Siamo arrivati al nostro quinto appuntamento della storia delle pene, in cui, sempre scortati da Hans von Hentig, ci delizieremo con un nuovo interessante supplizio: la precipitazione. Ne indaghiamo la genealogia a partire dalla ritualità della Grecia arcaica, passando per la svolta della Lex romana, fino ad arrivare all’Europa del Nord.
La Grecia arcaica e la tradizione sacrificale della precipitazione
Nella mitologia greca la morte eroica per eccellenza per un uomo è la precipitazione nel vuoto dall’alto di un monte, mentre per la donna è il suicidio mediante impiccagione (eccezione che conferma la regola solo Saffo, che saltò dalle rocce di Leucade nel grembo di quel mare che aveva inghiottito il suo amante). Secondo la leggenda di Deucalione, la precipitazione sarebbe la morte degna di un uomo perché dopo il diluvio l’uomo era nato proprio dalle rocce.
Secondo un antico rituale di purificazione, precipitarsi dalle rocce valeva a espiare la colpa dell’omicidio. Inoltre, il rito della precipitazione era strettamente connesso al culto del dio Apollo.
Si credeva che in origine nel santuario di Delfi dimorasse una divinità della terra. Era un drago maligno chiamato Pitone che Apollo, dopo averlo ucciso, lo aveva fatto precipitare in un crepaccio. Il santuario di Apollo fu eretto così sulla tomba di Pitone, simbolo delle forze dell’indistinto e del maligno vinte dal potere benefico ed espiatorio del dio della luce e dell’ordine.
Precipitarsi volontariamente dall’alto delle rocce assunse dunque lo stesso valore espiatorio che aveva avuto la precipitazione della divinità malvagia compiuta da Apollo. Assai probabilmente, deduce il nostro von Hentig, la precipitazione di un criminale non era altro che una continuazione di consuetudini sacrificali che avevano avuto un chiaro significato religioso in connessione con la precipitazione di Pitone.
Di origine ancora più arcaica sono i miti su “esseri” precipitati dal cielo o dalla terra nel Tartaro, e cioè nella profondità stessa della terra. ‹‹Perfino Saturno è precipitato con i Titani entro questa profondità, e Gea si adirò con Urano per averle estinto in tal modo il suo primogenito››.
Anche qui, ci imbattiamo in quella antichissima concezione propria dei Greci che Rhode ha finemente precisato in un suo lavoro sugli Dei delle caverne e sulle figure della mitologia greca, le quali furono inghiottite dalle viscere della terra. Una di queste, degna di nota, è la leggenda di Anfiarao dinanzi al quale la terra si aprì, colpita da un fulmine di Giove, ed egli, con il suo carro e i suoi cavalli, le sue armi e la sua donna, passò dalla terra agli inferi dove continuò la sua vita. Tutti coloro che erano così inghiottiti, continuavano a vivere, separati dai viventi solo da un sottile strato di terra, che poteva essere valicato dalle preghiere dei mortali. Pausania ci informa che anche Eretteo, figlio della Terra, viveva, secondo la mitologia greca, nell’antico santuario dell’Acropoli. Anche vediamo che l’antico demone terrestre viveva sotto le fondamenta del tempio, a lui discendevano le preghiere e i sacrifici degli uomini; perché il ricordo degli antichi dei permane inestinguibile fra gli uomini, per quanto nuovi dei e più benigni abbiano sopraffatto le loro figure oscure e primitive.
Più in generale, i popoli mediterranei, nelle cui regioni, dai crepacci della terra, dalle acque e dai laghi sorgono vapori irrespirabili, hanno in comune una combinazione di fuoco e di acqua che simboleggia le forze della profondità e della vita. I loro giuramenti più inviolabili erano pronunciati proprio in questi luoghi.
Tutti gli ingressi dell’Ades erano presso rocce bianche e dove sorgevano anche santuari altamente venerati. In Grecia, dunque, il carattere sacrificale della precipitazione si può dire dimostrato con assoluta sicurezza. Forme attenuate e simboliche di questo sacrificio espiatorio, erano costituite dalla cerimonia – comune in ogni santuario in cui si dessero responsi – per la quale colui che andava a chiedere l’oracolo, scendeva in un profondo precipizio entro il quale si nascondeva il santuario e poi, secondo il consiglio della divinità, compiva altre pratiche espiatorie.
