Tra il 1919 e il 1920, l’Italia fu pervasa da numerose lotte, proteste e manifestazioni di operai e contadini che rivendicavano lavoro, salari più alti, migliori condizioni di vita sociale, anche sulla scorta di quanto appena due anni prima era accaduto nell’ex impero zarista.
L’espressione “biennio rosso” fu coniata qualche anno dopo con accezione negativa, per distinguerla dalla sopraggiunta “nuova fase” politica cui purtroppo le lotte di quegli anni fecero da trampolino di lancio.
Le proteste ebbero il loro apice verso la fine del 1920, quando furono occupate le fabbriche dell’Italia settentrionale. Ma si raccontano anche episodi di insurrezioni militari, come la rivolta dei Bersaglieri che scoppiò ad Ancona e che, diffusasi in tutte le caserme del centro Italia, fu sedata dalla Marina che si appostò davanti la città pronta a bombardarla.
Ma i tumulti non scoppiarono solo nelle grandi città industriali, anche i piccoli centri agricoli furono coinvolti. Ad esempio quelli del veneto, terra di reduci combattenti e ferventi socialisti.
I 23 febbraio 1920 a Pieve di Soligo, all’epoca un piccolo centro contadino di appena seimila anime in provincia di Treviso, si radunarono quasi quattromila manifestanti per protestare contro la disoccupazione. Vi erano ciclisti, bandiere rosse, e la fanfara. La folla irruppe nel Municipio sfondandone la porta e devastandone i locali con bastoni e tridenti. Per disperdere quella moltitudine inferocita di persone intervennero le armi dei Carabinieri.
Alcuni di questi, e in particolare i sei protagonisti della nostra storia , fuggendo, si diressero scalmanati e violenti verso alcune botteghe e negozi di generi alimentari depredando quanto più si poteva (e nella specie: “scatole di generi alimentari, salami ed altri commestibili, nonché due damigiane di liquori da 25 o 30 litri“, di cui fecero pronto uso). Arrestati, furono immediatamente tradotti in carcere.
Il processo a carico dei sei manifestanti per furto, devastazione, porto abusivo d’armi, oltraggio a pubblico ufficiale e numerosi altri capi di imputazione si tenne davanti al Tribunale di Conegliano e si concluse in pochi giorni.
La sentenza è sorprendente.
Ovviamente nessuno fu assolto, ci mancherebbe, ma il Tribunale riconobbe una speciale infermità mentale agli imputati, attenuando quindi la pena.
E questo non perché fossero (come per la verità erano) completamente ubriachi, ma perché spinti dalla soverchiante invasione della folla, mossa “alla protesta della grave generale disoccupazione non ancora rimossa dalle provvidenze del Governo“. Secondo i giudici, infatti, nei tumulti popolari “i singoli partecipanti non agiscono da soli nè per motivi personali, ma mossi da un’unica passione“, e questa spinta si propaga in modo irrefrenabile da individuo a individuo con una spinta paragonabile a “un vizio morboso del cervello“.
A me viene in mente il celebre passo de “La psicologia della folla” del sociologo francese Le Bon:
“Dal solo fatto di essere parte di una folla, un uomo discende da generazioni su una scala di civiltà. Individualmente, potrebbe essere un uomo civilizzato; nella folla diviene “barbaro” in preda all’istinto. Possiede la spontaneità, la violenza, la ferocità, e l’entusiasmo e l’eroismo dei primitivi, tendente ad assomigliare dalla facilità con cui si lascia impressionare dalle parole e dalle immagini, che sarebbe del tutto priva di azione se messa in atto da ogni singolo individuo isolato, indotta a commettere atti contrari ai suoi interessi più ovvi e alle migliori abitudini. Un individuo nella folla è un granello di sabbia fra altri granelli di sabbia, mossi dalla volontà del vento“.
E da tifoso di curva ve lo posso sottoscrivere col sangue.
