Il ruolo “penale” dell’acqua è oggi ormai dimenticato e inutilizzato, ma non è stato sempre così. Nel corso dei secoli l’acqua – fonte di vita per eccellenza – è stata anche traghettatrice di morte e mezzo di tortura. Con la guida di Hans von Hentig, che ha ricostruito la storia di vari supplizi, vi presentiamo un excursus storico sull’annegamento dall’antica Roma alla Cina.
Nei primi anni del Novecento il tedesco Hans von Hentig (1887-1974) è stato uno dei padri fondatori della “vittimologia”, teoria che tentava di dare una spiegazione al crimine – e alle pene che esso comporta – ponendo l’accento sulle caratteristiche antropologiche, sociali e psicologiche che guidano le credenze, i costumi e l’agire umano.
Costretto a emigrare negli Stati Uniti nel 1935 perché nazional bolscevico, qui nel 1937 pubblicò l’opera Punishment: Its Origin, Purpose and Psychology, dedicato alla storia, antropologia e psicologia del punire. La rivista La giustizia penale nel 1938 ha tradotto in italiano la parte dedicata alle principali pene inferte nel corso della storia dalle diverse civiltà.
Un catalogo incredibile di supplizi, che abbiamo deciso di raccontarvi uno per uno.
Protagonista di questa prima puntata è l’annegamento.
La pena dell’annegamento fin dai tempi più antichi è stata utilizzata in territori ricchi d’acqua: di certo l’altopiano della Giudea praticava con fatica questo tipo di supplizio.
Nell’antico Egitto l’acqua, com’era per gli Ebrei, aveva un connotato fortemente simbolico e religioso. Pensiamo alla pratica dell’abluzione, ripresa in una certa forma anche dai musulmani: nientemeno che un bello e rilassante “bagno purificatore” (gli Egizi, data la scarsità d’acqua della regione, praticavano l’abluzione non per immersione ma per semplice aspersione di acqua benedetta). Anche il battesimo cristiano che mondava dal peccato originale era in origine una declinazione di questo antico rito. D’altro canto, ancora oggi tutte le culture attribuiscono all’acqua il valore di agente purificatore da ogni male.
È nel diritto romano che l’acqua assume un connotato “penale”. A Roma, nata su un fiume e luogo di venerazione di diverse fonti d’acqua (a cui erano legate le cosiddette Camene, divinità delle sorgenti), l’annegamento riscosse un discreto successo.
Era prescritto quando i mores – cioè i costumi, le consuetudini antiche di matrice rituale che regolavano la vita cittadina – venivano “contaminati”, e in tal caso, si invocava la procuratio, ovvero la purificazione per l’intera comunità.
La corruzione dei costumi accadeva per esempio quando le donne partorivano un monstrum (un neonato affetto da gravi deformazioni fisiche), considerato manifestazione dell’ira degli dei e che per questo doveva essere estirpato. Lo si faceva tramite annegamento, affinché la sciagura fosse neutralizzata dall’acqua purificatrice. La stessa identica pena veniva inflitta anche nei casi di aborto e parricidio. Chi si macchiava di quest’ultimo crimine non veniva solo annegato, ma prima inserito in un sacco insieme ad animali considerati ignobili, come serpenti, polli e cani (doveva essere un sacco grande, evidentemente).Un’immagine degna di nota ci viene offerta da un intreccio di fonti (Mommsen, Cicerone, Svetonio) a cui von Hentig attinge (e noi pure):
Prima si fustigava il condannato con corregge rosse; poi gli si avvolgeva il capo con un cappuccio di pelle di lupo (o con l’utero di una lupa) e ai suoi piedi si assicuravano pesanti zoccoli di legno; infine lo si cuciva in un sacco di pelle di porco, lo si portava sulla spiaggia del mare o sulla riva del fiume su un carro aggiogato a porci neri
e solamente alla fine di questo “rituale” il colpevole poteva essere gettato in acqua. Il parricidio, allo stesso modo del monstrum, era considerato un male che la comunità doveva estirpare per evitare che l’ira degli dei colpisse tutti gli altri componenti innocenti. Non a caso, sempre in contesto romano, Claudio fece gettare in mare i veleni di Caligola e che si tramanda fossero stati somministrati a Tiberio da Caligola.
Svetonio, a proposito di Caligola, ci parla anche di un’altra categoria sciagurata: le spintriae. Con questo termine si indicavano i pervertiti e gli effeminati (dal 1500 in poi indicherà una serie di tessere erotiche e una particolare categoria di gettoni romani usati per pagamenti all’interno degli “strip club”). Svetonio non si limita a dire che Caligola intendeva eliminare le spintriae, ma precisa anche come il principe intendesse inizialmente procedere all’eliminazione: la morte per annegamento, espressa attraverso la locuzione profundo mergere.
