La vita
Di origini modeste, Enrico Ferri nacque il 25 febbraio 1856 a San Benedetto Po. Frequentò il liceo Virgilio di Mantova, dove seguì le lezioni del filosofo positivista Roberto Ardigò. Si laureò in giurisprudenza a Bologna nel 1877 discutendo la tesi La teorica dell’imputabilità e la negazione del libero arbitrio (pubblicata l’anno successivo). Completò la sua formazione frequentando le lezioni di Francesco Carrara a Pisa, e l’Università della Sorbona a Parigi. Seguì le lezioni di medicina legale di Cesare Lombroso, e nel 1881 entrò a far parte della redazione della rivista da questi fondata, «Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale per servire allo studio dell’uomo alienato e delinquente».
Ottenuta la libera docenza a Torino nel 1880, Ferri venne indicato dal suo relatore Pietro Ellero, nominato consigliere di Cassazione, per la cattedra di diritto penale a Bologna. Con la prolusione bolognese del 6 dicembre 1880 (I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale), pose le premesse per la creazione della scuola positiva, poi annunciata formalmente dalla cattedra senese il 18 novembre 1882. Venne quindi chiamato a Pisa per succedere alla cattedra di Carrara; fu libero docente di diritto penale e poi ordinario all’Università di Roma, dove nel 1912 fondò la Scuola di applicazione giuridico-criminale. Dal 1895 al 1905 tenne anche corsi all’Université Nouvelle di Bruxelles e a Parigi.
Nella veste di avvocato, Ferri partecipò a numerosi processi celebri, tra cui quello di Tullio Murri nel 1905 e quello di Violet Gibson (l’attentatrice di Benito Mussolini) nel 1927, fino all’ultima arringa, nel processo a Vincenzo Saponaro del 1928. Con la difesa, nel 1886, dei contadini mantovani nel processo per il moto noto come La Boje, Ferri si guadagnò la fama di ‘socialista’. Venne eletto deputato, ma aderì ufficialmente al Partito socialista italiano solo nel 1893.
Come uomo politico, Ferri si caratterizzò per capovolgimenti di posizione mirabolanti, fino a cadere nella lusinga fascista. In effetti, egli rifiutò lo strumento della lotta di classe, auspicando un’evoluzione che non forzasse gli assetti politici e sociali, in un’ottica di graduale progresso dell’umanità. Inoltre, subordinò le strategie politiche alla propaganda del metodo positivista, allo scopo di concretizzare le riforme che rispondessero alla sua idea di giustizia sociale. Anche la creazione nel 1891 della rivista «La scuola positiva nella giurisprudenza pernale» (che cambiò più volte nome) fu da lui sostenuta ai fini della propaganda del metodo.
Nel 1919 il guardasigilli Lodovico Mortara nominò Ferri presidente della commissione per la riforma del codice Zanardelli. Nominato senatore il 2 marzo 1929, Ferri morì a Roma il 12 aprile dello stesso anno, prima dell’investitura.
La nuova scuola e la propaganda del metodo sperimentale
Dopo la promulgazione del codice penale Zanardelli, Ferri concentrò gli sforzi sulla propaganda dei principi positivisti tra i pratici del diritto e, come detto, appoggiò l’iniziativa di Giulio Fioretti di dar vita alla rivista «La scuola positiva», avendo compreso quanto valesse «più un’oncia di pratica che un quintale di teoria, per vedere sperimentalmente che cos’è la vita del diritto» (E. Ferri, La psicologia nel processo degli studenti bolognesi, «La scuola positiva», 1891, I, p. 22).
Dopo la pausa per la stesura di Sociologia criminale (1892), terza edizione della sua opera fondamentale, I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale (1881), nel 1893 Ferri tornò a impegnarsi nella rivista, della quale sarà unico responsabile dal 1895, facendone un organo di propaganda del suo metodo sperimentale in ambito penale.
Oltre alla rivista, Ferri elesse la cattedra a luogo ideale per la propaganda del positivismo giuridico. Tuttavia, la sua carriera accademica non fu priva di ostacoli, a cominciare dalla libera docenza a Torino, voluta e difesa da Ruggero Bonghi contro Terenzio Mamiani. Ferri sopperì a tali ostacoli con il proprio talento oratorio e con la tribuna offerta dai processi celebri per diffondere le teorie della scuola.
La difesa dei contadini mantovani, nel 1886, fu determinante per l’ingresso di Ferri nella vita politica attiva. Nel discorso per la candidatura elettorale, egli sostenne l’ideale «della concordia fra tutte le classi sociali», al fine di realizzare la «vera democrazia, che è la fratellanza umana».
