Certificati medici e visite fiscali non sono strumenti dei nostri tempi: anche quando l’Inquisizione decise di sottoporre Galileo a processo, il vicario che si recò a notificargli l’atto di citazione lo trovò malato a letto. Galileo inviò a Roma pure un certificato firmato da tre medici. Per il Pontefice non era abbastanza e dispose una “visita fiscale”.
Quando il 28 settembre 1632 il Sant’Uffizio decise di sottoporre Galileo Galilei a processo ed emise atto di citazione in tribunale, l’inquisitore di Firenze notificò allo scienziato di trovarsi a Roma per tutto il mese di ottobre. Il 1° ottobre Galileo rilasciò fede scritta di presentarsi: il documento porta anche la firma di quattro testimoni e del cancelliere del Sant’Uffizio fiorentino, una notifica (si direbbe oggi) con particolarissime garanzie.
Ma a Galileo di certo seccava recarsi a Roma: aveva quasi settant’anni, soffriva di diversi disturbi e gli piangeva il cuore a sottrarre tanto tempo ai suoi studi. Viveva allora in un villino a breve distanza dal convento delle clarisse di San Matteo ad Arcetri, sopra Firenze, dove risiedeva sua figlia Virginia, Suor Maria Celeste. Un amico di lui, tale Michelangelo Buonarroti, mandò una supplica a Roma per ottenere che la causa fosse esaminata a Firenze; e diceva, fra l’altro, che Galileo era “molto maninconoso [sic]” e che “molti gentilhuomini stanno in gran gelosia del disagio di questo virtuoso vecchio“.
Fu risposto in data 20 novembre con una diffida di recarsi subito a Roma. Galileo addusse in risposta la tarda età e la malattia; gli fu concesso un rinvio di un mese: al 9 di dicembre arrivò un’altra diffida.
Il vicario dell’inquisitore fiorentino, che si reca a notificarla, trova Galileo a letto e riferisce a Roma unendo anche un certificato firmato da tre medici: “Noi infrascritti medici facciamo fede d’haver visitato il sig. Galileo Galilei, e trovatolo col il polso intermittente a tre a quattro battute: dal che si coniectura la facultà vitale di essere impedita e debilitata assai, in questa età declinante. Riferisce il detto patire di vertigini frequenti, di melancolia hipocondriaca, debolezza di stomaco, vigilie, dolori vaganti per il corpo, sì come da altri può esser attestato. Così anco haviamo riconosciuto un’hernia carnosa grave, con allentatura del peritoneo; affetti tutti di considerazione, e che ogni piccola causa esterna potrebbero apportarli di pericolo evidente di vita“.
A Roma si inalberano e rispondono che il Pontefice e la Sacra Congregazione non possono né devono tollerare tali sotterfugi: “huiusmodi subterfugia”. Ordinano pertanto un controllo d’ufficio, o, come si sente qualche volta dire, una visita fiscale: si faccia visitare l’imputato da medici i quali facciano “vera e sincera relazione [“certam et sinceram relationen faciant”]. E se Galileo è nelle condizioni di partire sia trasportato o, come si dice oggi, tradotto “prigioniero e legato con i ferri [carceratum et ligatum cum ferris]“. E se davvero non può partire subito, si faccia partire appena può, sempre “carceratus et ligatus ac cum ferris”.
Il 20 gennaio 1633 Galileo parte da Firenze; ma prima, in trasparente latino notarile, fa testamento: “Poiché non c’è nulla di più certo della morte, e nulla di più incerto della sua ora, conviene che la mente e l’uomo prudente pensino sempre all’evento della morte… [Cum nil certius morte et nil incertius hora eius, animique prudentis hoc deceat, ut sempre mortis cogitetur eventus…]”.
E infatti, anche a prescindere dall’età, non era un viaggio da nulla, allora, quello da Firenze a Roma. Galileo lo compì in lettiga e, prima di entrare nello Stato Pontificio, dovette fare la quarantena, perché a Firenze c’era la peste.
Quel che successe all’arrivo è Storia.
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