La vita
Lodovico Mortara nasce a Mantova il 16 aprile 1855 da Sara Castelfranco e Marco Mortara. Il padre, Marco (Mordekai), uomo di vasta e profonda cultura, era il rabbino maggiore della Comunità israelitica di Mantova, motivo per cui Mortara fu spesso denominato «il figlio del rabbino». Dopo la laurea in giurisprudenza, conseguita nell’Università di Modena il 4 luglio 1874, inizia a esercitare la professione di avvocato. Libero docente in procedura civile a Bologna nel 1882, vince la cattedra da professore straordinario nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa nel 1886 e vi diventa ordinario nel 1888.
Come giurista si segnala per una vivace produzione scientifica già a partire dal 1879; nel 1884 pubblica la sua prima monografia (Dell’esercizio delle azioni commerciali e della loro durata) e nel 1885 il volume Lo Stato moderno e la giustizia; nel 1890 esce nel Digesto italiano la corposa voce Appello civile. La docenza universitaria lo porta anche a scrivere saggi destinati alla didattica, che conosceranno numerose riedizioni e che costituiscono in realtà occasioni per un’innovativa riflessione d’insieme sulla materia del processo civile e dell’ordinamento giudiziario: negli anni 1887-1888 escono i due volumi del suo Manuale di procedura civile e nel 1890 i Principii di procedura civile e le Istituzioni di ordinamento giudiziario.
Nel 1892 assume, insieme a Carlo Francesco Gabba (1835-1920), la direzione della rivista «Giurisprudenza italiana», funzione che avrebbe continuato a esercitare nei quarantacinque anni successivi. Nel 1898 si trasferisce nella facoltà di Giurisprudenza di Napoli per ricoprire la cattedra di procedura civile e ordinamento giudiziario; è anche l’anno in cui inizia, per proseguire fino al 1909, la pubblicazione in fascicoli del Commentario del codice e delle leggi di procedura civile; l’opera, in cinque tomi, verrà riedita più volte.
Nel 1902 Mortara, all’apice della sua carriera accademica, con una decisione sorprendente, lascia l’università per diventare magistrato. Sarà procuratore generale nella Corte di appello di Cagliari nel 1905, primo presidente nella Corte d’appello di Ancona nel 1906, procuratore generale della Corte di cassazione di Palermo nel 1909 e poi della Corte di cassazione di Firenze e di quella di Roma nel 1911. Diverrà primo presidente della Corte di cassazione di Roma nel 1915. Non sarà però il primo presidente della nuova Cassazione unica nel 1923; sgradito al regime fascista verrà collocato a riposo anticipatamente.
Lodovico Mortara ha svolto inoltre compiti politici di alto livello; fra altri incarichi, nel 1907 è capo di gabinetto del ministro di Grazia e Giustizia Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), diviene senatore del Regno nel 1910 e sarà, a sua volta, ministro guardasigilli tra il 23 giugno 1919 e il 23 maggio 1920. Lo troviamo coinvolto nelle principali riforme realizzate e tentate nel primo Novecento in materia di processo civile, ordinamento giudiziario e procedura penale: si pensi alla riforma del processo sommario del 1901, alla legge sul giudice unico del 1912, al codice di procedura penale del 1913, alla legge sul procedimento ingiuntivo del 1922, solo per fare qualche esempio.
Dopo l’uscita anticipata dalla magistratura torna a svolgere l’attività di avvocato fino alla morte, che lo coglie a Roma il 1° gennaio 1937.
Un fondamento costituzionale per «nuove vedute nel campo del diritto processuale»
La vicenda biografica di Mortara, ricca di «fuori programma», è la vicenda di un uomo che è stato insieme studioso, accademico, magistrato e politico. Il passaggio più significativo per una ricostruzione del suo profilo intellettuale è probabilmente rappresentato dall’abbandono dell’università per la magistratura.
Questo in parte può spiegarsi con l’importanza che il nostro autore riconosce alla giurisprudenza e alla prassi giuridica; è un profilo che emerge anche nel Mortara direttore della «Giurisprudenza italiana», così attento a riflettere sulle principali e significative sentenze oltre che nel Mortara legislatore, il quale dalla prassi ricava indicazioni circa le riforme da prendere e del Mortara scienziato, che nella giurisprudenza vede un momento costitutivo del diritto.
Come è stato però osservato parte non secondaria, per una decisione così radicale, devono averla avuta i contrasti accademici con l’emergente scuola dei pandettisti che faceva capo a Vittorio Scialoja. Si tratta di una tendenza che viene avvertita dal giurista mantovano come una risposta inadeguata, oltre che metodologicamente sbagliata, all’esigenza di rinnovamento («niente di veramente nuovo nell’intrinseco»; cfr. Pagine autobiografiche, cit., p. 59). A questa egli oppone un approccio solo apparentemente di minor impatto.
