12 dicembre del 1969 alle ore 16:37 un ordigno esplode nel salone della sede centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano. Tredici morti e circa ottanta feriti questo è il bilancio della strage. Questo è il drammatico evento che darà il via a quella stagione che verrà definita come la “strategia della tensione”.
In generale, il 1969 fu un anno di grandi tensioni in tutto il paese: piccoli attentati che non avevano causato morti si susseguirono per tutta la primavera e l’estate di quell’anno, sia a Milano che in altre città. Le contestazioni degli studenti universitari, iniziate nel ’68, si erano fatte più forti così come le risposte della polizia. Nel corso dell’autunno alla protesta studentesca si affiancò anche quella degli operai di molte fabbriche e aziende, “l’autunno caldo” ebbe come protagonisti scioperi e proteste da parte di entrambi i gruppi. Il 12 dicembre il clima politico era in fibrillazione in tutta la penisola.
Fin da subito le opinioni e i commenti sulla strage e le sue motivazioni spaccarono il dibattito italiano. La sinistra, in particolare quella più extraparlamentare, vide nell’attentato un’azione degli estremisti della destra neofascisti che, probabilmente in combutta con parte delle istituzioni, puntavano a spaventare gli elettori e spingerli a votare per la Democrazia Cristiana e i partiti di centro e destra. Da un certo punto di vista il 12 dicembre del 1969 rappresentò una svolta storica per i movimenti giovanili nati nel corso del ’68 e del ’69, che trovatisi di fronte a una risposta violenta, videro la fine della loro innocenza. Moltissimi militanti e attivisti di sinistra hanno raccontato come furono profondamente segnati dalla strage, e molti che poi sarebbero entrati nei gruppi armati di sinistra, indicarono il 12 dicembre come il momento più importante della loro radicalizzazione.
I Partiti di centro e i grandi giornali furono prudenti nell’assegnazione di responsabilità, fino a quando le indagini non si orientarono sull’ipotesi anarchica. Il sospetto inizialmente ricadde non su una bomba ma su un mal funzionamento delle caldaie, che però si rivelarono essere intatte, da qui si aprì la pista che portò a capire che l’esplosione fu opera dell’innesco d’un ordigno. Inizialmente fu percorsa la “pista anarchica”, in particolare modo su alcuni esponenti dei gruppi del Circolo anarchico 22 marzo di Roma e del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa. Pochi giorni dopo l’attentato venne arrestato Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico di 41 anni, che morì precipitando dal quarto piano del palazzo della questura dopo due giorni di interrogatorio da parte delle forze dell’ordine. Il giorno successivo alla morte di Pinelli fu la volta di Pietro Valpreda, altro anarchico, che venne riconosciuto da un tassista che sostenne di averlo portato di fronte alla Banca dell’agricoltura il giorno dell’esplosione, dove avrebbe depositato una misteriosa valigia prima di tornare sul taxi, fu così che venne indicato come sicuro colpevole da molti quotidiani e notiziari nazionali. Ma oltre alla testimonianza del tassista non vi era nient’altro, man a mano che la pista di destra appariva più plausibile in molti iniziarono a dubitare del suo coinvolgimento, tanto che nel 1987 arrivò per lui l’assoluzione definitiva.
Le indagini si concentrarono su alcuni esponenti del gruppo dei estrema destra Ordine Nuovo, con il coinvolgimento anche di alcuni soggetti appartenenti ai servizi segreti. Al centro di questo filone vi era Giovanni Ventura, padovano e membro del gruppo neofascista, che parlando con un amico (che successivamente lo avrebbe confessato al magistrato) si lasciò scappare alcune frasi in cui ammetteva di aver avuto qualcosa a che fare con gli avvenimenti di piazza Fontana: «se dopo l’attentato le forze dell’ordine non si muoveranno, bisognerà fare qualcos’altro» e che si vantava di essere a capo di un gruppo paramilitare di estrema destra. Nei mesi successivi Ventura e Franco Freda, altro esponente del gruppo di Ordine Nuovo furono sottoposti a diversi interrogatori e perquisizioni, senza che però venissero ritrovati abbastanza elementi per procedere contro di loro. La svolta arrivò nel 1971, quando in seguito ad alcuni lavori di ristrutturazione, furono trovate delle armi (e simboli fascisti) nascoste in un’intercapedine di un’abitazione, il cui proprietario ammise che era stato proprio Ventura a chiedergli di nasconderle, il che sembrò confermare l’esistenza di un gruppo paramilitare tra il padovano e il trevigiano. Furono trovate anche delle bombe simili a quella usata il 12 dicembre e, in una cassetta di sicurezza appartenuta alla madre e alla sorella di Ventura furono trovati dei documenti segreti del SID, uno dei servizi segreti italiani. Grazie a questi elementi i due vennero arrestati nel marzo del ’72. Effettivamente nel 2005 la Corte di Cassazione stabilì che la strage fu organizzata dal gruppo di Padova e pilotato da Giovanni Ventura e Franco Freda, i quali però a quel punto non erano più perseguibili in quanto precedentemente assolti con giudizio definitivo della Corte d’assise di Bari.
Il processo si aprì nel 1972, salvo poi essere trasferito definitivamente, nel 1974, da Milano a Catanzaro per motivi di ordine pubblico. Solo nel 1987 la Corte di Cassazione rese definitiva la sentenza che assolveva per insufficienza di prove gli imputati. Il processo sulla strage è divenuto famoso per il ruolo dei servizi segreti nel depistare le indagini e nel proteggere i responsabili dell’attentato. Ciò portò ad un effetto opposto, ovvero con il sospetto che lo stato approfittasse e fosse complice nella strage, contribuì a far crescere un’intera generazione di militanti simpatizzanti della sinistra.
Durante gli anni successivi dall’inizio del processo, le falsificazioni compiute inizialmente dalle indagini, le indicazioni di falsi colpevoli, la ricerca di capri espiatori, soprattutto nei movimenti anarchici e di sinistra, il tempo impiegato e la relativa difficoltà a giungere a una condanna nei confronti dei veri responsabili dell’attentato generarono un diffuso disincanto nella popolazione italiana, sulla capacità della giustizia di fornire risposte soddisfacenti e sulle complicità delle istituzioni.
Molti sostengono che per alcuni aspetti si possa parlare di una storia della Repubblica prima e dopo gli avvenimenti di piazza Fontana. In totale gli attentati terroristici di quel giorno furono cinque tra Roma e Milano, che per fortuna non ebbero un tragico risvolto come quello avvenuto nella Banca Nazionale dell’Agricoltura. In ogni caso questo attentato non fu l’ultimo tra i più atroci che in quegli anni insanguinarono l’Italia, per ricordarne alcuni: la strage di piazza della Loggia il 28 maggio 1974, la strage del treno Italicus nell’agosto dello stesso anno e la strage di Bologna il 2 agosto 1980. Quel giorno a Milano verrà ricordato come l’inizio degli anni di piombo.