Uno dei precursori del positivismo giuridico, Thomas Hobbes, disse “no low can be unjust”. Ma nel segno di questa concezione si è pronunciata nel 1927 una delle più famigerate sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, la Buck v. Bell, con cui si decise che era legale eseguire la sterilizzazione forzata di pazienti con patologie psichiatriche.
Il ragionamento che si sta per proporre al lettore non figura certo tra i più immediatamente accattivanti ma è sicuramente da collocare tra quelli (sempre?) attuali: riguarda, infatti, il rapporto tra giustizia (ciò che è giusto o ingiusto fare) e diritto (ciò che bisogna o non bisogna fare) e, più in particolare, il caso in cui ciò che è giusto fare contraddica direttamente una disposizione normativa.
Non serve, infatti, riandare con la mente alle pene di Antigone per convenire sul fatto che può ben darsi il caso di una legge ingiusta (ossia di un precetto che bisogna rispettare ma che obbligherebbe, se rispettato, ad azioni ingiuste): il passato recente (oltre che il tempo presente) abbonda di tenebrosi esempi di norme ingiuste.

Il continuo rimestare della quotidianità (spesso alla ricerca di poco commendevoli argomentazioni da utilizzarsi, del tutto estemporaneamente, a beneficio della polemica del giorno) negli orrori dell’ordinamento giuridico nazista – ove, solo per fare un esempio, in campo penale venne apertamente epocato il principio di legalità, essendo ritenuta fonte di reato qualsivoglia condotta contraria al «retto sentire del volk» (cosa esattamente tale locuzione significasse, naturalmente, era lasciato al giudizio del singolo burocrate di partito) – o sovietico – ove lo spirito della rivoluzione imponeva l’assunto secondo il quale il diritto era essenzialmente uno strumento di politica statale e lo Stato, a sua volta, un mero «comitato esecutivo della classe dominante», ossia del proletariato (che si esprimeva per il comodo tramite dei burocrati dell’élite di partito) – non ha scalfito la profonda impressione che una legge iniqua può restituire a chiunque si accosti a questi fatti storici con serena obiettività.
Tra le cause dirette ed indirette di tali aberrazioni, Friedrich Hayek (1899-1992), in un agilissimo saggio che ancora oggi sorprende per la sua forza analitica (The Results of Human Action but not of Human Design), ricomprende anzitutto quel portato della filosofia di René Descartes (1596-1650) secondo la quale non si darebbe aspetto delle umane vicende nelle quali l’intelletto umano, attraverso un’attenta ed accorta pianificazione, non possa regolare la realtà secondo criteri di ragione.

Il razionalismo costruttivista cartesiano diviene così, secondo la penetrante ricostruzione del premio Nobel, il padre legittimo di tutte quelle teorie che, nell’ambito del diritto, si ancorano al concetto per cui ogni norma, ogni legge, ogni decreto, ogni sentenza è frutto di un ben ponderato atto del legislatore, sia esso il corpo legislativo, il governo o il giudice del caso concreto.
Tale teoria (comunemente definita positivismo, giacché riguarda ogni norma come posita, posta dal legislatore), la quale ha dominato incontrastata nei libri dei giuristi ben oltre il momento della sua massima diffusione nella seconda metà del XIX secolo, tende inevitabilmente tanto a ridurre ogni manifestazione giuridica al diritto d’emanazione statale quanto a rifiutare qualsiasi criterio di giustizia esterno alla volontà del legislatore. Da questo punto di vista, infatti, se il diritto è compiutamente il prodotto di una ben deliberata pianificazione, ogni legge non può che trovare in sé stessa la propria giustificazione: è valida in sé, giusta in sé perché è stata adottata dal legislatore, rendendo così inutile la ricerca di qualsivoglia ulteriore fondamento.
È difficile esprimere codesto ponderoso concetto in termini più efficaci di quelli adoperati da Thomas Hobbes (1588-1679), il quale, nel suo celeberrimo Leviathan, non poté che concludere, a proposito del rapporto tra giustizia e diritto, come «no law can be unjust», nessuna legge può essere ingiusta.