Anticamente si riteneva poi che nelle fonti d’acqua si annidassero forze spirituali o demoni che bramavano sacrifici. Questa credenza è riportata in diverse fonti: a partire dall’Iliade di Omero, dove leggiamo di offerte di cavalli, fino a Plutarco, che racconta un’analoga tradizione perpetuatesi fino alle popolazioni romano-barbariche. Franchi e Alemanni onoravano fiumi e mari, al punto che delle sacerdotesse consigliavano strategie di guerra in base all’ascolto delle acque. Ma ancora, nelle leggende tedesche si parlava addirittura di uno spirito malvagio che sottostava alle acque, avido e desideroso di vendetta. Per acquietare le volontà acquatiche, venivano fatti i sacrifici più disparati: galli neri, pane, frutta e abiti di bambini. Anche Goethe ballata del “Pescatore”, descrive poeticamente la superstizione popolare secondo cui vive negli abissi un essere «che fa ammalare di malinconia e brama le belle fanciulle e le fa guarire nelle sue braccia, quando esse si uccidono annegandosi».
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D’altronde, la figura della donna e la concezione dell’acqua vanno di pari passo. A questo proposito von Hentig è molto preciso: nell’Europa centrale e nel Nord l’annegamento era un supplizio destinato alle donne. Ma – aggiungiamo noi – anche a Roma, visto che, come si diceva, era la pena cui erano destinate coloro che abortivano. Da dove proviene questo connubio?
Da alcune fonti, pare che già nell’antica India le acque fossero ritenute delle madri: delle ottime madri, anzi, perché racchiudevano ogni rimedio e purificavano ogni male. In Germania, come si è già detto, le acque erano concepite come spiriti infernali, sempre di sesso femminile (guarda caso, i fiumi tedeschi assumono nomi femminili: Mosella, Elba…). Di conseguenza, infliggere alle donne la pena di annegamento (per esempio in casi di aborto) aveva il significato metafisico di riconsegnarle alla grande madre, che accoglieva le condannate nel suo seno, purificandole. Tanto che: «Fino a che questo concetto non si fu offuscato, l’annegamento non ebbe carattere di pena», prova ne è il fatto che se la condannata fosse arrivata a valle o a riva ancora viva sarebbe stata liberata (nella citazione, a mio avviso, von Hentig ripropone, in tutt’altro contesto, il concetto weberiano di de-magificazione e di disincantamento del mondo, utilizzati per contrassegnare il passaggio dal politeismo al monoteismo nell’Europa tardo medievale).
L’annegamento era insomma più che una pena un sacrificio necessario per scacciare spiriti maligni. Una credenza pagana che resiste e sopravvive all’avvento cristiano, con diverse declinazioni nel Medioevo: per esempio, in alcuni casi, il condannato veniva chiuso in botti di legno forate, legandogli mani e piedi insieme, gli si legavano al collo e ai piedi due vesciche di maiale e lo si buttava in acqua. Un’altra declinazione, in questo caso di sepoltura, era costituita da una barca forata senza albero, senza vele all’interno della quale giaceva il morto.
E oggi? Sentiamo ancora parlare di annegamento? Sì, ma non di certo in termini religiosi o mistici.
L’acqua, pur cambiando forma rispetto all’annegamento, è ancora protagonista di supplizi, ma è tornata in uso in tempi moderni come tortura per caratteristiche opposte a quelle per cui veniva usata in passato. Infatti, si è sperimentata una particolare efficacia dell’acqua per il fatto che può essere usata senza lasciare tracce visibili sul corpo della vittima. Una moderna della tortura dell’acqua prende il nome di “annegamento simulato” o – in gergo – “sottomarino” e consiste nell’immobilizzare un individuo e versare acqua sulla faccia facendola entrare nelle cavità respiratorie, provocando così l’effetto dell’annegamento.
Una tortura più ingegnosa e crudele, nonostante la sua spiccata semplicità, è la tortura della goccia cinese. È chiamata così perché il prigioniero veniva legato a una sedia (o comunque immobilizzato) e gli venivano fatte cadere sulla testa delle gocce di acqua fredda sempre e costantemente nello stesso punto (addirittura per settimane). Solitamente si faceva cadere la goccia sul capo o sulla nuca, perché sono punti molto sensibili che trasmettono velocemente le sensazioni al cervello; e per far questo la testa del malcapitato era tenuta ferma con ganasce o immobilizzata con macchinari.
Si pensava che, come succede nelle grotte o in fondo alle cascate in cui l’acqua erode la roccia, la goccia a lungo andare potesse danneggiare il cranio fino a formare un buco: in realtà non è così, per far ciò ci vorrebbero secoli con una singola goccia! D’altra parte non era di certo piacevole, infatti si trattava di una tortura devastante che portava alla pazzia e al decadimento psicofisico.
Non è facile immaginare quanto malvagia fosse, ma provate a immedesimarvi: una camera silenziosa in cui ci siete solo voi, bloccati e con una goccia che vi cade addosso ogni tot secondi: nessuno vi può sentire, non c’è speranza che l’acqua si fermi, né che qualcuno vi liberi (infatti questa tortura era applicata per far impazzire il prigioniero più che per ottenere informazioni). Venite abbandonati lì, nel buio completo, per giorni e giorni, perdendo ogni concezione del mondo e di voi stessi.
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