Fin dalla difesa dei contadini mantovani, Ferri «indicò la strada della cooperazione, come naturale evoluzione dei movimenti di resistenza», e in più occasioni sostenne e promosse l’iniziativa della società civile, soprattutto nella forma della cooperazione, intesa anche come strumento di pacificazione sociale, perché
i lavoratori sono come le api; tranquilli e fecondi di bene quando hanno da lavorare, irrequieti e forse anche pericolosi quando sono condannati ad un ozio forzato (Le società cooperative di lavoratori e le opere pubbliche, 1887, p. 31).
L’applicazione delle teorie: il problema del giurista-interprete
Nel 1898, arrestato Leonida Bissolati, Ferri assunse al suo posto la direzione dell’«Avanti!», che tenne poi dal 1903 al 1908, anno in cui lasciò l’incarico per tenere un ciclo di conferenze in America latina. Il 1908 segnò anche l’anno del suo declino nel Partito socialista, ma non nel panorama giuridico. Nel 1912 egli diede vita alla Scuola di applicazione giuridico-criminale, nell’intento di dare concretezza all’idea originaria dei positivisti della necessaria «contaminazione socio-antropologica», e della necessità di occuparsi delle riforme giudiziarie e carcerarie.
L’occasione per dimostrare le applicazioni giuridiche della dottrina positivista venne nel 1919, quando, come detto, il guardasigilli Mortara nominò Ferri presidente della commissione per la riforma del codice Zanardelli. Nel 1921 Ferri presentò con una sua relazione il progetto di codice penale italiano che, tradotto in diverse lingue, influenzò la scienza e la legislazione in Europa e in America.
Enrico De Nicola, membro della commissione con Ferri, ricordò le polemiche «acri, astiose, stizzose» che avevano accompagnato e talvolta sostituito «validi argomenti e buone ragioni» delle scuole penali, tanto che chi avesse «creduto possibile una collaborazione […] avrebbe corso rischio di essere lapidato dagli uni e dagli altri» (in Scritti in onore di Enrico Ferri, 1929, p. 134).
Questa rappresentazione bellicosa, di lotta tra ῾scuole᾿, si accorda con l’effettivo contesto di scontro, alimentato anche dagli stili linguistici propri dell’epoca. Ma i due schieramenti presentarono omologie di fondo, anche perché il nuovo indirizzo positivo, per la «capacità di interpretare i tempi […] per la visione integrata della scienza penale» di cui fu portatore, rappresentò «un’espressione storicamente aggiornata della penalistica civile italiana (ed europea)» (Sbriccoli 2009, p. 551). Ovvero quella tradizione che aveva «fatto della cattedra e del foro due luoghi cruciali della funzione complessiva del riformismo penale, considerandoli momenti privilegiati del rapporto tra scienza e società (pp. 569-70).
Al di là di una visione miope del dibattito di allora, sbilanciata su problematiche interne legate alla codificazione unitaria, le questioni avevano un respiro europeo e riguardavano il fondamento stesso dell’ordine giuridico liberal-borghese: la dimensione individualistica, la centralità del legislatore, l’esclusività della fonte legislativa, il ruolo della scienza giuridica e dei giudici-interpreti.
Ferri volle chiudere la sua «vita scientifica, dimostrando le applicazioni giuridiche di quelle dottrine originalmente e schiettamente italiane» (Principii di diritto criminale, cit., p. IX), e affrontò anche la questione dell’arbitrio del giudice, che non ritenne ammissibile
perché le norme di procedura stanno a suprema garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino che […] anche come delinquente ed anche come condannato, conserva pur sempre i fondamentali, intangibili diritti di persona umana (Principii di diritto criminale, cit., p. 654).
Il giudice, per Ferri, non dovrà oltrepassare i limiti della legge, ma entro i limiti legali non sarà «possibile togliere al giudice una certa larghezza di poteri, poiché altrimenti egli si ridurrebbe ad un contatore meccanico di dosimetria penale» (p. 654). Ferri auspicò giudici capaci di valutare socialmente e giuridicamente la pericolosità del delinquente e, per arginare i rischi dell’arbitrio, non confidò più sul sistema delle pene fisse e del giudice ῾automa᾿, ma in una serie di provvedimenti, tra cui anche la responsabilità dei giudici specializzati nelle discipline criminologiche.
Negli anni a cavallo tra Otto e Novecento Ferri si schierò contro i decreti liberticidi del generale Luigi Pelloux (presidente del Consiglio dal 1898 al 1900), e si dichiarò sollevato nel constatare che
gli eccessi di leggi e tribunali eccezionali per la difesa di classe sotto la parvenza della difesa sociale, si verificarono […] senza la complicità od influenza [delle dottrine positiviste] (Difesa sociale e difesa di classe nella giustizia penale, 1899, p. 589).
Al termine della carriera giuridico-politica, Ferri comunque credette, pur non dichiarandosi fascista, di vedere in Mussolini la possibilità di attuare le riforme positiviste e di contrastare il conflitto di classe, che in quegli anni prendeva anche forme acute, come nel caso dell’uccisione di Costantino Scimula e Mario Sonzini.