Anni ’60, USA: il movimento un po’ hippie un po’ New Age propugna una nuova visione del mondo e della vita, e si sperimentano stati di coscienza ulteriori grazie al supporto di acidi lisergici. Dalla Summer Of Love fino all’acme raggiunta a Woodstock nell’agosto del 1968, si sviluppa questo nuovo modo di intendere la realtà: aggiungendovi un quid pluris, costituito dalla droga.
In Italia, si sa, le cose arrivano sempre dopo. Tuttavia questa ondata, benché in ritardo rispetto ai paesi anglofoni, raggiunge nel Bel Paese livelli preoccupati dovuti a due fattori: da un lato, l’abbattimento dei prezzi delle sostanze stupefacenti; dall’altro, lo spaccio “industrializzato” organizzato dalla Malavita (vi ricordate Pizza Connection?). Risultato: una intera generazione – e non è enfasi a buon mercato – a rischio distruzione.
L’ondata arriva senza che le Istituzioni abbiano chiaro né sostanza né dimensioni del fenomeno. La diffusione della droga – e in particolar modo dell’eroina – diventò un grave problema sociale per l’Italia di quegli anni: aumentarono in maniera esponenziale tossicodipendenti che, spesso, vivevano per strada senza fissa dimora, in stato di degrado e abbandono. Senza contare che – per procurarsi il denaro per acquistare la droga – nella migliore delle ipotesi chiedevano l’elemosina. Nella peggiore, o si prostituivano o commettevano reati contro il patrimonio: una bomba sociale pronta a far saltare ogni barlume di Pubblica Sicurezza.
In questo contesto di disorientamento generale sale sul palcoscenico della Storia Vincenzo Muccioli. Un po’ santo un po’ santone, è lui il protagonista di “SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano”, docu-serie prodotta da Netflix su una vicenda le cui implicazioni sono prima sociali e poi giuridiche. Andiamo con ordine.
Nel 1978 Vincenzo Muccioli fonda a Coriano, in Provincia Rimini, “San Patrignano”: una comunità terapeutica tra le prime destinate esclusivamente al recupero di tossicodipendenti in Italia. Che è diventata, negli anni successivi, la più grande d’Europa.
I tossicodipendenti ospitati a San Patrignano svolgevano un percorso terapeutico che non prevedeva – anzi letteralmente escludeva – qualsiasi assunzione di psicofarmaci o di trattamenti farmacologici. Piuttosto, la “terapia” consisteva nello svolgimento di attività di reinserimento sociale: agricoltura, allevamento di animali, produzione di vino e formaggi e produzione di capi d’abbigliamento.
L’idea era rivoluzionaria: in un periodo in cui lo Stato “liquidava” il problema del tossicodipendente con la somministrazione controllata di metadone, soprassedendo sull’aspetto “sociale” del problema – recupero, reinserimento lavorativo, assistenza alle famiglie – Muccioli raccoglieva questi derelitti, li rifocillava, insegnava loro un mestiere, li affrancava dal bisogno della droga.
Sul concetto di “affrancare”, però, occorre tornarci su a breve. Perché? Perché Muccioli e i suoi collaboratori usavano metodi molto duri nei confronti dei tossicodipendenti renitenti (che spesso scappavano dalla Comunità). Per tale ragione furono sottoposti, negli anni ’80, a un processo penale con l’accusa di sequestro di persona e maltrattamenti.
Il procedimento fu avviato sulla base della denuncia di una ragazza che era scappata dalla comunità, la quale accusò Muccioli e i suoi collaboratori di averla riportata a San Patrignano contro la sua volontà e di averla rinchiusa per 16 giorni in una piccionaia “molto angusta e situata all’aperto tra gli alberi … dormendo per terra, e con una sola breve interruzione al decimo giorno per fare una doccia”, asserendo di essere stata liberata solo perché aveva finto di essersi pentita del suo comportamento “simulando ravvedimento”.
Dalle indagini emerse che anche altri ragazzi che avevano cercato di fuggire da San Patrignano erano stati segregati, incatenati per diversi giorni “in locali angusti della comunità, quali canili, piccionaie e conigliere” e maltrattati mediante percosse.
Iniziava, così, il “Processo delle Catene”.
Lo chiamarono in questa maniera perché lo strumento di contenzione utilizzato per evitare che gli ospiti della comunità fuggissero furono proprio delle catene. Che, tra le altre cose, fecero a un certo punto bella mostra di sé stesse dopo che furono ostese – come una Sindone – sui banchi del Tribunale.
La difesa di Muccioli adottò una linea bicipite: in primo luogo, dal momento dell’ingresso a San Patrignano, i ragazzi ospitati avevano accettato l’eventualità di essere segregati in caso di fuga, perché “all’atto di ammissione a S. Patrignano erano stati avvertiti espressamente che sarebbero stati trattenuti … con ogni mezzo”. In secondo luogo, la segregazione era necessaria per evitare che i tossicodipendenti scappassero dalla comunità e ricominciassero a drogarsi nuovamente mettendo a rischio la propria vita.
