Giungiamo al terzo appuntamento della serie sulla storia dei supplizi, dedicato questa volta alla macabra genealogia della pena di sepoltura dei vivi. Dove ha origine? In quali occasioni veniva usata? Lo vedremo in questo viaggio fra i secoli, dalle origini arcaiche religiose alle superstizioni popolari tedesche, sempre accompagnati dalla nostra guida di fiducia: il vittimologo Hans von Hentig.
Come abbiamo visto per l’annegamento e il rogo, anche nel caso della sepoltura la genesi e la “popolarità” di questa forma di supplizio sono legate sia al contesto geografico, sia alle consuetudini dei popoli, tra le quali la religione è sicuramente il fattore di maggior influenza.
Pensiamo a quei popoli che attribuivano una funzione sacra ad alcuni animali: essi consideravano «il supplizio dell’essere gettati alle belve» una degna forma di sepoltura, proprio perché si pensava che tali animali fossero «delegati dagli dei per l’accettazione delle vittime». Al contrario, presso i popoli che tendevano a non deificare gli animali, come per esempio i Greci, essere gettati in pasto ai pesci o ai cani era qualcosa di orrendo e spaventoso (mentre, viceversa, vista la loro predisposizione a deificare il fuoco, l’essere dati in pasto alle fiamme era più “gratificante”).
Per quanto riguarda l’influenza geografica, von Hentig prende in considerazione l’ipotesi formulata da Grimm, secondo cui popoli nomadi e guerrieri sarebbero «naturalmente» inclini alla sepoltura mediante cremazione e invece quelli che si dedicano alla coltura dei campi sarebbero portati all’inumazione, ovvero la sepoltura del cadavere sotto terra. Infatti, sostiene Grimm: «il cacciatore ed il soldato, considerano il sole, il fuoco e i monti in un modo completamente diverso dal contadino, per il quale ogni ricchezza sgorga dal seno del suolo e per la quale nel suolo, anno dopo anno, rivive l’inesauribile potenza creativa della vita». Per quanto quest’ultima argomentazione manchi di fondamento storico, dobbiamo dare ragione a Grimm quando sostiene che vi sono state evoluzioni cicliche delle forme di sepoltura in Europa: da una originaria preminenza dell’inumazione si passò alla cremazione; poi di nuovo si tornò a un predominio dell’inumazione con il cristianesimo e il maomettanesimo. Gli ebrei invece, hanno sempre utilizzato l’inumazione, per quanto ci sia stata – come abbiamo visto nello scorso capitolo – una predilezione per il fuoco nella forma più arcaica della loro religione. Gesù venne inumato e tutto l’Occidente cristiano assunse questo costume. Non a caso, per i cristiani la cremazione è sempre stata una pratica pagana considerata peccato verso il vero Dio. Ancora oggi la riluttanza della Chiesa nei confronti di questa pratica sussiste, ma come sottolinea Hans von Hentig, accogliendo l’ipotesi della ciclicità delle forme di sepoltura: «è lecito affermare che sembra giunto il momento per il nostro mondo oggettivo e disilluso di ritornare alla cremazione per motivi di indole igienica ed economica».
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Tra parentesi, è interessante come von Hentig sottolinei che la modernità è un mondo disilluso, cioè completamente secolarizzato. Non c’è più una religione che “dall’alto” influenza i nostri costumi («Dio è morto», affermava Nietzsche in quegli stessi anni), ma ogni trascendenza cede il posto a uno sguardo immanentistico: ormai sono i «motivi economici» che guidano il nostro costume, ovvero motivi fondati sulla bilancia costi-benefici.
Ma se finora von Hentig si è soffermato su una panoramica storica del costume della sepoltura dei morti, adesso finalmente veniamo “al bello”: il supplizio della sepoltura dei vivi. E per comprenderne l’origine e l’evoluzione – proprio come faremmo per qualsiasi altro aspetto della nostra cultura – partiamo dalla cosiddetta “culla d’Occidente”: la Grecia arcaica-omerica.
Nell’Iliade XIX (263-269), Omero invoca la dea della morte Gaia – dalla quale si credeva provenissero creature mostruose – in occasione di giuramenti particolarmente solenni: si pensi al giuramento di Agamennone quando restituisce Briseide ad Achille. Emblematico è però il giuramento tra Paride e Menelao, in cui tra gli altri elementi è invocata la divinità della terra, ovvero «la forza creatrice di ogni essere».