Roma e la precipitazione nel diritto penale
Indaghiamo l’utilizzato e il valore che assumeva la precipitazione a Roma, percependo fin da subito il netto stacco dalla grecità, in quanto: ‹‹la precipitazione come pena è caratteristica del diritto penale romano››. Questo non significa che la grecità non influisca sulla concezione penale della precipitazione, ma appunto si tratta di una visione penale, non più sacrificale. Contemporaneamente, e non possiamo certo considerarlo come un caso, il nomos greco inteso come unità cosmica, come identità con l’essere, si sfalda e si riduce a lex, cioè un’artificiale norma positiva. A questo proposito, Carl Schmitt considera la traduzione ciceroniana di nomos con lex: ‹‹una delle peggior malefatte della nostra cultura occidentale››, in quanto la lex romana intende il nomos come posizione di norme, posizione di dover essere, ormai sciolto dalla base ontologica greca.
Sul lato meridionale della collina del Campidoglio, che si elevava di circa 50 metri sul livello del fiume, si trovava una ripida parete rupestre. Si trattava della rupe Tarpea, chiamata così dalla donna che aprì la fortezza ai Sabini e fu, per tale fatto precipitata da quella roccia. L’istituto giuridico romano della precipitazione dalla Rupe Tarpea mostra due tipi ben distinti. Uno di questi risale ad una maggiore antichità, si tratta di quella che era messa in atto dalla parte lesa stessa. Sappiamo che la precipitazione aveva luogo solo per due dei reati delle dodici tavole: per il furto manifesto di uno schiavo e per la falsa testimonianza. La santità del giuramento, evidentemente, in quella preistoria religiosissima, era l’occasione per una pena della massima severità. Infatti, il giuramento nei tempi più antichi doveva essere fatto all’aperto, alla presenza di Zeus, i cui fulmini erano diretti ad annientare colui che venisse meno alla santità del giuramento stesso, prima ancora che lo spergiuro fosse uscito dalla sua bocca. Fra gli dei che erano invocati in occasione del giuramento, troviamo sempre, insieme a Giove, gli dei sotterranei o quelli connessi agli dei sotterranei.
Non v’è dubbio, sostiene von Hentig, che esista una stretta relazione tra la punizione della Vestale – che se fosse venuta meno al suo giuramento sarebbe stata sepolta viva (vedi articolo sulla sepoltura dei vivi) – e la punizione dello spergiuro, nella quale il condannato veniva precipitato in una cavità del terreno; ambedue infatti erano consegnati, per così dire, alla terra. Oltre all’esecuzione ad opera della parte lesa, la precipitazione era usata nell’esecuzione ad opera dei tribuni, ed in molte procedure sommarie riservate ai magistrati patrizi; particolarmente in caso di disordini, si procedeva contro i ribelli con questo supplizio impressionante. Infatti, per quanto l’opera degli uomini fosse richiesta per arrestare il condannato e condurlo fin sul luogo della precipitazione, l’effetto mortale era riservato ad una forza di natura, della quale quindi l’opera degli uomini restava irresponsabile. Un’aggravante della pena inoltre, era dato dal fatto che si privava la salma di una regolare sepoltura, in quanto essa cadeva nel fiume o vi era gettata dopo l’esecuzione.
La procedura di condanna alla precipitazione è, poi, chiaramente descritta da Plutarco in un passo della vita di Coriolano: ‹‹Sicinio, il più audace dei tribuni, dopo essersi consultato brevemente con i colleghi, s’avanzò al centro dell’assemblea e dichiarò che Marcio era stato condannato a morte dai tribuni. E subito diede ordine agli edili di condurlo al Campidoglio, e di precipitarlo seduta stante dalle rocce››.
La precipitazione inoltre era una pena che colpiva anche i disertori. Per esempio durante il consolato di Quinto Fabio e di Marco Marcello furono prese un gran numero di città e furono fatti prigionieri 370 disertori. Questi furono mandati a Roma dove al fine di dare un esempio, furono fustigati nel Foro e poi precipitati dalla Rupe Tarpea.