Per supportare questa tesi durante il processo, Muccioli spiegò al Tribunale di Rimini che la segregazione dei tossicodipendenti era equiparabile al comportamento irruento adottato da chi blocca taluno sul punto di gettarsi da un ponte, perché in quel caso “non è che puoi dirgli beh, dai, non farlo che magari puoi farti anche male”. In pratica, Muccioli affermava di essere ricorso alla segregazione e all’incatenamento dei ragazzi per “salvarli da un pericolo gravissimo (cioè il consumo della droga) come avrebbe fatto nei confronti di chiunque fosse stato in procinto di gettarsi da un ponte” sulla base dell’equazione “droga uguale morte”.
Nel processo di primo grado – con sentenza del 16 febbraio 1985 – Muccioli e i suoi collaboratori furono condannati dal Tribunale di Rimini per il reato di sequestro di persona e maltrattamenti, perché le condotte del fondatore della comunità e dei suoi collaboratori furono considerate illecite e non erano giustificabili (e, quindi, “scriminanti”) per il fatto di essere state accettate dagli ospiti della comunità al momento dell’ingresso a San Patrignano e per essere state adottate per “salvare [i ragazzi] da un pericolo non altrimenti evitabile”, cioè il rischio di morire a causa dell’assunzione della droga.
Tuttavia, nel secondo grado di giudizio la Corte d’Appello di Bologna – con sentenza del 28 novembre 1987 – assolse Vincenzo Muccioli e gli altri coimputati.
Secondo la Corte, nel momento in cui una persona entrava a far parte della Comunità di San Patrignano e si sottoponeva ai suoi programmi terapeutici, automaticamente accettava di essere privata della libertà personale per il tempo strettamente necessario a guarire dalla dipendenza dalla droga.
Nello specifico, i ragazzi di San Patrignano avevano accettato di essere privati della loro libertà personale e, nel caso in cui avessero deciso di scappare dalla comunità per acquistare e consumare droga, avrebbero – ora per allora – legittimato le eventuali misure restrittive della loro libertà personale adottate da Muccioli e dai suoi collaboratori (come, ad esempio, la segregazione).
Inoltre, da un’analisi più approfondita dei fatti di causa, la Corte di Bologna accertò che molti ragazzi che scappavano dalla comunità lo facevano effettivamente per assumere nuovamente eroina. In particolare, la ragazza che aveva denunciato Muccioli “dopo l’ultima fuga era stata arrestata per detenzione di 30 grammi di eroina nel gennaio del 1981 [e] … aveva ripreso a drogarsi”.
Le condotte di Muccioli e dei suoi collaboratori – consistenti nella segregazione dei tossicodipendenti – erano necessarie a salvare la vita dei ragazzi della comunità, evitando che essi tornassero da assumere eroina.
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Secondo la Corte, anche se i metodi usati erano eccessivamente duri (come ad esempio la segregazione e l’incatenamento dei tossicodipendenti), Muccioli e i suoi collaboratori avevano agito come se fossero i genitori dei ragazzi della comunità, “esercitando il diritto-dovere” di impedire ad essi di fuggire da San Patrignano per acquistare e consumare droga.
La sentenza di assoluzione fu accolta con grande clamore dalla stampa dell’epoca e con grande euforia dagli estimatori di Vincenzo Muccioli, soprattutto dai genitori dei ragazzi tossicodipendenti accolti dalla Comunità di San Patrignano, che vedevano in essa una speranza per salvare le vite dei loro figli.
Lo stesso Muccioli manifestò ai giornalisti il suo apprezzamento per l’esito del processo, dichiarando che bisognava avere fiducia nella giustizia e nella magistratura.
Quello “delle catene” fu un processo-spartiacque, tanto che viene annotato pure nel celebre Fiandaca-Musco.
In fondo, raschiando la sostanza dei fatti e con la necessaria approssimazione, si può dire che dentro le aule giudiziarie emiliano-romagnole si scontrarono due opposte visioni dell’esistenza: una “individualista” (il drogato, se vuole, ha diritto di drogarsi e nessuno deve impedirglielo), una “comunitarista” (se la libertà è pericolosa allora essa è, in un certo senso, recessiva).
Che poi, a dir la verità, la questione non è poi così moderna. È successa la stessa cosa a Ulisse, quando chiese ai suoi compagni di essere legato per poter sentire il mortale, eppure suadentissimo, canto delle Sirene. Prima si fece promettere di non essere liberato per nessuna ragione al mondo; poi pregò, imprecò e scongiurò i compagni di essere liberato. La sussunzione della vicenda omerica sotto i canoni del Diritto Penale – perfettamente sovrapponibile al caso “SanPa” – impone lo scioglimento di tre questioni: la capacità di intendere ma non quella di volere, la validità del dissenso reso in condizioni di alterazione, il ruolo dell’Ordinamento nella determinazione di ciò che è “bene” e ciò che è “male”.
Una risposta univoca a queste problematiche è impossibile. Vincenzo Muccioli, da canto suo, le incarnò: per tale ragione il giudizio, su di lui, continua a dividere il Pubblico.
Per alcuni rimane un Santo, per altri continua a essere solo un Santone.
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