Sin dal momento in cui era salito al potere come Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Michail Gorbačëv aveva iniziato un piano di riforme incentrato su i due concetti di perestrojka e glasnost’, ossia “ricostruzione” e “apertura”.
Questa mossa provocò la resistenza dell’ala più conservatrice del Partito. Ad esempio, Volodimir Ščerbickij, che asceso al politburò nel 1971 era stato nominato da Brežnev quale suo fedele alleato nel 1972 alla posizione di Primo Segretario del Partito Comunista Ucraino, ebbe molto a dire contro il termine “perestrojka”:
“Quale idiota ha inventato questa parola? Perché ricostruire la casa? C’è qualcosa di sbagliato nell’Unione Sovietica? Stiamo bene! Che cosa c’è da ricostruire? È necessario migliorare, riorganizzare… ma perché se la casa non sta cadendo a pezzi bisogna ricostruirla?”.
Le riforme, oltre al rifiuto della nomenklatura, ebbero l’effetto di liberare delle forze che Gorbačëv probabilmente non si aspettava. In particolare, i movimenti nazionalisti delle minoranze non russe dell’Unione Sovietica: aumentarono i timori che alcune Repubbliche potessero secedere, una libertà che comunque era loro concessa dall’articolo 72 della Costituzione Sovietica del 1977 voluta da Brežnev. Senza essere formalizzato, era un diritto ugualmente riconosciuto da Lenin.
Nel 1991 l’Unione Sovietica si trovava in una grave crisi economica e politica. Per dare qualche pennellata, era diffusa la scarsità di cibo e medicine, vi erano lunghe code per acquistare i beni essenziali (che in molte repubbliche erano pure stati oggetto di razionamento mediante tessere annonarie, un provvedimento che non si vedeva dai tempi della Guerra),
i depositi di combustibile erano mezzi vuoti con l’inverno che si avvicinava, l’inflazione ammontava al 300% annuale, le fabbriche che mancavano del denaro per pagare gli stipendi. La situazione in realtà perdurava da anni e per questo, già nel 1990, Estonia, Lettonia, Lituania, Armenia e Georgia avevano dichiarato la loro indipendenza. L’Unione Sovietica e Gorbačëv risposero con un’azione militare contro la Lituania, nei giorni dall’11 al 13 gennaio 1991, per “la restaurazione della Costituzione dell’URSS e la revoca di tutte le leggi anti-costituzionali”. Il tentativo fallì.
La data è oggi festa nazionale in Russia, ribattezzata Russia Day. Solitamente a riguardo i cittadini russi sono abbastanza confusi su che cosa si stia effettivamente festeggiando.
Il Congresso dei Deputati del Popolo manifestò la sua intenzione di costituire uno stato costituzionale democratico all’interno di una Unione Sovietica liberalizzata. La dichiarazione conteneva molte principi, ma conviene sottolineare il punto dove affermò che la Costituzione e le leggi dell’Unione Sovietica andavano disapplicate quando in contrasto con la Costituzione e le leggi della Repubblica Russa Sovietica. Iniziò la così detta “War of Laws”.
A questa dichiarazione seguirono quelle di Moldavia, Uzbekistan, Kazakistan, Ucraina… La dichiarazione dell’Ucraina del 16 luglio in particolare affermava (passata sotto gli occhi del menzionato protetto di Gorbačëv, Stanislav Hurenko, che era pure Vice-Segretario Generale del PCUS) che la Repubblica “avrebbe mantenuto il proprio esercito, avuto una sua banca nazionale e avrebbe introdotto la propria valuta”. La dichiarazione inoltre prevedeva l’intento per il futuro di essere “uno Stato permanentemente neutrale non partecipante ad alleanze militari. […] Non accetterà sul suo territorio, non produrrà e non fornirà armi nucleari”.
