11 marzo 1969. A Milano, in Università Statale, si stanno svolgendo gli esami di Istituzioni di diritto privato, presieduti dal professor Pietro Trimarchi, allora giovane docente, eppure già noto per il profondo rinnovamento impresso agli studi sulla responsabilità civile con le sue fondamentali monografie Rischio e responsabilità oggettiva (1961) e Causalità e danno (1967).
Trimarchi era giunto in Statale solo da qualche mese, avendo preso possesso della cattedra nel novembre 1968, dopo aver insegnato a Urbino e a Genova: il suo ingresso nell’Ateneo milanese era coinciso – è immediatamente evidente – con una delle fasi più difficili della nostra storia nazionale. Come è noto, le contestazioni studentesche erano in quel periodo al loro culmine: e l’Università Statale ne era una sorta di roccaforte, per via (anche) della indiscussa leadership esercitata da un suo studente, Mario Capanna. Questi, arrivato dall’Umbria a Milano, si era inizialmente iscritto alla Facoltà di Filosofia dell’Università Cattolica e aveva vissuto presso il Collegio Augustinianum, istituzione universitaria voluta da Padre Agostino Gemelli per “coltivare” i migliori e più promettenti studenti (vi hanno soggiornato, tra gli altri, Luigi Mengoni, Romano Prodi, Ciriaco De Mita, Giovanni Maria Flick, Tiziano Treu…). Dopo aver contribuito a fare esplodere il movimento di protesta degli studenti, Capanna fu espulso dalla Cattolica e si trasferì, per questo, in Statale: dove lo ritroviamo, per quanto qui di nostro interesse, proprio la mattina dell’11 marzo 1969, quando si recò nell’aula in cui il professor Trimarchi stava tenendo esami. Il motivo della sua presenza è presto detto.
La pressione studentesca aveva spinto i docenti universitari milanesi a rinunciare al cosiddetto “salto d’appello”, una delle più consolidate prassi in forza della quale, allo studente che fosse stato giudicato impreparato, sarebbe stato impedito di riprovare l’esame alla prima, successiva occasione utile; egli avrebbe dovuto, invece, attendere una nuova sessione. In verità, però, non tutti i professori erano stati disposti ad accordare questa concessione. Tra gli “inflessibili”, c’era proprio Pietro Trimarchi: ricorda Capanna che con lui «non erano valsi approcci, discussioni, tentativi di persuasione» (cit. in M. Boneschi, La grande illusione: i nostri anni Sessanta, 1996) e, per questo, si era deciso di passare a maniere più “forti”. Il “Collettivo di Giurisprudenza”, emanazione del Movimento Studentesco, aveva a tal proposito fatto circolare una nota nei giorni precedenti la data dell’appello, in cui si leggeva: «Tutti gli studenti conoscono, o dovrebbero conoscere, la sorprendente carriera del professor Trimarchi e anche i suoi atteggiamenti didattici: per convincerlo è richiesta una grande partecipazione» (cit. in Corriere Milanese, 12-13.03.1969, p. 1).
La miccia che accese le polveri fu, a leggere le cronache di quei giorni, l’esame dello studente Marco Orefice, 23 anni. Questi, accortosi della propria impreparazione, chiese a Trimarchi di potersi ritirare e, allo stesso tempo, di aver restituito lo “statino”, necessario per ripresentarsi all’appello successivo. Il professore si rifiutò e registrò la bocciatura. Il resto è storia: gli studenti presenti bloccarono le porte dell’aula, pretendendo che il professore ritornasse sui suoi passi. «Se non restituirà il libretto — avrebbero detto costoro, secondo la prima ricostruzione offerta da La Stampa di Torino (12.03.1969, p. 9) — noi non la lasceremo uscire […]. Siamo disposti ad istituire dei turni di guardia».
Ed è proprio quello che accadde: Trimarchi subì, per ben quattro ore, una sorta di “processo” improvvisato, con pena individuata nel sequestro a oltranza: «Se lei non accetta le nostre condizioni, noi la teniamo qui una settimana senza mangiare. Tanto noi siamo molto più abituati al digiuno di voi professori» (cit. in Corriere Milanese, ibidem).
Vale la pena riportare alcune di queste «condizioni»: sessioni ogni settimana, con il diritto di ripetere la prova senza limitazioni di sorta; facoltà di “rifiuto” del voto; possibilità per gli studenti di concordare con il docente gli argomenti d’esame (vd. ibidem). Per avere contezza di ciò che accadde quella mattina, basti pensare che – a un certo punto – nell’aula si presentò anche il padre di Pietro Trimarchi, Mario, Presidente della Corte d’Appello di Milano. L’alto magistrato aveva tentato di portare al riparo il figlio, ma fu preso “ostaggio” a sua volta e costretto ad attendere la deliberazione degli studenti riuniti in assemblea in merito alla possibilità di lasciarlo andare.
Il “processo” si concluse solo con l’intervento della polizia, ma i problemi per Trimarchi proseguirono per diverso tempo. Fu disposta, in via cautelare, la sospensione delle lezioni fino al 10 aprile. Il consiglio di facoltà fu tenuto a pronunciarsi sulla mozione presentata dagli studenti contestatori, che chiedeva l’allontanamento del professore: l’allora preside di facoltà, Giacomo Delitala, fondatore della celebrata scuola milanese di diritto e procedura penale, spiegò di essere stato costretto a porre ai voti la richiesta, pur giudicandola «semplicemente assurda» (cit., in La Stampa, 13.03.1969, p. 3).
