La vita
Cesare Lombroso (il cui vero nome era Ezechia Marco) nacque a Verona il 6 novembre del 1835 da Aronne e Zefora Levi, appartenenti entrambi ad agiate famiglie ebraiche.
Nell’anno accademico 1852-1853, si iscrisse alla facoltà di Medicina dell’Università di Pavia. Proseguì i suoi corsi nelle Università di Padova e Vienna, per fare ritorno definitivamente a Pavia, dove si laureò in medicina il 13 marzo del 1858, presentando una dissertazione sul cretinismo in Lombardia.
Rientrato a Verona, allo scoppio della Seconda guerra di indipendenza si arruolò volontario, nel maggio del 1859, nel Corpo sanitario dell’armata sardo-piemontese. Dimessosi dall’esercito nel 1865, venne richiamato in servizio in occasione della Terza guerra di indipendenza nel giugno dell’anno successivo. Nel novembre del 1866 fu definitivamente congedato.
Durante gli anni della sua permanenza nell’esercito Lombroso, a partire dal 1863, aveva tenuto corsi, a diverso titolo, all’Università di Pavia, ma solo nel 1867 venne incaricato ufficialmente dal Ministero di assumervi l’insegnamento di clinica delle malattie mentali in qualità di professore straordinario.
Dopo complesse vicissitudini concorsuali, nel 1876 fu nominato ordinario di medicina legale all’Università di Torino. In questo stesso ateneo divenne, successivamente, professore di psichiatria nel 1896 e di antropologia criminale nel 1905.
L’incarico di medico delle carceri, assunto nel 1886, offrì a Lombroso un osservatorio privilegiato nella casa dei reclusi del capoluogo piemontese, attraverso il quale osservare dal vivo quel materiale umano che, dalla pubblicazione della prima edizione dell’Uomo delinquente (1876) avvenuta dieci anni prima, si era affermato come uno dei suoi principali oggetti di studio.
Dal sodalizio con Raffaele Garofalo (all’epoca giovane magistrato napoletano) nacque, nel 1880, la rivista «Archivio di psichiatria», uno dei periodici scientifici italiani più conosciuti, anche oltre i confini nazionali. Lombroso rimase direttore della rivista sino al 1909, ossia sino all’anno della sua morte.
Nel 1893 si iscrisse al Partito socialista italiano, nelle cui liste venne eletto consigliere comunale a Torino in occasione delle consultazioni amministrative del 1902.
Lombroso morì a Torino nella notte tra il 18 e il 19 ottobre del 1909. A suo tempo pubblicammo il suo elogio funebre.
L’uomo delinquente e la nascita dell’antropologia criminale
L’aneddotica messa in circolazione dallo stesso Lombroso, fa risalire la nascita dell’antropologia criminale, come si rileva dal passo appena citato, all’esecuzione di un’autopsia effettuata nel 1870 su di un presunto brigante calabrese di nome Giuseppe Villella. La vicenda, narrata a più riprese dallo stesso psichiatra veronese in forma contraddittoria, ha tutti i caratteri della leggenda. Ciò non toglie che essa sia servita a sintetizzare un passaggio fondamentale della ricerca lombrosiana: l’esistenza di una fossetta occipitale interna, tipica di alcune scimmie inferiori e dei lemuridi, e presente nel cranio di Villella, era una testimonianza del fatto che i delinquenti rappresentavano una ricomparsa dell’ancestrale, del primitivo nel mondo moderno. Una sorta di varietà antropologica con tratti fisici differenziati rispetto all’uomo normale.
L’idea della ‘reversione atavica’ come causa del comportamento criminale venne messa a frutto da Lombroso sin dalla prima edizione del suo più celebre lavoro, L’uomo delinquente studiato in rapporto alla antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie.
Se si confrontano tra loro le cinque edizioni dell’Uomo delinquente risulta evidente come la teoria di Lombroso abbia subito cambiamenti di sostanza nel corso della sua carriera scientifica. Da un piccolo volume di appena duecentocinquanta pagine, nella prima edizione, si passò, nella quinta e ultima (1896-1897), a un’opera in tre tomi, corredata da un volume iconografico intitolato Atlante.
Già nella seconda edizione (1878) del lavoro si avverte un cambiamento, se non del piano dell’opera, sicuramente delle intenzioni dell’autore che intende ora rivolgersi, in via principale, a un pubblico di formazione giuridica. Ma è nella terza (1884) e nella quarta edizione (1889) che Lombroso, seguendo una tendenza sempre più marcata a psicologizzare la devianza, individuò due nuove categorie di delinquenti nati: il «pazzo morale» e l’«epilettico». Introdotta nella terza edizione dell’Uomo delinquente, la nozione di pazzia morale (già ampiamente utilizzata in ambito psichiatrico) indicava degli individui che, provvisti di un fisico e di una intelligenza normali, erano incapaci di distinguere le buone azioni da quelle cattive. La nozione di epilessia, invece, trovò spazio nella quarta edizione dell’opera. Seguendo la convinzione del tempo in base alla quale gli epilettici potevano commettere dei reati durante un accesso convulsivo, Lombroso elaborò la nozione di «epilessia larvata», la quale poteva indurre comportamenti devianti anche in assenza di traumi fisici.