Il Tribunale : — 1° De Noni Antonio fu Girolamo, di anni 36 di Lago; 2° De Osti Antonio fu Antonio, di anni 25 di Valmareno; 3° Fava Pellegrino fu Andrea, di anni 18 di Lago; 4° Zardet Guglielmo fu Giovanni, di anni 18 di Revine; 5° Casagrande Giuseppe fu Isidoro, di anni 32 di Pieve di Soligo; 6° Fava Costante di Domenico, di anni 21, di Lago; 7° Casagrande Giovanni di Luigi, di anni 35 di Cison.
I primi 4 detenuti dal 23 febbraio 1920, il 5° dal 23 al 27 febbraio 1920.
Imputati:
– i primi tre: a) del reato di cui l’art. 404, nn. 4 e 9, cod. pen. per avere in unione tra di loro commesso con scasso furto di generi alimentari e danaro in danno di Venier Giuseppe ed Andrea e di Casagrande Maria per un valore complessivo di parecchie migliaia di lire; b) del delitto -di cui gli art. 63, 424, 425, 2a sanzione, cod. pen. per avere in unione di altre dieci persone danneggiate mercè scasso il Municipio di Pieve di Soligo ed i negozi di Venier e Casagrande;
– il 4°: a) del reato di cui l’art. 404, nn. 4 e 9, cod. pen. siccome contestato ai primi tre; b) del reato di cui agli art. 464, 470 coll’aggravante di cui l’art. 465 cod. pen. per essere stato sorpreso a portare un pugnale tra la folla dei dimostranti;
– il 5° del delitto di cui l’art. 194, n. 2, cod. pen. per aver offeso il carabiniere Palma Angelo in sua presenza ed a causa delle sue funzioni dicendogli “prima vi davo del lei ma ora vi sputo in faccia”;
– il 6° del reato di cui gli art. 63, 424, 425, 2a sanzione, cod. pen. siccome conte stato ai primi tre imputati ; 5° il 7° del reato di cui l’art. 19 legge di p. s. e 23 del relativo regolamento perchè trovato in possesso di un bastone ferrato che asportava senza giustificato motivo.
Nel 23 febbraio decórso in tutta la Vallata che da Follina va a Vittorio furono inscenate delle dimostrazioni per protestare contro la disoccupazione. Verso le ore quindici parte dei dimostranti e precisamente quelli di Valmareno Follina e Lago, preceduti a certa distanza di tempo da un gruppo di 50 ciclisti si recarono a Pieve di Soligo, per fare anche ivi una dimostrazione.
Il corteo ingrossatosi sempre più tanto da comprendere 3 o 4 mila persone preceduto da portatori di bandiere rosse e da fanfara si portò dinanzi al Municipio per invaderlo. Venne forzata la porta posteriore e la folla precipitatasi nei locali li devastò subito completamente tutto rompendo coi bastoni e coi tridenti
Data la violenza e l’enorme prevalenza della folla, i carabinieri fecero uso delle armi, e così i dimostranti si sbandarono; ma a fitti gruppi si indirizzarono scalmanati e violenti verso i vicini negozi di generi alimentari di Venier Giuseppe, Andrea ed Angelo e verso l’esercizio di osteria di Casagrande Maria.
Quivi penetrati, saccheggiarono tutto asportando scatole di generi alimentari salami ed altri commestibili, nonché due damigiane di liquori da 25 o 30 litri che trovarono nell’esercizio della Casagrande.
Presero inoltre il denaro che era nei banchi dei due locali, arrecando un danno di lire 7 o 8 mila alla Casagrande e di lire 5 mila ai fratelli Venier.
Intanto verso le ore 17 sopraggiungevano dei rinforzi e mentre i dimostranti facevano per diverse vie ritorno nei loro paesi furono arrestati dal tenente dei carabinieri Casagrande Edoardo. Venivano così arrestati gli odierni imputati di furto.
Che, accertate così le singole responsabilità, deve il Collegio, di fronte alla tesi prospettata dalla difesa per l’applicazione del disposto dell’art. 47 cod. pen., esaminare se sussistano elementi per i quali la responsabilità stessa debba considerarsi grandemente minorata per vizio parziale di mente, la cui diminuente non può certo invocarsi per i reati di porto di pugnale e di bastone ferrato e per l’oltraggio, i quali vennero commessi senza il concorso di quelle speciali circostanze in cui avvennero il furto e il danneggiamento.