Il 21 marzo, Trimarchi fu addirittura assalito da diverse decine di studenti. Ecco una estesa cronaca di quanto accaduto:
Non appena è comparso in strada gli studenti hanno ripreso ad urlare contro di lui: qualcuno gli si è avvicinato e gli ha gridato di essere un “buffone”, un “fascista”, un “bugiardo”. Poi in coro gli studenti che avevano circondato il docente gli hanno urlato di andarsene dall’Università. A questo punto il professor Trimarchi, visto che non riusciva ad aprirsi un varco, ha chiamato l’appuntato di P.S. Antonio Palacino, che era in servizio davanti all’ingresso dell’Università, e lo ha pregato di accompagnarlo a casa. Il graduato si è messo di fianco al professore intimando agli studenti di lasciarlo passare. I giovani hanno fatto largo, ma si sono accodati al prof. Trimarchi e all’agente che raggiungevano via Larga con l’intenzione di salire su un taxi. […] [Trimarchi] Stava attendendo l’arrivo di un taxi, quando gli studenti si sono fatti ancora una volta attorno a lui e hanno ripreso ad insultarlo e minacciarlo. L’appuntato, a questo punto, vista passare nella via una pattuglia di vigili urbani, ha dato l’allarme. La macchina della vigilanza sulla quale si trovavano il capo pattuglia Giovanni Fazzone e il vigile Massimiliano Galvani, si è subito bloccata; l’appuntato si è avvicinato e ha pregato di portare il professore al vicino posto di polizia. Ma gli studenti si sono opposti, hanno circondato la macchina ed hanno cominciato a tempestarla di pugni e calci ammaccandone la carrozzeria in più punti e mandando in frantumi i vetri dei fari. […] Mentre gli studenti stavano discutendo sul da farsi, Giovanni Fazzone […] ha dato uno spintone al giovane che si era aggrappato alla portiera ed è partito di scatto. Gli studenti sono stati così costretti a scansarsi e la vettura ha potuto allontanarsi e arrivare al commissariato di piazza San Sepolcro.
La Stampa, 22.03.1969, p. 9
Il Corriere d’Informazione, edizione pomeridiana del Corsera, pubblicò un editoriale – “Di qui all’olio di ricino”, 22-23.03.1969 – in cui si legge: «Non è stato aggredito e offeso Pietro Trimarchi soltanto, l’offesa e l’aggressione riguardano tutta la classe dei maestri universitari».
E quando il corso delle lezioni sarebbe dovuto regolarmente riprendere, a Trimarchi fu sistematicamente impedito, per così dire, di insegnare: per ben quattro volte, tra il 16 e il 22 aprile, il professore si presentò in aula, ma a causa delle contestazioni fu obbligato a desistere. Il 6 maggio, quando si sarebbe dovuta tenere una nuova contestazione («aria di guerra questa mattina all’Università Statale […]: ingenti forze di polizia e di carabinieri con idranti stazionavano […] pronte a intervenire», annotava il Corriere Milanese, 6-7.05.1969, p. 1), il peggio fu evitato da una improvvisa indisposizione del professor Trimarchi e, quindi, da una nuova sospensione delle lezioni.
La situazione, ormai incandescente, trovò una soluzione solo con «il solito (e questa volta provvidenziale) compromesso all’italiana» (così Giampaolo Pansa, in una cronaca per La Stampa, 15.05.1969, p. 2): in cambio dell’assicurazione di poter svolgere indisturbato le proprie lezioni in orario pomeridiano, Trimarchi acconsentì che nelle ore ufficiali di lezioni, al mattino, si tenessero delle assemblee “politiche”. Il 9 giugno, infine, quattordici dirigenti del movimento studentesco – tra cui Mario Capanna, Andrea Banfi e Giuseppe Liverani – furono arrestati con l’accusa di violenza pluriaggravata e sequestro di persona, proprio per i fatti dell’11 marzo. Trimarchi – per contribuire a distendere il clima – scelse di non costituirsi parte civile. Il 19 luglio venne emessa la sentenza: Capanna fu condannato a 11 mesi, Banfi a 13, Liverani a 9.
È l’epilogo della vicenda che abbiamo voluto raccontarvi: non abbiamo trovato dichiarazioni recenti del professor Trimarchi in proposito (e chi, di ciò, potrebbe fargli una colpa?), mentre Capanna – nel suo libro di ricordi, Formidabili quegli anni (1988) – riflettendo a posteriori su quel che fu, ha concluso che «Tutta la vicenda Trimarchi ebbe una certa rilevanza nelle lotte studentesche. […] Per gli studenti determinò uno spostamento dei rapporti di forza a proprio vantaggio: da allora, in tutta Italia, anche i docenti più reazionari si mostrarono più duttili». In cui «essere più duttili», come hanno chiosato Indro Montanelli e Mario Cervi (L’Italia degli anni di piombo, 1991), «non significava svolgere con maggior assiduità i propri compiti; significava accettare gli esami di gruppo, la promozione obbligatoria, la rinuncia alla selezione e alla meritocrazia».
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