Iniziò uno scivolamento verso un caos anarchico, con 89 regioni (oblast‘) della Repubblica Sovietica Russa che arrivarono a dichiarare la propria sovranità, cosa che si traduceva nel rifiuto di raccogliere tasse per il governo centrale. Il 30 agosto in Russia dichiarò la propria sovranità la Repubblica Autonoma del Tartastan, con i suoi ricchi pozzi di petrolio (facendo un flash farward, il 21 marzo 1992 tennero un referendum per l’indipendenza, che passò con l’82% dei voti).
La Vigilia di Natale del 1990, il Quarto Congresso dei Deputati del Popolo (quello sovietico, per intero), su spinta del nuovo Presidente dell’Unione, lo stesso Gorbačëv, decise di indire un referendum “per il mantenimento dell’Unione come una rinnovata federazione di egualmente sovrane Repubbliche Socialiste Sovietiche, tenendo in considerazione separatamente i risultati del voto in ogni paese”. L’Unione Socialista delle Repubbliche Sovietiche avrebbe dovuto cambiare nome in Unione delle Repubbliche Sovietiche Sovrane (si voleva conservare l’acronimo, ma scompariva anche il termine “socialista”). Ma non più una federazione, quanto una confederazione.
Il referendum, a queste condizioni e con questo modo di intendere la rinnovata Unione, si tenne il 17 marzo 1991, boicottato dalle Repubbliche che si erano già dichiarate indipendenti: i paesi Baltici, l’Armenia, la Georgia e la Moldavia. Nei paesi dove si tenne, il 77,85% rispose a favore della nuova Unione (l’Ucraina al quesito aggiunse però un caveat al quesito, cioè che la rinnovata confederazione avrebbe dovuto rispettare quanto contenuto nella sua Dichiarazione di Sovranità del 16 Luglio). L’opposizione maggiore al rinnovamento dell’Unione si registrò nelle grandi città, in particolare a Mosca e Leningrado.
Referendum per la conferma della indipendenza si tennero nelle Repubbliche che non parteciparono: a favore si disse una media del 98%, con l’eccezione dell’Armenia, solo il 73%.
Seguirono negoziati fra i paesi partecipanti al referendum, che fallirono nel caso dell’Ucraina proprio per l’incompatibilità con la sua dichiarazione di sovranità. Le rimanenti 8 Repubbliche si dissero pronte a rinnovare l’Unione firmando il Trattato di Mosca il 20 agosto 1991 (che avrebbe rimpiazzato il Trattato di Formazione dell’URSS del 29 dicembre 1922).
Questa nuova struttura più elastica e decentralizzata era lo strumento che Gorbačëv aveva pensato per salvare l’Unione e introdurre gradualmente il multipartitismo e l’economia di mercato. Era una soluzione di compromesso: i riformisti chiedevano una rapida transizione al capitalismo, anche al rischio di una disgregazione dell’Unione. Gli stessi, guidati da Boris Yeltsin (forte di una vittoria da indipendente 12 giugno col 58,6% alle elezioni per la nuova carica di Presidente della Russia, contro le speranze di Gorbačëv che gli mobilitò contro l’esercito e la Procura Generale dell’URSS; alla fine il candidato del PCUS prese il 17% dei voti), chiedevano ancor più decentralizzazione e poteri alle singole Repubbliche.
Dall’altro lato si trovavano i “nazionalisti dell’URSS”, che non volevano perdite territoriali nell’Unione, non volevano l’introduzione di elementi di economia di mercato, non volevano una decentralizzazione del potere e non volevano che il Partito Comunista perdesse il suo ruolo politicamente privilegiato nella società sovietica. Questo gruppo dal 1990 sperava di poter convincere Gorbačëv a instaurare uno “stato di emergenza” eccezionale, dispiegare l’armata rossa e riportare per intero l’Unione all’ordine.
