Tra i due grandi pensatori Cesare Beccaria e Immanuel Kant si consumò una faida intellettuale intorno alla pena di morte. In realtà fu un mascherato dissidio che svela un’impensabile affinità: i due si trovano su due strade parallele riguardo la pena di morte, ma sembra che si incrocino sul crocevia dell’imperativo categorico. Seguiamo l’argomentazione dell’articolo di Roberto Mondolfo del 1925 nella Rivista Internazionale di Filosofia del diritto.
Nella Metafisica dei costumi, Kant, nel capitolo “Del diritto di punizione e di grazia”, parlando della pena di morte, della quale egli afferma la legittimità, condanna con una certa asprezza il ragionamento col quale Cesare Beccaria, nel Dei delitti e delle pene (§ 15), l’aveva respinta siccome illegittima. Scrive Kant a proposito:
‹‹Invece il marchese Beccaria per un affettato sentimentalismo umanitario sostiene che ogni pena di morte costituisce un’ingiustizia: infatti essa non poteva essere contenuta nel contratto civile originario, perché allora ogni individuo del popolo avrebbe dovuto acconsentire a perdere la vita nel caso che egli avesse a uccidere un altro (nel popolo); ora questo consenso è impossibile, perché nessuno può disporre della sua vita. Tutto ciò non è che sofisma e snaturamento del diritto. Nessuno è punito per aver voluto la punizione, ma per aver voluto una azione meritevole di punizione: perché non vi è punizione, quando e ad uno accade ciò che egli vuole, ed è impossibile voler essere punito››.
La critica di Kant colpisce in pieno quella parte della polemica del Beccaria che egli qui unicamente richiama. L’argomentazione, qui riferita e combattuta, si fonda sulla concezione del contratto sociale e della sovranità, che Beccaria traeva piuttosto da Locke che da Rousseau, infatti egli scrive:
‹‹Fu dunque la necessità, che costrinse gli uomini a vedere parte della propria libertà; egli è dunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzione possibile, quella sola che basti ad indurre gli altri a difenderlo. L’aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire: tutto il di più è abuso, e non giustizia: è fatto, non già diritto››.
Ma chi consideri come il capitolo del Beccaria sulla pena di morte, per quanto sia forse tra i più deboli e meno persuasivi del vigoroso libretto, contenga e svolga soprattutto le argomentazioni contro la necessità e l’utilità della pena di morte (dopo il rapido accenno alla sua illegittimità), non può disconoscere che il giudizio di Kant sia a un po’ duro e sommario, sembrando colpire non soltanto le poche righe da lui stesso richiamate, ma tutto il libro e lo stesso autore, per il quale non è espresso il riconoscimento di alcun merito, accanto al biasimo non lieve.
Per questo appunto può riuscire interessante il rilievo di un’intuizione, per la quale Beccaria merita di esser collocato fra i precursori di una delle formule kantiane dell’imperativo categorico. Rileviamo un’affinità che li ravvicina: non si pretende, con questo affermare, che precursore qui equivalga a ispiratore; sebbene il fatto che Kant conoscesse bene il libretto di Beccaria, e la presunzione che a lui non potesse sfuggire ciò che v’era d’essenziale e di veramente profondo, possano indurci a non escludere ciò che non intendiamo asserire. Inevitabile notare come l’importanza storica del libro di Beccaria fosse per buona parte quella nuova coscienza giuridica che vi si afferma, contrapponendo allo stato di arbitrio ancora dominante l’esigenza ferma e recisa dello stato di diritto, uguale per tutti i cittadini e a tutti ugualmente sovrastante. E questo a Kant non poteva certo passare inosservato.
Ma c’è (più notevole ancora) anche il fatto che quell’esigenza, che Beccaria afferma in modo così vivo, egli senta, per quanto vagamente, di dover fondare un principio etico che la sostenga, nella cui espressione, ancora inadeguata, accenna appunto la strada che Kant segnerà poi nettamente con una delle formulazioni del suo imperativo categorico. Afferma Beccaria ne Dei delitti e delle pene, § 27: ‹‹Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa››.
Le leggi, dunque, debbono ispirarsi, nel determinare le norme della condotta reciproca degli uomini, al principio che l’uomo deve esser trattato sempre come una persona e mai come una cosa, che è quanto dire come un fine e mai come un mezzo. Principio che sarà poi la formula kantiana nella Fondazione della metafisica dei costumi:
«Opera sempre in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo››.
Questo imperativo, che Kant vuol posto dalla coscienza individuale a ognuno, Beccaria diceva dover essere posto dalle leggi a tutti, perché vi sia libertà e stato di diritto: egli guardava solo al comando espresso da una legge esteriore agli uomini. Ma l’inspirazione della sua norma giuridica è identica a quella della successiva norma etico kantiana: la personalità che è fine e non mezzo, l’umanità che è persona, e non cosa. L’affermazione, che si trova formulata di passaggio e per incidenza, ha un’importanza filosofica notevolissima, anche se il Beccaria non mostri di rendersene conto in misura adeguata. Essa vale a dare, prima di Kant, la fondazione e giustificazione etica all’esigenza dello stato di diritto, onde si costituisce l’esistenza e coscienza della libertà e la sola legittima società. Al § 25 Beccaria:
‹‹L’opinione che ciaschedun cittadino deve avere di poter fare tutto ciò che non è contrario alle leggi, senza temere altro inconveniente che quello che può nascere dalla azione medesima, questo è il dogma politico che dovrebb’essere dai popoli creduto e dai supremi magistrati coll’incorrotta custodia delle leggi predicato, sacro dogma, senza cui non vi può essere legittima società… Questo forma le libere anime e vigorose».
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Così Beccaria mostrava di intendere il vincolo che lega la coscienza della dignità umana con quella dell’autonomia e della responsabilità. E perciò egli occupa degnamente il suo posto fra Rousseau e Kant.
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