Su suggerimento di alcuni aderenti alla sua scuola e sulla scorta di critiche sempre più pressanti che provenivano da ambienti ostili all’idea del ‘criminale nato’, Lombroso diede, nelle edizioni dell’opera successive alla prima, uno spazio crescente all’approfondimento delle cause sociali della criminalità e ampliò la casistica dei tipi criminali, sino a comprendervi, inserendoli in una catalogazione non sempre coerente, i delinquenti occasionali e quelli per passione. Così come uno spazio crescente fu dato al tema della ‘terapia del delitto’ (cioè le misure sociali da adottare per prevenire il crimine) e a quello della pena.
Il pensiero lombrosiano tra consensi e opposizioni
Le teorie penalistico-criminologiche di Lombroso suscitarono consensi entusiastici e aperte opposizioni. A cavallo degli anni Settanta e Ottanta si raccolse attorno a lui una nutrita schiera di giovani giuristi (tra i quali spiccano Ferri e Garofalo) che seppe tradurre le proposte lombrosiane in un compiuto programma di riforma del diritto penale, dando vita a quella che prese il nome di scuola positiva di diritto penale. Attraverso una fitta produzione scientifica questi autori si incaricarono di delineare le linee essenziali di un diritto penale nel quale la nozione di pericolosità sociale fosse in grado di sostituire quella di responsabilità morale, e l’azione di prevenzione del crimine quella retributiva della pena.
A queste aperte adesioni fece però da contrappunto una altrettanto vivace resistenza, sul piano sia nazionale sia internazionale.
I devianti
Un tratto di originalità presente nel lavoro di ricerca di Lombroso fu quello di indagare non solo la figura del delinquente, ma anche tutte quelle forme della patologia sociale che oggi verrebbero definite ‘della devianza’. Ciò permise allo psichiatra veronese di intervenire sui problemi e sulle prospettive connesse allo sviluppo della società italiana dell’epoca, divenendo in questo modo uno dei commentatori sociali più letto nell’Italia di fine secolo.
Le figure che popolano questa sorta di catalogo della devianza sono numerose. Al suo interno si muovono prostituite, geni, anarchici e profeti.
Il tema della prostituta trova spazio in un’opera scritta a quattro mani con Guglielmo Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale (1894). Per Lombroso (ma l’idea aveva non pochi sostenitori nella comunità scientifica), la donna apparteneva a un gradino inferiore, nella scala dell’evoluzione, rispetto a quello dell’uomo. Il fatto, in accordo con la sua teoria della tendenza criminale come frutto di un processo di reversione atavica, avrebbe dovuto spingere le donne verso il crimine con un’incidenza percentuale maggiore rispetto a quella degli uomini. La realtà, però, si incaricava di smentire in maniera clamorosa questa teoria. La soluzione al problema fu data, da Lombroso e Ferrero, con l’individuare nella prostituzione femminile l’equivalente del delitto maschile. In questo modo, aggiungendo i tassi di prostituzione a quelli di criminalità, si sarebbe potuta quantificare l’entità reale della devianza femminile.
Anche il genio fu studiato da Lombroso come espressione di un’anormalità, intesa però in questo caso in senso positivo. In uno scritto del 1855, intitolato Su la pazzia di Cardano, Lombroso si avvicinava per la prima volta alla connessione esistente tra anormalità psichica e personalità geniale. La questione troverà un imponente sviluppo in una serie di pubblicazioni che, partendo dalla stampa della prelezione del 1864 tenuta all’Università di Pavia, intitolata Genio e follia, si concluderà, attraverso successive edizioni, nell’opera monumentale L’uomo di genio in rapporto alla psichiatria, alla storia ed all’estetica, del 1894. Un testo, questo, in cui il tema della follia e della genialità tenderanno a convergere con quello della devianza e della criminalità, quasi che gli estremi si dovessero, in un certo senso, toccare e confondere.
Accanto all’uomo di genio Lombroso collocava il «mattoide», considerato come un anello di congiunzione tra il genio, il criminale e il folle. Il mattoide, per lo psichiatra veronese, era un individuo che aveva le sembianze di un genio, ma nella sostanza si trattava di un uomo comune. Dotato di senso pratico e di affetti normali, evidenziava la sua anormalità nella fase ideativa. Il mattoide, che mostrava di avere senso morale (fatto che lo distingueva dal criminale), non poteva essere considerato neanche un folle, perché in lui non si manifestava alcuna forma di delirio. Tra i mattoidi Lombroso inseriva Davide Lazzaretti, il profeta del monte Amiata, ucciso dai carabinieri nell’agosto del 1878 perché ritenuto a capo di una rivolta, e Giovanni Passanante autore di un attentato a Umberto I di Savoia, sempre nel 1878.
Anche il delitto politico venne affrontato da Lombroso nei termini di una sorta di devianza positiva (C. Lombroso, R. Laschi, Il delitto politico e le rivoluzioni in rapporto al diritto, al’antropologia criminale ed alla scienza di governo, 1890). Una devianza cioè capace di far progredire la storia, urtando contro l’atteggiamento misoneista (il termine coniato da Lombroso stava a significare un atteggiamento di ripulsa nei confronti delle novità) tipico delle persone normali. Questa operazione veniva compiuta da Lombroso sulla base di una netta distinzione tra rivoluzioni e rivolte. Mentre le prime, infatti, avevano una loro giustificazione in quanto rappresentavano la rottura con una struttura sociale conservativa ormai storicamente inadeguata (e coloro che le capeggiavano non potevano essere considerati criminali), le seconde non erano che il segno di ribellismo e criminalità. Qualche problema Lombroso lo incontrò con gli anarchici, inseriti in un primo momento nel novero dei criminali nati e poi in parte riabilitati e considerati come delinquenti mossi da un eccesso di passione politica.