Il 9 agosto 1883, esattamente 140 anni fa, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino si riunì per deliberare sulla ammissione di una giovane donna che aveva appena superato l’esame pratico-teorico: Lidia Poët. Durante la discussione i consiglieri si divisero tra favorevoli e contrari, illustrando ciascuno le proprie ragioni. Con votazione a maggioranza, fu ammessa la prima avvocata del Regno d’Italia.
Abbiamo potuto stringere tra le mani e leggere nella fitta ed elegante calligrafia del tempo il verbale di quella seduta, che abbiamo ripubblicato nella appendice documentale al nostro libro Lidia Poët. La prima avvocata.
Ve lo trascriviamo qui di seguito per celebrare questa importante ricorrenza.
In seguito a regolare convocazione sono intervenuti i signori: Vegezzi (Presidente), Giordana, Spantigati, Chiaves, Villa, Isnardi, Bruno, Re, Massa, Curioni, Pasquali (consiglieri) e Raynieri (Segretario).
Il signor Presidente, dichiarata aperta l’adunanza, dà lettura dell’ordine del giorno, e prima di tutto invita i consiglieri a deliberare sulla domanda inoltrata dalla signorina Poët Lidia per la sua iscrizione nell’Albo degli Avvocati di questo Collegio, riferendo – ad un tempo – come dessa avendo conseguito la laurea in Giurisprudenza venne iscritta nel registro dei praticanti e sostenne con esito favorevole l’esame teorico-pratico cui fu ammessa con deliberazione delli 7 maggio scorso, constando pure dai presentati documenti, aver essa atteso alla pratica per un biennio compiuto, frequentando le udienze prescritte, ed essere incensurata.
Il Consigliere Chiaves, chiesta ed avuta la parola, accennando in quale considerazione attualmente è tenuta l’avvocatura e premettendo doversi il suo esercizio considerare come funzione pubblica, osserva non essere ammessibile né nell’ordine sociale né pei principii che ci governano che una donna indossi la toga la cui importanza scemerebbe, e affatto ridicolo sarebbe l’esercizio della professione stessa; aggiunge che la legge 8 giugno 1874 non ebbe a contemplare la donna e che non volesse contemplarla lo dimostra il fatto di leggi posteriori le quali perché la medesima potesse servire da testimonio sanciva disposizioni speciali. A lui basta d’altronde questa semplice ragionamento. È ammessibile che una donna, qualora maritata possa adire le aule dei Tribunali e delle Corti, e se nubili è ciò conveniente e decoroso? Può ammettersi che iscritta nell’Albo la faccia prima da p.m. nelle preture rurali, e richiedendolo, venga nominata nella magistratura giudicante? Assurdo ciò essendo, pargli non possa il Consiglio ammettere la donna all’esercizio della professione di avvocato.
A sua volta parla il Consigliere Spantigati, che conviene nelle osservazioni del Consigliere Chiaves ed aggiunge al riguardo che
nessuna legge ha mai pensato di distogliere la donna da quelle ordinarie occupazioni domestiche che loro sono proprie
inquantoché se esse godono ora una maggiore libertà di quella loro concessa dalle leggi romane non si può, né si penò mai di metterle in una maggior evidenza della naturale, per quanto studio ed intelligenza possano avere. Egli quindi è anche contrario alla iscrizione della richiedente nell’Albo.
Il consigliere Isnardi si dichiara della stessa opinione. A questi obietta il Presidente e successivamente i Consiglieri Giordana, Villa, Bruno e Pasquali, hanno contrapposto i seguenti riflessi.
Che a norma delle leggi civili italiane le donne sono cittadini come gli uomini, godono di tutti i diritti civili meno in quella sfera in cui loro qualche diritto è negato o colla speciale esclusione loro o colla nominativa esigenza della qualità di maschio (cod. civ. 1, 7, 9, 10, 14); e quindi è assolutamente antiquata né più di possibile coesistenza col sentire la legge 2 de Reg. juris che negava alla donna lo esercizio dei diritti civili.
Che in più precisa e manifesta è la tendenza delle leggi attuali di pareggiare per quanto possibile la condizione civile delle donne a quelle degli uomini, come emerge dalle leggi successivamente emanate.
Così il codice civile diede alla donna la patria potestà (art. 46, 220, 231). Così la legge sullo ordinamento della pubblica istruzione del 23 novembre 1859 all’art. 373 sancì che le disposizioni della istruzione elementare maschile si applicheranno egualmente all’istruzione elementare femminile, salvo le eccezioni di cui in regolamenti.
Così col Regol. sancito col R. Decreto 8 ottobre 1876 all’art. 8 si stabilì che le donne possono farsi inserire nei registri degli studenti e degli uditori presentando i documenti richiesti o titoli equivalenti.
Così colla legge 9 dicembre 1877 furono abrogate tutte le disposizioni che escludevano le donne dallo intervenire come testimoni negli atti pubblici e privati.
Che a fronte di queste considerazioni la maggioranza del Consiglio non può fare a meno di ravvisare legalmente impossibile il negare alla Lidia Poët la domanda di ammissione nell’Albo quando si presenta munita di tutti i requisiti che richiede l’art. 8 della legge 8 giugno 1874.