In effetti, portata alle sue coerenti conclusioni, tale concezione tende inevitabilmente a disconoscere qualsiasi rilevanza alla scoperta di una giustizia esterna all’atto di volontà del legislatore. Del tutto conseguentemente, il più grande giuspositivista del Novecento, Hans Kelsen (1881-1973), definì la giustizia esclusivamente come la pacificazione di interessi umani confliggenti, ora attraverso il soddisfacimento di uno di questi interessi a spese dell’altro, ora tramite un compromesso tra codesti interessi (si noterà qui la più completa indifferenza, la più assoluta neutralità rispetto al perseguimento dell’una o dell’altra soluzione, essendo ciò che rileva il fatto che tale pacificazione sia raggiunta entro la cornice normativa dell’ordinamento e non che uno dei due interessi sia giusto alla luce di criteri esterni alla mera liceità formale).
Un esempio concreto delle possibili conseguenze di questa concezione costruttivista del diritto può rinvenirsi in una delle più famigerate sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, la Buck v. Bell, emanata il 2 maggio 1927.
Il punto di partenza della lunga e dolorosa vicenda che portò a questo infausto pronunciamento, più volte citato negli atti difensivi di diversi gerarchi nazisti al processo di Norimberga (1945-1946), può essere individuato in una legge della Virginia, il Virginia Sterilization Act del 1924, con il quale l’Assemblea Generale dello Stato consentiva ai direttori di alcune cliniche statali di procedere alla sterilizzazione dei propri pazienti che costoro considerassero afflitti da patologie psichiche ereditarie, quali «idiocy, imbecillity, feeble-mindedness or epilepsy», idiozia, imbecillità, carenza mentale o epilessia.
La spinta ad adottare una simile risoluzione (la Virginia non fu certo l’unico Stato dell’Unione a dotarsi di norme di tal fatta) venne dal saldarsi delle teorie eugenetiche (secondo le quali, perlomeno dalla seconda metà dell’Ottocento, i migliori esemplari d’uomo, così come le piante e gli animali, possono essere selezionati attraverso meccanismi riproduttivi ben congegnati) con le battaglie politiche e sociali del Movimento Progressista (che propugnò, a partire dall’ultimo decennio del XIX secolo, diverse iniziative legislative volte al miglioramento delle abitudini e delle condizioni di vita dell’uomo).
Nonostante le premesse eugenetiche cozzassero manifestamente contro gli intendimenti dei progressisti (a che serve cercare di educare un esemplare inferiore di uomo?), alcuni tra questi finirono per accogliere con entusiasmo la teoria eugenica, concludendo come le cause della povertà, delle malattie mentali, dell’immoralità e dell’alcolismo non dipendessero tanto dal libero arbitrio individuale e dall’ecosistema d’origine quanto da un identificabile difetto ereditario (le più oscure implicazioni di una tal concezione si ebbero con chi volle vedere negli afroamericani o negli Indiani d’America popoli geneticamente “difettosi”).

Oliver Wendell Holmes Sr. (1809-1894), benemerito pioniere di tante e benefiche riforme in campo sanitario e membro di punta dell’elité letteraria nazionale, in un denso saggio apparso sul numero aprilino del 1875 dell’Atlantic (eloquentemente intitolato Crime and Automatism), dovendo rendere conto, nei termini più scientifici possibili, della brutalità metodica di alcuni serial killers dei suoi giorni, così formulò le proprie conclusioni:
These monsters of crime […] do not come into the world by accident; they are the product of antecedent conditions. There is just as certainly something wrong in their nervous centres – wrong proportion of parts, insufficiency here, excess there –; some faulty or even diseased state, as there is a disarrangement in the electric telegraph apparatus when it does not work well under the ordinary surrounding conditions. In most cases crime can be shown to run in the blood.
Questi mostri del crimine non vengono al mondo per caso; essi sono il prodotto di condizioni anteriori. C’è sicuramente qualcosa di sbagliato nei loro centri nervosi – un’errata proporzione delle componenti, un difetto qui, un eccesso là –; una situazione difettosa o anche patologica, così come vi è qualche scompenso nel telegrafo elettrico allorché non funziona come dovrebbe nelle ordinarie condizioni ambientali. Nella maggior parte parte dei casi, può dimostrarsi che il crimine scorre nelle vene.
Alla luce di tali conclusioni, diffuse non solo in ambienti pseudoscientifici o apertamente razzisti ma anche presso la crema degli intellettuali bostoniani, l’act della Virginia e la successiva disfida giudiziaria possono essere collocate entro la corretta cornice culturale: lungi dal riuscire – come oggi ci appare – una pratica iniqua e disumana, la sterilizzazione forzata degli “esemplari difettosi” poteva ben apparire – non bisogna dimenticare che ci fu chi sempre e comunque rifiutò la possibilità di qualsiasi pratica eugenetica – uno degli strumenti più adatti a selezionare e perpetrare nel genere umano solo quei caratteri più evoluzionisticamente di successo – il vocabolario darwiniano che si sta qui utilizzando, sebbene non possa in alcun modo essere attribuito allo stesso Darwin (paradossalmente, tutt’altro che un darwinista sociale), è suggestivamente proposto dal fatto che il primo propugnatore moderno del lemma stesso eugenic, eugenetica fu l’antropologo e statistico Sir Francis Galton (1822-1911), parente dell’autore de L’origine delle specie .