Questo gruppo era guidato dalla così detta “Banda degli Otto”: il Presidente del Comitato per la Sicurezza Statale (il KGB) Vladimir Krjučkov, il quale già da mesi aveva messo Gorbačëv sotto stretta sorveglianza sotto il nome di “Soggetto 110”, il Vice-Presidente dell’Unione Sovietica Gennadij Janaev (Gorbačëv lo aveva nominato a questa carica neo-istituita solo il precedente 27 dicembre; era la sua terza scelta; prima era il Presidente di tutti i sindacati dell’URSS), il Primo Ministro Valentin Pavlov, il lettone Boris Pugo Ministro degli Interni e Presidente della Commissione Disciplinare del Partito, il Maresciallo dell’Unione Sovietica (l’ultimo Maresciallo dell’Unione Sovietica) e Ministro della Difesa Dmitrij Jazov, il Segretario del Comitato Centrale e membro del Politburò Oleg Baklanov, oltre che Primo Vice Presidente della Commissione per la Difesa, Vasilij Starodubcev Presidente dell’Unione dei Contadini, Aleksandr Tizjakov Presidente dell’Associazione delle Imprese Statali. Uniti, si nominarono “Comitato di Stato sullo Stato di Emergenza” (lo so che è cacofonico, ma i due Stato in russo si scrivono diversamente e quindi suona meglio).
Si mettono in moto gli ingranaggi del complotto. Il 4 agosto Gorbačëv si reca in vacanza nella sua residenza in Crimea, con l’intenzione di rientrare a Mosca giusto in tempo per firmare il 20 il nuovo trattato.
Il 17 agosto i membri del Comitato si riuniscono in una struttura del KGB a Mosca e studiano il testo del trattato. Sono convinti che avrebbe spezzettato l’URSS. Il giorno seguente Baklanov, il capo di gabinetto di Gorbačëv Valerij Boldin, il membro del Segretariato e del Politburò Oleg Šenin e il Vice-Ministro della Difesa Generale Valentin Varennikov volano in Crimea per incontrare il Segretario Generale. Domandano a Gorbačëv o di dichiarare lo stato di emergenza o di dimettersi e lasciare che il suo Vice-Presidente Janaev “riportasse l’ordine” nel paese tramite il Comitato.
Gorbačëv rifiuta di accogliere alcunché delle richieste. I cospiratori non se lo aspettano e diventano nervosi. Gorbačëv viene confinato nella sua abitazione, le linee di comunicazione tagliate dal KGB, che rinforzò il controllo a tutti gli ingressi.
Nel frattempo, il Comitatò ordina l’immediata fabbricazione di 250mila paia di manette e 300mila moduli arresto (nella tarda Unione Sovietica dalla burocrazia non scappa neppure durante i colpi di stato). Krjučkov raddoppia la paga di tutti gli agenti del KGB e li richiama dalle ferie, ponendoli in stato di allerta. La prigione di Lefortovo, dove negli anni ’30 si torturava durante le purghe staliniane e che oggi esiste ancora gestita sempre dai servizi segreti russi (FSB), viene svuotata in attesa di essere nuovamente riempita.
19 Agosto
Era un lunedì. Janev firma un decreto in cui si nomina Presidente-facente-funzioni a causa di una “malattia” di Gorbačëv che lo renderebbe inabile a svolgere i suoi compiti. Il Comitato chiude tutti i giornali e le televisioni che non sono controllati direttamente dal Partito. I cittadini sovietici si svegliano con un annunciò all’alba su radio e televisioni che un Comitato di Emergenza è stato formato per governare il paese, per il resto è tutto oscurato, tranne la musica del lago dei cigni mandata in loop per ore e ore. Le divisioni corrazzate Tamanskaja e Kantemirovskaja occupano Mosca assieme ai paracadutisti. Quattro membri del Congresso dei Deputati del Popolo Russo, giudicati come i più pericolosi, vengono detenuti dal KGB in una base militare. Il piano per arrestare Yeltsin salta per motivi a tutt’ora sconosciuti.
Yeltsin arriva alla Casa Bianca, la sede del Soviet Supremo Russo (oggi residenza del Primo Ministro della Federazione Russa e sede del Governo), alle ore nove di mattina. Assieme al Primo Ministro Russo e al Presidente del Soviet, rilascia una dichiarazione dove condanna le azioni del Comitato come un colpo di stato reazionario anti-costituzionale. Invita l’esercito non partecipare alle manovre. La dichiarazione continua poi con una chiamata allo uno sciopero generale ad oltranza finché Gorbačëv non fosse stato libero di parlare al popolo. La dichiarazione venne distribuita per Mosca tramite volantini auto-stampati.