Si osserva che è a dubitarsi, e comunque non venne affatto accertato, che i delitti di furto e di danneggiamento fossero premeditati e che i dimostranti si fossero recati a Pieve di Soligo con deliberato proposito di saccheggiare i magazzini ed asportarne le merci; mentre sembra che scopo iniziale della dimostrazione fosse quello di protestare contro la grave disoccupazione. Da ciò deriva la logica conseguenza che il reato di danneggiamento e specialmente di furto furono improvvisi e determinati da istantanea reciproca e simultanea suggestione tra i dimostranti.
Inoltre è rimasto accertato che gli odierni imputati, se non completamente ubriachi, erano certamente in condizioni non normali per soverchie libazioni fatte, per cui se non può dirsi applicabile senz’altro l’art. 47, è indubitato che tale speciale condizione debba influire sulla valutazione del grado di responsabilità. Devesi ancora aggiungere che la folla in quel giorno era molto eccitata; che si trattava di paese rimasto sotto la invasione e che i dimostranti erano mossi alla protesta dalla grave generale disoccupazione non ancora rimossa dalle provvidenze del Governo.
Per tale complesso di cose e per l’eccitamento che nei tumulti popolari (dove i singoli partecipanti non agiscono da soli nè per motivi personali, ma mossi da un’unica passione) va propagandosi da individuo a individuo, ritiene il tribunale che la responsabilità individuale nel caso in esame debba di molto attenuarsi e sia giuridicamente applicabile l’invocato disposto dell’art. 47 cod. penale
Nè può obbiettarsi che tale articolo si riferisca soltanto alta infermità di mente e cioè ad un processo morboso del cervello, ad un vizio patologico, poiché può in contrario osservarsi che, mentre è assai difficile, per non dire impossibile, dare una definizione scientificamente esatta della infermità mentale e cioè determinare con in discutibile precisione i confini tra lo stato normale della psiche ed il pervertimento o l’imperfezione della stessa, è verità di fatto che nel caso concreto i dimostranti per le generali Condizioni di ambiente, per quelle di semi ubriachezza e per l’eccitamento del momento non potevano essere in condizioni di mente normale, ma agivano in istato di parziale infermità di mente, la quale, pure essendo passeggera, diminuiva però la loro responsabilità.
Nè ancora può farsi ricorso ai lavori preparatori del codice penale che definiscono la infermità mentale come un vizio organico e patologico, poiché è insegnamento magistrale che tali lavori hanno un’importanza relativa nella interpretazione delle leggi, le quali, invece, vanno esaminate nella loro portata obbiettiva, nella loro obbiettiva potenzialità di applicazione. Ogni disposto di legge, dopo la promulgazione, si stacca dalla volontà individuale di chi lo preparò e lo formulò ed acquista una sfera obbiettiva ed indipendente di applicazione nella sua generica locuzione.
Ora se risponde ad una concezione scientificamente e giuridicamente esatta che nei tumulti popolari non sono le singole volontà che agiscono, sibbene la volontà unica e somma della folla per cui nasce un unissono psicologico che dà agli atti la tragica terribilità dell’irreparabile, deve il giudice, nell’applicazione della norma penale, esaminare quale disposto di legge sia il più adeguato e proporzionato alla natura specialissima del fatto. Se il legislatore non ha norme speciali per i delitti commessi dalla folla e cioè da un ente diverso dalle singole persone deve il giudice trovare quel disposto di legge che meglio risponda a tale situazione di fatto e tale disposto, per razionale concorso di dottrina e di giurisprudenza, è precisamente quello dell’art. 47 cod. pen., il quale nella sua generica dizione «infermità di mente» meglio si attaglia al caso in esame e meglio serve ad adeguare il fatto alla norma penale.
Per questi motivi, ecc. […]
(Il foro it. 45, II, 1920, 281)
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