Il 17 novembre 1938 fu promulgato il Regio Decreto n. 1728 che proibiva i matrimoni “del cittadino di razza ariana con persona appartenente ad altra razza”. Le nuove norme trovarono applicazione per la prima volta a Trieste in un procedimento a carico dei coniugi Giorgio Mugliesi e Rebecca Nacson. Vi raccontiamo questa storia.
Il 18 settembre 1938, a Trieste, al cospetto di una straripante folla in adorazione, Mussolini annunciava la promulgazione delle leggi razziali.
«Nei riguardi della politica interna, il problema di scottante attualità è quello razziale. Anche in questo campo noi adotteremo le soluzioni necessarie. Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito ad imitazioni, o peggio, a suggestioni, sono dei poveri deficienti, ai quali non sappiamo se dirigere il nostro disprezzo o la nostra pietà. Il perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni. È in relazione con la conquista dell’Impero, poiché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi ma si tengono con il prestigio, occorre una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime».
D’altronde già da diverso tempo si susseguivano in Consiglio dei Ministri provvedimenti che “arricchivano” la vita fascista di norme “destinate a elevare il costume, a valorizzare la famiglia, a difendere la razza”, norme che – come si leggeva su Il Popolo d’Italia (2 settembre 1938) avrebbero portato tutte “ad identico fine: il miglioramento fisico e morale dell’italiano nuovo”. Norme che in realtà erano state anticipate da un provvedimento del 1937 che vietava i matrimoni misti (e anzi in generale i rapporti fisici) tra italiani e gli abitanti delle colonie africane.
In questo contesto, la scelta di Trieste non era affatto casuale.
Il viaggio di Mussolini a Trieste era solo la prima tappa di un percorso intrapreso con grande connotazione propagandistica dal Duce nelle zone della Prima guerra mondiale, in un’ottica fortemente nazionalista.
Forte era l’adesione al fascismo di Trieste, una funesta trasformazione dell’antico spirito irredentista della città prima che divenisse italiana. Irredentismo per lo più degli ebrei triestini, che aveva facilitato in molti di loro l’adesione al fascismo, come era avvenuto nel resto della penisola.
Ora, invece, la politica razziale di Mussolini tagliava fuori l’“ebreo” da ogni appartenenza nazionale, legando strettamente il nazionalismo fascista al razzismo antisemita.
A Trieste la presenza ebraica era sempre stata forte, radicata e ricca di cultura. Si trattava di una città di confine, che era stata un ponte verso l’Europa centrale. Ma era anche il porto da cui partivano, fin dai primi anni del secolo, le navi cariche di ebrei dell’Est in fuga dai pogrom e dalle persecuzioni verso la terra d’Israele. Per questo la scelta di Trieste era dotata di una forte carica simbolica.
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Poche settimane dopo il bagno di folla di Trieste, viene promulgato il Regio decreto-legge 17 novembre 1938 (N. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana). Il provvedimento regolava il tema dei matrimoni, vietando l’unione tra cittadini italiani e cittadini di “razza” diversa, e indicava gli ambiti da cui gli ebrei erano esclusi. Fissava inoltre i primi criteri di definizione, che permettessero di identificare con precisione i soggetti oggetto dei provvedimenti. Interessanti sono per noi il primo, il secondo e il quinto articolo del CAPO I intitolato: “Provvedimenti relativi ai matrimoni”:
- Art. 1. Il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza è proibito. Il matrimonio celebrato in contrasto con tale divieto è nullo.
- Art. 2. Fermo il divieto di cui all’art. 1, il matrimonio del cittadino italiano con persona di nazionalità straniera è subordinato al preventivo consenso del Ministero per l’interno. I trasgressori sono puniti con l’arresto fino a tre mesi e con l’ammenda fino a lire diecimila.