Nel pomeriggio i cittadini di Mosca iniziano a riunirsi attorno alla Casa Bianca e a erigere barricate. In risposta il Maresciallo Janaev dichiarò lo stato di emergenza in Mosca dalle ore 16,00. Alle ore 17,00 dichiarò alla stampa di partito compiacente che Gorbačëv stava “dormendo. Nel corso di questi anni si è molto affaticato e ora necessita di un po’ di tempo per tornare in salute”.
Nel frattempo, il Maggiore Evdokimov, a capo del battaglione della Divisione Tamanskaja di guardia alla Casa Bianca, dichiara la sua fedeltà alle autorità politiche della Repubblica Russa.
Yeltsin sale su un carro armato e si rivolge alla folla. L’episodio, non si sa come, venne ugualmente incluso nel telegiornale della sera controllato dal Comitato.
L’ex Presidente Ronald Reagan commenta: “Non posso credere che il popolo sovietico permetterà un indietreggiamento nel progresso che ha recentemente compiuto verso la libertà economica e politica. Sulla base dei miei numerosi incontri e conversazioni con lui, sono convinto che il Presidente Gorbačëv abbia in testa il miglior interesse per il popolo Sovietico. Ho sempre avuto l’impressione che la sua opposizione venisse dalla burocrazia comunista ed io posso solo sperare che sia stato compiuto abbastanza progresso verso la democrazia da rendere questo movimento inarrestabile”.
20 Agosto
A mezzogiorno, il Comandante del Distretto Militare di Mosca, Generale Kalinin, nominato da Janaev, dichiara un coprifuoco permanente dalle ore 23 alle ore 5. Il gesto venne interpretato dalla popolazione moscovita come simbolo di un imminente attacco alla Casa Bianca.
I difensori della Casa Bianca, quasi tutti disarmati, iniziano a preparare le difesa, sotto la guida del Generale Konstantin Kobec, deputato della Russia. Evdokimov con i suoi carri armati viene allontanato dalla struttura.
La sera il Comitato si determina ad attaccare la Casa Bianca. Il nome in codice è “Operazione Grom (tuono)”. Sono cooptati le unità delle forze speciali Alpha e Vympel, col supporto di paracadutisti, forze antisommossa, guardia nazionale, tre compagnie corrazzate e uno squadrone di elicotteri. I due comandanti delle forze speciali cercano di far tornare il Comitato sui suoi passi, avendo calcolato che un attacco sarebbe finito in un bagno di sangue. Il Comitato rimane fermo nei suoi propositi. Il generale a capo delle forze paracadutiste fa informare segretamente il centro di difesa della Casa Bianca che l’attacco è inizierà alle 2:00.
21 Agosto
Verso l’1:00, non lontano dalla Casa Bianca, vennero piazzati dei filobus e dei “pulisci strade” per barricare un tunnel contro i veicoli corrazzati da fanteria (IFV) dell’esercito, che stavano marciando contro i difensori. Tre uomini vengono uccisi mentre molti altri sono feriti: Dmitrij Komar, un veterano di 22 anni dell’Afghanistan, è colpito da uno sparo e poi schiacciato da un IFV. Vladimir Usov, un economista di 37 anni, è colpito da un proiettile vagante mentre stava andando in aiuto di Komar. Il’ja Kričevskij, un architetto di 28 anni, venne colpito a morte quando la folla tentò di dar fuoco ad un IFV e i soldati a bordo scappavano. Queste morti generarono così tanto orrore fra le parti che bloccarono tutta l’operazione. Forze speciali Alpha e Vympel non entrarono mai in azione. Il Maresciallo Jazov ordina ai militari di ritirarsi da Mosca.