La via considerata da Mortara è per molti aspetti più originale, in quanto mette in questione gli assetti costituzionali dello Stato e i regimi della legalità, più di quanto non faranno i ‘germanisti’ di Giuseppe Chiovenda. Si tratta di un pensiero certamente innovativo anche se svolto dentro l’orizzonte ideologico liberale. Mortara, di fronte ai segni della crisi, cerca di fornire soluzioni per lo «Stato democratico» (Lo Stato moderno e la giustizia, 1885, 1892, p. 32). Piuttosto che affidarsi a un’ermeneutica implementativa dell’ordine giuridico esistente, egli ritiene di poterlo soccorrere favorendo cambiamenti; e ciò soprattutto perché l’ordine esistente, a suo avviso, costituisce una forma ancora storicamente imperfetta, che aspetta di compiersi proprio sul terreno della forma giuridica da dare alla giustizia. La sua concezione dell’ordinamento giuridico e della sovranità dello Stato, inoltre, prende ispirazione da una considerazione delle ricadute (e delle premesse) sociali del diritto e delle sue espressioni storiche reali.
Per quanto l’oggetto largamente prevalente dei suoi studi sia la procedura civile e l’ordinamento giudiziario, il pensiero di Mortara si svolge su un orizzonte teorico più ampio. Per esempio, lo vediamo impegnato, nella stagione preparatoria del nuovo codice di procedura penale e vicino alle tesi della scuola positiva, sul terreno processual-penalistico.
È però lo studio del diritto costituzionale ad apparire particolarmente. Esso, infatti, in Mortara funge da base per ottenere «nuove vedute nel campo del diritto processuale».
La questione del dimensionamento giuridico della giustizia si pone, per Mortara, anzitutto al livello della forma dello Stato. In uno «Stato democratico», la giustizia costituisce la «missione fondamentale» dei diversi poteri dello Stato; ognuno di essi, l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario, ha «diritto di esercitarsi solo in quanto alla giustizia si conformi».
Proprio a tale livello, secondo Mortara, la vicenda di emancipazione dallo Stato dispotico e di affermazione dello «Stato libero» non si è ancora del tutto compiuta. Occorre in particolare passare da una concezione «meccanica» a una concezione «organica» della divisione dei poteri, in modo che si possano reciprocamente bilanciare impedendo che qualcuno di essi svolga «un predominio illimitato».
In particolare, si tratta di sciogliere la questione della rilevanza costituzionale della giurisdizione. Essa deve assumere le valenze di un potere dello Stato coinvolto a pieno titolo, con il legislativo e l’esecutivo, nell’esercizio della sovranità. La marginalità costituzionale del potere giudiziario dipende dal fatto che sul piano degli eventi lo ‘Stato libero’ ha iniziato ad affermarsi, tramite un’autonomizzazione della funzione legislativa dal corpo dei poteri indivisi tipici dello Stato assolutista; ma tale processo segna solo una tappa intermedia, «un armistizio fra l’antico ordine di cose […] e il moderno movimento»; occorre ora realizzare la «separazione organica del potere giudiziario dall’amministrativo» e riconoscere nel potere giudiziario «un vero e proprio organo diretto della sovranità». La funzione giurisdizionale costituendo «un necessario proseguimento della legislativa» assolve una fondamentale «funzione limitatrice della funzione legislativa. Infatti, essa segna il confine al di là del quale non può estendersi quella che suolsi chiamare la onnipotenza della legge».
È una scelta di campo importante perché si discosta dalla tradizione costituzionale monistica che concentra la sovranità nel potere legislativo, per aprirsi a un orizzonte concettuale di costituzione bilanciata.
Tale inquadramento costituzionale spinge Mortara a sostenere una trasformazione dell’ordinamento giudiziario nel senso di una piena autonomia (teorizza infatti già nella sua prima monografia, Lo Stato moderno e la giustizia, l’introduzione di un organismo ad hoc che la possa rendere effettiva). Ma ci sono ricadute importanti anche sul terreno specifico della giustizia civile e su quello sistematico, con riferimento alla funzione dell’interpretazione della legge e del diritto giurisprudenziale.
Nel complesso, sulla base delle originali impostazioni metodologiche a cui abbiamo accennato in queste pagine, la lunga traiettoria intellettuale di Mortara sembra essersi svolta con coerenza, nell’intento di fornire risposte adeguate e concrete alle questioni poste dal suo tempo. Esse, osservate oggi, ci appaiono per molti aspetti lungimiranti. Per questo un dialogo con le sue pagine risulta fecondo tanto allo storico del diritto, che intende comprendere l’esperienza giuridica di quei decenni, quanto al giurista odierno alle prese con problemi dalle radici profonde.