Il 15 novembre 1848 veniva assassinato Pellegrino Rossi. La domanda sorge spontanea: chi lo aveva ucciso? Ma soprattutto, chi aveva voluto la sua morte? Era stato il gesto di un iracondo, figlio del malcontento che serpeggiava in tutti i territori dello Stato, o vi era alle spalle una trama più articolata?
L’homme le plus spirituel de l’Italie, le génie le plus flexible de l’èpoque, l’esprit le plus pratique de l’univers, peut-être.
Potrebbero essere queste le parole migliori per iniziare per presentare il protagonista di questa storia: il conte Pellegrino Luigi Edoardo Rossi (1787-1848). Così lo descriveva nelle sue lettere Camillo Benso, conte di Cavour (1810-1861), quando, ancora giovane, lo aveva conosciuto a Parigi.
Albert de Broglie (1821-1901), presidente del Consiglio francese e noto liberale, affermò che sebbene nella sua carriera avesse avuto la fortuna di conoscere figure illustri come Guizot, Adolphe Thiers ed altri, Rossi fu il solo a lasciargli l’impressione di cosa potesse essere un grande uomo, la perfetta combinazione di volontà e intelligenza.
Avvocato, professore di diritto civile, penale e procedura penale presso l’Alma Mater, Pellegrino Rossi fuggì da Bologna dopo la caduta di Gioacchino Murat, avendo aderito al suo progetto antiaustriaco. Rifugiatosi a Ginevra, divenne il primo cattolico ad insegnare nell’omonima università (1819), venendo in seguito eletto nel Consiglio rappresentativo della città. Nel 1833 si trasferì a Parigi, accettando la cattedra di Economia politica al Collegio di Francia, e l’anno successivo, quella di Diritto costituzionale alla Sorbona. Sembrava essere il preludio di una vita tranquilla, trascorsa placidamente all’ombra della capitale francese.
Quello che Rossi non sapeva, era che il destino aveva giocato solo la metà delle sue carte, riservando – per quell’italiano poliedrico – un inaspettato ritorno nel suo paese natio. Nel 1845 era infatti in Italia, nominato dal re di Francia Luigi Filippo ambasciatore presso la Santa Sede. Quando la rivoluzione del 1848 privò il sovrano francese del trono, al Rossi vennero ritirate le credenziali, facendo maturare in lui l’idea di rimanere a Roma, diventando cittadino pontificio. Sarà qui che il giurista e diplomatico carrarese consumerà il suo ultimo incarico.
Il 16 settembre del 1848 la Gazzetta di Roma annunciava la formazione del nuovo ministero pontificio: Pellegrino Rossi veniva nominato ministro dell’interno e, ad interim, delle finanze. Il suo programma politico era chiaro: dare un volto nuovo allo Stato della Chiesa, con un’energia possibilmente superiore a quella profusa trent’anni prima dal Cardinal Consalvi, nella prima restaurazione. Partire dallo Statuto fondamentale concesso nel marzo dello stesso anno da Pio IX, per provare ad eliminare quell’anacronismo che faceva, di quello Stato, un unicum nell’Europa del XIX secolo. Per far questo era necessario ordinare il bilancio, riorganizzazione la giustizia, separare in modo netto l’amministrazione laica da quella ecclesiastica, stimolare la costruzione di ferrovie. Erano queste le speranze del neo ministro, destinate però, come vedremo, a rimanere tali.
È il 15 novembre del 1848. È passato un mese dalla nomina di Rossi. Poco prima delle 13,00, il ministro arriva nella piazza antistante il Palazzo della Cancelleria, per l’apertura dell’Assemblea dei deputati. In piazza c’è una gran folla: borghesi, nobili, artigiani, soldati reduci della battaglia di Vicenza, democratici. La carrozza deve rallentare. Il ministro scende. Molte sono le voci di malcontento che accompagnano il suo passo. Mentre sale le scale, una gran folla è a pochi passi da lui. Inutile la presenza del battaglione civico al comando del maggiore Antonio Villanuova-Castellacci; non avrà il tempo di intervenire. Mentre si accinge a salire il terzo gradino, Rossi viene colpito alla gola con un pugnale. Parrebbe un soldato, ma è impossibile, nell’immediato, capire chi sia stato. La confusione generata dalla folla è troppa, favorisce (forse volontariamente, forse no) il dileguarsi dell’omicida. Alcuni credono che il ministro sia stato colpito da un pugno, non si rendono conto dell’accaduto. Rossi barcolla, si piega e cade a terra. Per lui non c’è più nulla da fare.
La domanda sorge spontanea: chi lo aveva ucciso? ma soprattutto, chi aveva voluto la sua morte? Era stato il gesto di un iracondo, figlio del malcontento che serpeggiava in tutti i territori dello Stato, o vi era alle spalle una trama più articolata?