La ritirata inizia verso le 8:00 della mattina. I membri del Comitato incontrano il Maresciallo e non sapendo che fare mandano Krjučkov, Yazov, Baklanov, Tizjakov e altri membri della nomenklatura in Crimea a parlamentare con Gorbačëv. Questi si rifiuta di riceverli. Nel frattempo sono restaurate le linee di comunicazione della sua abitazione, così che invia a Mosca il suo ordine che tutte le decisioni del Comitato sono nulle e i suoi membri decaduti da ogni carica.
Il colpo di Stato è fallito. Il Ministro degli Interni Boris Pugo, temendo per le conseguenze, si suicida. Scelta poco saggia perché tutti i cospiratori, dopo aver scontato qualche anno di galera, vennero amnistiati nel 1994.
Poiché diversi governi regionali avevano supportato il Comitato, il Soviet Supremo della Repubblica Sovietica Russa adotta la decisione numero 1626-1, che autorizza il Presidente Russo Boris Yeltsin a nominare i capi delle amministrazioni locali; lo stesso giorno venne approvata una altra mozione che restaurava la vecchia bandiera imperiale come bandiera della Russia.
Il 24 agosto Gorbačëv si dimette da Segretario Generale del Partito Comunista rimanendo Presidente dell’URSS, ma ormai è una carica vuota. Non solo, il 29 agosto il Soviet Supremo dell’URSS ordina di cessare qualsiasi attività del PCUS su tutto il territorio sovietico. Yeltsin contemporaneamente decreta il trasferimento degli archivi del PCUS in mano statale, come la nazionalizzazione di tutto il patrimonio del Partito nella Repubblica Sovietica Russa (incluse scuole, università, hotel…). Inoltre proibisce qualsiasi attività del Partito sul suolo russo, provocando la chiusura della sede del Comitato Centrale in Piazza Staraja. Oggi l’edificio è una sede dell’Amministrazione Esecutiva Presidenziale.
Il Trattato del 20 agosto che poteva salvare l’Unione (o distruggerla per il Comitato) è saltato. È una slavina: il 24 agosto l’Ucraina dichiara la sua indipendenza (confermata col 92% dei voti in un referendum del 1 dicembre), il 25 la Bielorussia… e così via fino al Kazakistan il 16 dicembre. La notte fra il 25 e il 26 la bandiera rossa scompare dal Cremlino sostituita da quella Russa.
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Chiudiamo con qualche indiscrezione diplomatica. La Repubblica Popolare Cinese appoggiava tacitamente il colpo di stato del Comitato. Si limitò a commentare che si trattava di un affare interno dell’Unione Sovietica e il Partito non rilasciò nessun ulteriore comunicato. Gli hardliners del PCC infatti disapprovavano fortemente il programma di riforme di Gorbačëv e lo biasimavano per “la perdita dell’Europa Orientale al Capitalismo”.
Molti osservatori cinesi constatarono che la differenza chiave tra il tentativo fallito dei leader del Comitato di usare i carri armati per fare a pezzi il dissenso a Mosca rispetto al tentativo conclusosi con successo tre anni prima dei leader cinesi di usare i carri armati contro i protestanti in Piazza Tienammen fu che il popolo Sovietico e Russo aveva un leader politicamente potente e carismatico come Yeltsin attorno a cui riunirsi, mentre in Cina questa figura mancava. Il tentativo di colpo di stato sovietico collassò su sé stesso dopo tre giorni con solo tre morti (che hanno ricevuto l’onoreficienza di Eroe dell’Unione Sovietica); nel Giugno del 1989 l’Esercito di Liberazione Popolare Cinese uccise invece centinaia o forse migliaia di persone e spazzò via con successo dall’opinione pubblica cinese ogni dibattito sulla democratizzazione.
P.S. All’alba del 4 ottobre 1993, durante una crisi costituzionale, questa volta fu Yeltsin a ordinare di bombardare la Casa Bianca, compito che venne effettuato da quella stessa divisione corrazzata Tamanskaja sui cui carri era salito due anni prima.
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