Ella non dimanda un pubblico ufficio ma la sua inserzione nell’Albo degli esercenti una professione quale la legge stessa la dichiara. Non havvi nella legge medesima né disposizione che la escluda né altra che richieda nello inserimento la qualità di maschio.
La sua ammessione nel registro degli studenti presso l’Università le diede diritto di conseguire, ed ella conseguì, diploma di laurea in giurisprudenza (art. 126 legge 23 novembre 1859).
E questa consecuzione dava a lei successivamente il diritto di essere ammessa allo esercizio di quella professione che era una conseguenza propria della laurea conseguita compiendo bene inteso le altre condizioni che la legge richiede e che furono compiute.
Né il Consiglio potrebbe arrogarsi la facoltà di introdurre una distinzione tra diploma di laurea e diploma riconoscendo nel solo diploma conseguito dal maschio la conseguenza di poter essere inscritto nell’Albo degli Avvocati, e non in quello conseguito dalla donna quando sono pari i diplomi.
Che cotesta facoltà che il Consiglio non ha dalla legge, non può derivarla da riflessi e convenienza.
È vero o vuolsi parlare della convenienza dell’onoranza dell’Ordine degli Avvocati e quando una donna può stare nel novero dei laureati in scienze fisiche, in matematiche, quasi non si può comprendere come l’ordine degli avvocati possa dirsi offeso perché nell’Albo si inseriva una donna, e sarebbe poi veramente singolare che l’avente diploma di scienze fisiche potesse attendere all’esercizio dell’arte sanitaria, l’avente diploma in matematiche potesse attendere ad ingegneria e l’avente diploma in giurisprudenza non potesse attendere all’Avvocatura, o parlasi della convenienza della donna medesima di esercire un diritto che ha dalla legge, e su cui è giudice essa sola. Stanteché poi colei che domanda la iscrizione è una donna nubile è facilmente evidente, indipendentemente da ogni altro riflesso che non si può nemmeno parlare dell’art. 1743 del codice che vieta alla moglie di accettare mandati senza l’autorizzazione del marito fosse poi pure un mandato lo esercizio della professione di Avvocato, richiedesse pure il consenso del marito, da cui non si potrebbe trarre la conseguenza mai che si possa negare alla nubile la inscrizione, la pretesa questione nascerà allora solo che sia cangiata la sua condizione e che il futuro marito neghi quella autorizzazione che si suppone necessaria
Se non che havvi di più ancora a termini degli art. 76 e 84 della legge suddetta sullo ordinamento della pubblica istruzione la Lidia Poët che riporta diploma di laurea potrebbe aspirare a concorrere alla carica di Dottore Aggregato. E quando ciò accadesse, dopo trascorsi anni dall’aggregazione, essa a termini dell’art. 9 della legge 8 giugno 1874 avrebbe senz’altro diritto di essere iscritta nell’Albo. Quindi per poter negare la inscrizione attualmente sarebbe necessario che il Consiglio avesse la facoltà di decidere che una donna non può essere Dottore Aggregato, a che se pure quella carica insigne non va compresa nell’art. 9 della legge sull’esercizio della professione di avvocato. Né la maggioranza del Consiglio può ravvisare che sia in lui tanta facoltà; il suo compito è determinato dalla legge, in essa è detto ciò ch’ei debba e può esigere, e quando cotali esigenze sono appagate l’ordinare la inscrizione è suo dovere.
Né da questo dovere lo può sollevare il riflesso che quando emanò la legge 8 giugno 1874, le donne non erano ammesse alle Università e non potessero adempiere al §2 dell’art. 8 della legge medesima che esige il diploma di laurea, perché ciò stesso dimostra che non erano escluse come donne, ma erano incapaci di essere inscritte per la mancanza di una qualità che oggi esiste in chi profitta del regol. del 1876, per cui rimane tolto ogni ostacolo.
Esaurita la discussione, il Presidente invita i Consiglieri a votare l’ammissione o il rigetto per appello nominale che, accettato, ebbe il seguente risultato.
Votarono per il sì: Bruno, Giordana, Massa, Pasquali, Rayneri, Re, Vegezzi, Villa
Votarono per il no: Chiaves, Curioni, Isnardi, Spantigati
Dopo di che si è emesso il seguente decreto.
Attesoché risulta dalla laurea in Giurisprudenza conseguita dalla signorina Poët Lidia fu Giovanni Pietro, nata a Traverse-Perrero, residente a Pinerolo in questa Regia Università li 17 giugno 1881; della pratica forense oltre il biennio e dell’esito favorevole dell’esame teorico pratico sostenuto nei giorni 14 e 16 maggio 1883. Visto il certificato di penalità negativo. Ammette l’iscrizione nell’Albo degli Avvocati di questo Collegio della signorina Lidia Poët predetta con l’anzianità dal giorno di oggi, con che la medesima si uniformi al disposto degli art. 3 e 4 del Reg. Dec. 26 luglio 1874 n. 2012.
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Tutta la storia di Lidia Poët, la sua tesi di laurea e gli atti e le sentenze dei giudizi nel nostro libro Lidia Poët. La prima avvocata, edito da Le Lucerne.