Per le stesse ragioni Tellus, la potenza divina che fa crescere la produttività dei campi, è invocata nei più antichi giuramenti romani. Uno stadio evolutivo successivo andrà a sostituire la potenza divina romana della terra con la divinità del focolare domestico, Vesta, simbolo della pacifica coltivazione dei campi. Il culto di Vesta era protetto dall’ordine sacerdotale femminile delle vestali, addette alla salvaguardia eterna del fuoco. Non a caso, se il fuoco si spegneva significava il preannuncio di sventure e la vestale che avrebbe dovuto impedire ciò veniva fustigata. E fin da epoche tarde, ci racconta Livio, «la Vestale, che per amore avesse violato il giuramento, era sepolta viva, in sacrifico alla divinità della terra».
Al di fuori del culto di Vesta, conosciamo solo un altro uso della pena della sepoltura dei vivi nel mondo romano, noto grazie a Tito Livio, in cui le vittime furono rinchiuse in una camera murata sotterranea. Racconta infatti Tito Livio: «Così quella camera murata sotto il mercato dei porci ricevette contro lo spirito della religione romana, vittime umane». Correva l’anno 216 a.C., un momento di sventura nazionale dopo la sconfitta a Canne: nello stesso anno furono accusate le vestali di immoralità, essendosi due di loro, Opimia e Floronia, «abbandonate ad amori vietati». Livio, a questo proposito, ci racconta che una fu sepolta sotto la porta Collina mentre l’altra si suicidò.
Le letture di Mommsen e Plutarco ricostruiscono la macabra procedura della suddetta cerimonia sacrificale: la colpevole era spogliata delle insegne sacerdotali e portata alla tomba su una bara. La tomba consisteva in un condotto sotterraneo che, normalmente chiuso, veniva aperto solamente per tali esecuzioni. Qui si preparava un giaciglio e si deponevano del pane e delle piccole anfore di acqua, latte e olio. A questo punto tra le preghiere del Pontefice Massimo e i compianti delle “colleghe”, la condannata discendeva nella tomba per una scala e su di lei veniva chiuso l’ingresso. E come se tutto ciò non bastasse: ogni onoranza funebre in onore della vittima era vietata.
Tacito, invece, ci riporta la prima citazione della sepoltura dei viventi fra i Germani, secondo cui il supplizio veniva impiegato per punire gli aborti, i vili e gli «invertiti» sessuali. Un’altra forma di esecuzione particolarmente frequente nei Germani è gettare l’individuo in una palude o in uno stagno, ma questa sembra presentare dei caratteri più affini al supplizio dell’annegamento piuttosto che alla forma della sepoltura. A ogni modo, entrambe le esecuzioni sono strettamente connesse l’una con l’altra, come mostra la cerimonia che precedeva la pena: si usava «gettare sul condannato un fastello di spine». La legge burgunda ci offre a questo proposito la notizia di un annegamento di un vivo in una palude. Il condannato veniva legato e calato all’interno di una buca entro la quale si gettava del fango. Come per l’annegamento, la sepoltura dei vivi era una pena destinata al sesso femminile.
Dal Medioevo in poi si diffuse la prassi di trapassare «con un palo appuntito di quercia» il ventre o il cuore del condannato in modo da immobilizzarlo. Non si tratta di un modo per alleviare la pena, tutt’altro: la cerimonia aveva il valore magico di esorcizzare il ritorno del morto (a prova di ciò venivano trafitti anche i morti). Lo stesso valore di esorcismo lo aveva la corona di spine, considerata come «un ostacolo simbolico che impedisse il ritorno del condannato nel mondo dei vivi». E lo stesso valore aveva la pietra che veniva legata al corpo defunto della donna condannata, prima della sepoltura.
Nonostante ciò, nel diritto medievale assistiamo alla graduale estinzione di questa forma di esecuzione. A prova di ciò abbiamo diverse testimonianze della seconda metà del 1400: nella città di Villingen non è ricordato nulla in modo particolare sulla pena, a Francoforte non c’è alcuna testimonianza di un solo caso di sepoltura di viventi, a Basilea si conosce un solo caso, a Norimberga addirittura il boia non volle seppellire viva una fanciulla condannata; di conseguenza si adottò per le donne la pena dell’annegamento.