Nel settembre del 1924, il sovrintendente della Virginia State Colony for Epileptics and Feeble-Minded (il dottor Albert Sidney Priddy), di concerto con il redattore materiale del Virginia Sterilization Act (l’avvocato Aubrey Ellis Strode), presentò formale richiesta per la sterilizzazione di sedici ospiti del suo istituto: ottenuta (come la nuova legge imponeva) l’autorizzazione a procedere dalla competente commissione medica, Priddy e Strode sospesero tutte le operazioni eccetto quella di Carrie Elizabeth Buck, allo scopo di testare la tenuta costituzionale dell’act.
Notificata alla Buck copia dell’autorizzazione alla procedura di sterilizzazione e dietro sollecitazione del metodico Priddy, il tutore di lei ricorse contro il provvedimento al tribunale della Contea di Amherst: Strode si presentò a difendere l’istituto mentre per la Buck parlò Irving Whitehead, un esperto avvocato ma anche un sostenitore della sterilizzazione.

Il processo presso il tribunale della Contea vide l’audizione dei soli testimoni presentati da Strode: Whitehead, infatti, non ritenne opportuno presentare alcuna prova per contrastare le affermazioni contro la sua cliente – lo storico del diritto Paul Lombardo, bisogna sottolinearlo, allinea diverse accuse nel suo Three Generations circa la condotta da questi tenuta nella prima fase della vicenda –.
I resoconti dei testi auditi miravano tutti a dipingere la Buck come un’afflitta da carenza mentale e a sottolineare, nella più perfetta corrispondenza alle teorie eugeniche, come le cause di ciò andassero rinvenute nella sua ascendenza e potessero ritrovarsi nella sua discendenza.
Il dottor Priddy, per ultimo, testimoniò infatti come sia la madre di Carrie, Emma, sia la sua neonata figlia, Vivian, presentassero gli stessi sintomi della sua paziente, andando così a rappresentare un peso per la comunità tutta. D’altro canto, proseguì Priddy, avvalendosi di una semplice procedura di sterilizzazione (l’Act prescriveva la vasectomia per gli uomini e la salpingectomia per le donne), la sua paziente poteva essere dimessa dalle sue cure e reimmessa nella società, senza timore che desse alla luce altri «middle grade morons».
Il dottor Priddy morì nel 1925 e il mese successivo la corte di prima istanza giudicò in favore del suo istituto: il dottor John Bell venne nominato quale nuovo sovrintendente ed il caso passò alla Supreme Court of Appeals della Virginia, ove, il 12 di novembre dello stesso anno, la sentenza contro la Buck venne confermata.
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Il giudizio finale della Corte Suprema degli Stati Uniti giunse il 2 maggio 1927: in una decisione vergata dal giudice Oliver Wendell Holmes (1841-1935), figlio dell’omonimo medico e poeta che si è già avuto modo di citare, la Corte, col solo dissenso del giudice Pierce Butler – che probabilemnte basò il proprio silenzioso parere negativo anche, se non quasi esclusivamente, sulle fondamenta della propria radicata fede cattolica –, sancì la costituzionalità della legge della Virginia, cassando gli argomenti proposti da Whitehead.