Infine erano puniti con la precipitazione altri reati che maggiormente avessero commosso l’opinione pubblica. Per esempio, un uomo fu precipitato perché imputato di incesto con la propria figlia, evidentemente per placare il senso di riprovazione popolare provocato dall’orrendo delitto.
Europa del Nord e popolazioni germaniche
In questi luoghi, con scarsa attività tellurica, le notizie di precipitazione diminuiscono di frequenza. Le antiche fonti, infatti, riferiscono casi di precipitazione solo in regioni mediterranee. Non si è potuto rintracciare alcun ricordo della precipitazione come pena di morte indipendente in tutte le fonti giuridiche germaniche, eccetto che in quelle inglesi, Nell’antico diritto germanico e scandinavo, infatti, questa pena appare solo sporadicamente. Grimm specifica che questa punizione in Germania veniva utilizzata in Baviera e che il condannato veniva gettato in un pozzo con gli occhi bendati, legato ad una tavola (vedi articolo sulla pena dell’annegamento).
Si ricordano invece casi di delinquenti precipitati dall’alto di rocce in Islanda e nelle Farhöer, isole in cui indubbiamente le rocce erano utilizzate come luogo di supplizio. Quando l’Islanda diventò cristiana intorno all’anno 1000, i cristiani rimproveravano ai popoli pagani di quelle regioni il loro rito sacrificale come un’abominazione: ‹‹i pagani sacrificano gli individui peggiori e li precipitano dall’alto delle rocce».
In questo rimprovero, nota il vittimologo Hentig, si esprime chiaramente la connessione fra la consuetudine del sacrificio e la punizione dei criminali. Infatti, la scelta di determinate rocce in Inghilterra, in Islanda e nelle Farhöer indica anche quanto stretta fosse la connessione tra luoghi di culto e luoghi di esecuzione.
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Tornando alla Germania, erano numerosi i così detti ‹‹pulpiti del diavolo». Il modo in cui alcuni episodi nella mitologia germanica corrispondono con quelli della mitologia greca, è particolarmente notevole per quanto riguarda le leggende connesse con il mondo sotterraneo. Per esempio, Panzer così descrive la chiesa del diavolo nella Franconia centrale: ‹‹seguendo questo selvaggio vallone fino al suo principio si raggiunge la Chiesa del Diavolo, e cioè un balcone affacciato a picco su un precipizio». La figura del diavolo, dunque, sostituisce qui gli antichi dei o giganti. Non erano solo i ciclopi che bramavano carne umana, ma la carne umana poteva unicamente placare i feroci uomini delle caverne. Per questo Grimm ha introdotto un parallelo con il gigante della mitologia indiana, deforme e dalla barba rossa. I giganti germanici si sono sempre distaccati da questi tratti paurosi, e il fatto che sole poche tracce di culto e di sacrifico in loro onore si sia conservato, va indubbiamente connesso con il minore terrore che essi incutevano in paragone ai deformi giganti orientali.
L’uso della precipitazione come pena è nel tempo rispetto al periodo antico, anche lo stesso Hentig ricorda due episodi avvenuti in epoca più “recente” rispetto alla genealogia qui svolta: la defenestrazione di Praga (1615), in cui due rappresentanti della nobiltà locale catturarono alcuni governatori imperiali e li lanciarono fuori dalle finestre del castello di Praga; il secondo episodio più generico, sono le esecuzioni impiegate durante gli anni rivoluzionari della Francia dal 1791 al 1802. Ma a questi se ne possono aggiungere altri anche a noi più vicini, come l’episodio di Carbonara, (oggi Aquilonia) in provincia di Avellino, dove nel 1860 una violentissima sommossa popolare filoborbonica contro l’unificazione ebbe il suo apice nella precipitazione da una rupe di alcuni notabili del paese.
Concludo con la poeticità e la profondità d’analisi che contraddistingue Hans von Hentig: ‹‹Ciononostante, anche quello che è scomparso dalla memoria dell’uomo, persiste con tremenda vitalità nella vita emotiva e si risveglia in alcuni momenti di particolare eccitazione››.
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