi, tuttavia, non sappiamo nulla del modo in cui il Codice di Hammurabi venne applicato nella pratica giuridica. Sappiamo, però, che il testo venne a lungo venerato con rispetto nel Medio Oriente. La stele venne portata a Susa da un regno nemico, dove è stata poi rinvenuta, come prezioso bottino di guerra da esporre ben seicento anni dopo la sua incisione, con l’impero babilonese già crollato da secoli. Non solo, oltre mille anni dopo, durante il regno del sovrano di un altro popolo, Assurbanipal degli Assiri, il Codice di Hammurabi veniva ancora copiato e preso a modello. Non cosa da poco.
Quando la stele con sopra inciso il Codice di Hammurabi venne riscoperta nel 1901 suscitò un’eco sensazionale in tutto il mondo degli studi giuridici. Fu come la scoperta dei Rotoli del Mar Morto ma per il diritto antico.
La traduzione di Pietro Bonfante, che vi presentiamo in questa nuova edizione, fu la prima traduzione italiana, pubblicata già nel 1903. Il grande professore di diritto romano guardò alle traduzioni in tedesco e in inglese degli assiriologi Hugo Winckler (1902) e C. H. W. Johns (1903), tagliando prologo ed epilogo (valutati come “poetici”) e affermando di essersi attenuto alla più stretta letteralità nella scelta delle parole.
Nella sua introduzione traspare tutto l’eccitamento per la scoperta di un testo così antico da poter essere allora collocato temporalmente solo tramite i riferimenti biblici (Hammurabi sarebbe quell’Amrafel re di Sennaar citato nel capitolo 14 della Genesi). E ne seguì un dibattito – tutt’ora non terminato – sul rapporto fra legge mosaica e Codice di Hammurabi.
Questo eccitamento è quello che abbiamo voluto trasmettere ai lettori odierni riproponendo (quasi) alla lettera la sua traduzione, con anche le sue mancanze e i suoi difetti. Il testo delle norme presenta diverse lacune e comunque Bonfante non era un assirologo. Lo vediamo già nel primo articolo dove si barcamena con la traduzione del termine “lanciare un nertu”. Johns lo tradusse con “incantesimo”, Winckler con “accusa”. Bonfante accolse la tesi di Johns. In realtà, ancora oggi non è sicuro cosa significhi nertu: di solito è tradotto con “omidicio” o “crimine punito con la pena capitale”, ma molti ritengono che significhi “incantesimo mortale”.
Ci piace concludere con un aneddoto riportato da alcuni articoli accademici, ma senza fonte. Si vorrebbe infatti che Saddam Hussein avesse fatto erigere una statua monumentale di Hammurabi di fronte al parlamento di Bagdhad come monito per i deputati ad approvare leggi giuste. Che poi, immaginiamo, erano le leggi che voleva Saddam.
Che fine abbia fatto questa statua o se sia mai esistita non siamo riusciti a verificarlo, in compenso nel 2021 il Consiglio Giudiziario Supremo ha ordinato, per sé stesso, “avendo ben presente l’attuale crisi finanziaria”, la costruzione di una nuova sede che riprendesse la forma della stele di Hammurabi, come simbolo riconoscibile della giustizia irachena. Al momento non ci risulta sia stato presentato alcun progetto del design.
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