Come abbiamo visto per la legge sacerdotale romana, in cui l’uccisione delle sacerdotesse di Vesta «rappresentava qualche cosa tra l’essere sepolti e l’essere murati vivi», anche in Germania troviamo notizie di supplizi eseguiti allo stesso modo. In particolare a Basilea la pena veniva applicata a nobili, le cui famiglie chiedevano questo tipo di pena rispetto alla pena di morte o al bando perpetuo dalla città. Si trattava di un privilegio di cui solo una certa élite poteva godere, in quanto evitavano l’ignominia dell’esecuzione pubblica. Per lo stesso motivo molte delle esecuzioni “nobili” venivano svolte di notte. Più in generale, coloro i quali godevano di rispetto pubblico (monaci, mogli di nobili o fanciulle di nobili) venivano murati vivi e la leggenda vuole che spesso i signori feudali murassero le loro figlie o le loro mogli adultere. Quando si muravano vivi i condannati, si usava lasciargli qualche provvista, in modo che egli morisse lentamente di asfissia, di freddo o di inedia.
Ma oltre alle pene criminali, la sepoltura dei viventi aveva un uso importante come offerta sacrificale, in particolare presso slavi e germani.
Nelle leggende tedesche si credeva che in ogni nuova costruzione (ponti, castelli e case) fosse dimora di forze maligne e che il primo individuo a valicare un ponte o a entrare in una casa sarebbe stato sacrificato per la sua audacia. Racconta von Hentig: «Ancora nel Medio Evo per la cerimonia della posa della prima pietra di castelli, muri di città, ponti, dighe di fiume, si muravano vivi dei bambini, ed a volte anche degli adulti, per assicurare alla fabbrica durata o fortuna». Spesso infatti demolendo queste strutture si ritrovano ossami sia racchiusi in bare sia incorporati nelle mura. Il Panzer, a questo proposito, ci racconta una leggenda della Baviera: quando si costruì il castello di Vestenberg, il capomastro preparò una nicchia nel muro, nella quale fu posto e murato un bambino. E siccome il bambino piangeva, per “tranquillizzarlo”, gli si diede una bella mela rossa (il bambino avrà sicuramente ringraziato)!
Oltre a umani venivano sacrificati anche altri esseri viventi, per esempio cuccioli che venivano sepolti vivi sotto la mangiatoia nelle stalle per conservare sani i cavalli, oppure buoi, cavalli, una gallina nera, ecc. Ma non solo, venivano anche seppelliti oggetti: le monete sepolte, per esempio, sono sacrifici allo spirito del suolo, «esattamente come le libazioni in acqua dalla prua di una nave sono un sacrificio allo spirito della profondità».
Tali pratiche appartengono a un comune patrimonio indo-germanico, per cui il sacrificio alla terra è propizio per la coltivazione.
Concludo riportandovi tutti i retaggi queste concezioni magico-superstiziose relative alla sepoltura ancora presenti all’epoca di von Hentig (e meno male che aveva definito il suo mondo «oggettivo e disilluso»). Per esempio, in Boemia, nella notte successiva al primo giorno di mietitura, i contadini si recavano sul campo in una grande processione, conducendo una fanciulla nuda e un gatto nero intorno al collo del quale era appesa una catena, poi scavavano una fossa profonda e vi seppellivano il gatto. Altrove, il gatto era sepolto sotto un albero nell’orto e nei campi in primavera perché lo spirito maligno non danneggiasse le piante. Prendevano poi origine da superstizioni volgari alcuni seppellimenti di parti del corpo come unghie e capelli come esorcismo al fine di scacciare malattie e dolori.
Qui la superstizione varca il limite della comprensibilità e dell’intelligibilità, sfociando nel misticismo. Nonostante ciò, vi ripropongo la provocatoria e raffinatissima domanda che Hans von Hentig pone alla fine della sua trattazione: «Ma appunto in questa fusione di illogicità e di straordinaria forza vitale, quanto differisce il diritto penale dalle altre superstizioni?».
Non sta forse insinuando il nostro vittimologo che il diritto penale ha, se non la stessa, di certo non più logicità della superstizione?
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