- Art. 5. L’ufficiale dello stato civile, richiesto di pubblicazioni di matrimonio, è obbligato ad accertare, indipendentemente dalle dichiarazioni delle parti, la razza e lo stato di cittadinanza di entrambi i richiedenti. Nel caso previsto dall’art. 1, non procederà né alle pubblicazioni né alla celebrazione del matrimonio. L’ufficiale dello stato civile che trasgredisce al disposto del presente articolo è punito con l’ammenda da lire cinquecento a lire cinquemila.
Non è quindi un caso che, come abbiamo avuto modo di scoprire, il primo caso di applicazione di questo provvedimento fu discusso proprio a Trieste.
Della vicenda si occuparono molte riviste del tempo, incuriosite e animate in discussioni dottrinarie per quel primo caso. Il processo fu a carico dei coniugi Giorgio Mugliesi e Rebecca Nacson, ritenuti trasgressori delle norme prescritte dall’art. 2 del RDL del 17 novembre 1938 per essersi sposati 15 gennaio 1939.
I due erano entrambi ebrei. Mugliesi era cittadino italiano, mentre la moglie era di nazionalità greca e, come prevede l’art. 2, il matrimonio con una persona di nazionalità diversa da quella italiana doveva avere il consenso del Ministero degli Interni. Fu chiamato a giudizio anche il dott. Zolli, capo rabbino della comunità ebraica, per aver celebrato il matrimonio senza il consenso del Ministero.
Il Mugliesi si difese senza nulla eccepire in merito alla opportunità “costituzionale” del provvedimento, e si limitò a sostenere che quel matrimonio (per il quale aveva avuto l’autorizzazione dell’ufficiale di Stato Civile, rimando ad art. 5) avrebbe dovuto essere celebrato in data 8 novembre 1938, cioè prima della promulgazione e della entrata in vigore delle leggi razziali, e che quindi non vi era alcuna intenzione di violare la legge.
Il ritardo nella celebrazione era stato dovuto dalla improvvisa nascita della figlia dei due, e la conseguente attesa per la concessione dotale della comunità ebraica. Se ciò non fosse avvenuto – era la difesa – i due si sarebbero sposati prima della entrata in vigore del decreto. «Del resto – aveva aggiunto il Mugliesi in un virgolettato riportato dalle riviste – avevo la certezza di non aver commesso nessuna violazione alla legge stando alla autorizzazione avuta dall’ufficiale dello Stato Civile».
In effetti, anche il Rabbino aveva sottolineato che l’unico documento cui avrebbe dovuto far fede, per celebrare il matrimonio, sarebbe stato l’autorizzazione dell’ufficiale dello Stato Civile che aveva ricevuto. Non essendo peraltro contenuta su quella autorizzazione l’indicazione della nazionalità degli sposi, riteneva di avere agito secondo la legge.
C’erano insomma tutti gli ingredienti di una vicenda pietosa: un provvedimento disumano, giustificazioni umane, la nascita di una bambina, il garbuglio della burocrazia, la legge cogente, l’essere umano inerme.
Nonostante ciò, dopo un’intensa discussione tra il pubblico ministero e la difesa, il coniugi vennero condannati a dieci giorni di arresto e a cento lire di ammenda secondo quanto prescritto dall’art. 2. Tanto al Mugliesi quanto alla Nacson furono concessi tutti i benefici di legge.
Questa nostra storia potrebbe concludersi qui, sospirando forse un istante per la vicenda di due poveri sposini da poco genitori incappati nella tagliola di una legge ingiusta e di certo cervellotica. Ma abbiamo provato a saperne di più su cosa ne era poi stato del Mugliesi e della Nacson.
Del Mugliesi, purtroppo, non sono reperibili notizie. Della Nacson sappiamo che si sarebbe risposata assumendo il cognome “Croce”. Fu poi tratta in arresto il 2 giugno 1944, sempre a Trieste. Detenuta presso il campo di concentramento della Risiera di San Sabba, fu poi deportata nel campo di sterminio di Auschwitz con il convoglio n. 28T il 12 giugno 1944.
Fu liberata il 27 gennaio 1945, e sopravvisse alla Shoah.
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fonti: La Scuola positiva, 1939; CDEC