Il paragrafo più inquietante della stringata majority opionion affidata ad Holmes, senz’alcun dubbio il più grande giurista che gli Stati Uniti abbiano mai prodotto dopo John Marshall (1755-1835), è certo l’ultimo: in esso, Holmes non si nasconde dietro ad aeree considerazioni giuridiche ma prende di petto la sostanza del caso («the attack is not upon the procedure but upon the substantive law»).
Sembra quasi, esordisce l’associate justice, che il ricorrente, più che concentrare le proprie censure sulla parte procedurale del ricorso, stia sostenendo che in nessun caso una procedura di sterilizzazione come quella disposta contro Carrie Buck possa essere autorizzata: non trovando peraltro alcuna ragione di doglianza valida da opporre alle formalmente corrette procedure dell’Assemblea Generale della Virginia e delle corti che sinora si erano espresse sul punto, Holmes fa notare come, del resto, la società richieda spesso ai migliori tra i propri membri di sacrificare financo la vita in battaglia per il bene comune (la Grande Guerra si era conclusa da nemmeno un decennio). Sarebbe strano – prosegue il ragionamento del giudice – se quella stessa società non potesse richiedere a coloro che già la privano della sua forza vitale, obbligandola a prestare assistenza e cure («those who already sap the strenght of the State»), alcuni minori sacrifici, tra i quali quello di non annegare i membri non parassitanti la società nelle paludi dell’inettitudine («in order to prevent our being swamped with incompetence»).
Molto meglio per il mondo, conclude il giudice Holmes, se la società impedisce a coloro che risultano essere manifestamente inadatti («who are manifestly unfit») di continuare la propria discendenza, piuttosto che attendere di doverli mandare a morte per i loro crimini o di lasciarli morire di inedia per l’incapacità di provvedere a loro stessi (e qui è davvero evidente la saldatura tra pensiero eugenetico e progressismo).
Del resto, il principio – esemplifica Holmes – che consente al governo di imporre di imporre la vaccinazione è sufficientemente ampio da autorizzare anche il taglio delle tube di Fallopio («the principle that sustains compulsory vaccination is broad enough to cover cutting the Fallopian tubes»): tre generazioni di imbecilli – sentenziò Holmes rifacendosi alle risultanze della corte della Contea, secondo le quali Emma, Carrie e Vivian Buck erano tutte e tre carenti mentalmente – sono più che sufficienti («three generations of imbecilles are enough»).

Come anticipato, la Buck v. Bell venne citata a più riprese – del tutto a sproposito, peraltro – nelle memorie difensive di diversi gerarchi nazisti processati a Norimberga: oggi, le conclusioni di diversi storici hanno condotto a ritenere che Carrie Buck non fosse affetta da alcuna patologia psichica e alcuni anni orsono l’Assemblea Generale della Virginia – che aveva abolito la legge sulla castrazione solo nel 1979, quando oramai più di 7.000 persone erano state sterilizzate sotto la sua vigenza – si è offerta di risarcire coloro che erano stati sottoposti a questa procedura.
Ciò che può forse essere opportuno sottolineare è, però, il bisogno sempre impellente di un criterio di giustizia che vada al di là della mera rispondenza di una norma ai suoi criteri formali di produzione: si può certo legittimamente dissentire con le parole logicissime di Holmes – la sua difesa della legge della Virginia colpisce ancora oggi proprio perché discende razionalmente da premesse non condivisibili ma cristalline ed apertamente proclamate – circa il paragone tra vaccinazione e sterilizzazione obbligatoria; giova, cionondimeno, ricordare che qui l’associate justice stava già trattando della sostanza della legge, ossia interrogandosi sulla sua equità.
Un giuspositivista puro si sarebbe arrestato alla positiva constatazione che il Virginia Sterilization Act rispondeva a tutti i criteri formali richiesti per la sua emanazione, ossia la provenienza dal legittimo governo dello Stato.
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