Andiamo per gradi. Le prime attività riguardanti l’individuazione dei colpevoli iniziarono la sera stessa dell’omicidio, con “l’atto di ricognizione”: è questa l’espressione utilizzata da Gustavo Brigante Colonna nel suo libro del 1938, dal titolo L’uccisione di Pellegrino Rossi. Una semplice analisi del cadavere, firmata dal medico-chirurgo fiscale dottor Antonio Bertini, dal giudice Pomponio Angelilli e dai testimoni sergenti Francesco Rinaldi e Cesare Pifferi, rispettivamente del I e II battaglione civico. Nella relazione veniva descritta la ferita mortale, che aveva reciso la carotide dello sventurato, oltre a una piccola piaga linfatica purulenta sul braccio destro, già medicata in precedenza. Quella stessa sera, il giudice Angelilli interrogò Giovanni Pinadiè del fu Francesco, domestico di Rossi, e Nicola Giuseppe Deck, cocchiere. I due non riuscirono a dare grandi informazioni: riferirono degli insulti rivolti al Rossi al suo arrivo presso la Cancelleria, della gran folla presente nella piazza, ma non seppero fornire elementi sull’omicida.

Tutto dovette arrestarsi quasi immediatamente, a causa del corso degli eventi: l’assalto al Quirinale del 16 novembre, la fuga del Papa a Gaeta, l’avvento della Repubblica Romana, l’atteggiamento poco collaborativo della polizia e le scarse informazioni, rappresentarono ostacoli insormontabili. La situazione si calmò definitivamente solo nel 1850, anno che vide il rientro a Roma di Pio IX.
In un certo senso le indagini erano già ripartite, essendo stata creata una commissione speciale incaricata di giudicare i reati politici commessi nella fase rivoluzionaria. Questa aveva nominato un nuovo giudice, Francesco Cecchini.
Iniziava a delinearsi trama fittissima, impossibile da riportare qui per intero, ma che può essere ricostruita nelle sue linee essenziali. Ma prima, è giusto rendere edotto il lettore circa un elemento non trascurabile. Infatti, come molti autori hanno sottolineato (ad esempio Gustavo Brigante Colonna a Giulio Andreotti), emerse fin da subito una certa ritrosia nel perseguire i colpevoli e gli eventuali mandanti dell’omicidio. Del resto, la fine del Rossi aveva lasciato inalterata la realtà di uno Stato già di per sé anacronistico, con probabile sollievo per gli esponenti più conservatori della Curia, intenti a conservare i loro privilegi. La sua morte aveva lasciato il campo a quella che sarebbe stata l’ultima, effimera, restaurazione pontificia. D’altra parte, anche i democratici e i più accesi rivoluzionari ne avevano tratto giovamento: si erano liberati di un politico che, essendo stato per tutta la vita un moderato, non incarnava di certo il loro candidato ideale e che non avrebbe mai sostenuto i loro propositi.
Ma non si poteva restare inermi dinanzi all’accaduto: bisognava mostrare a tutti che la macchina della giustizia avrebbe fatto, più o meno bene, il suo corso. Ma quali piste seguire? Emersero tre possibili direzioni.
La prima, quasi grottesca, portava verso uno studente di medicina, tale Giovanni Ceccarini, e a ipotetici studi compiuti sui cadaveri presso l’ospedale di San Giacomo. Sarebbero forse serviti allo studente per affinare la tecnica con cui colpire a morte il povero Rossi.
Più plausibile la pista che portava verso una congiura ordita nell’ambiente dei legionari, ossia i reduci della battaglia di Vicenza, che avevano deciso di continuare a fronteggiare le truppe austriache durante la prima guerra d’indipendenza (nonostante il ritiro ufficiale delle truppe pontificie da parte di Pio IX con l’allocuzione del 29 aprile 1848). Tale ipotesi, che fondava le proprie basi sul malcontento dei soldati tornati a Roma, rendeva assai rilevante la figura di Luigi Grandoni, tenente di compagnia durante la campagna del Veneto, presente in piazza il 15 novembre.
La terza strada ruotava invece intorno alla figura di Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio (che molti ricordano per il personaggio interpretato da Nino Manfredi nel film In nome del popolo sovrano), del figlio Luigi e di altri agitatori popolari molto conosciuti nella capitale. Frequenti erano state infatti le riunioni sediziose, che avevano visto la partecipazione dei Brunetti, padre e figlio.
A seguito della relazione presentata alla commissione speciale dal giudice Cecchini (26 novembre 1849), e degli arresti condotti per iniziativa della polizia, si arrivò alla formale inquisizione di 16 individui. La competenza per il giudizio spettava alla Sacra Consulta, ripristinata – dopo la fine dello Statuto del 1848 – come Tribunale supremo per i reati politici.
Il dibattimento si aprì il 24 marzo del 1854, mentre l’ultima udienza si tenne il 2 maggio dello stesso anno. Il grande lasso di tempo trascorso dall’omicidio, aveva consentito a molti – tra sospettati e presunti mandanti – di lasciare la città. La sentenza decretò l’esecuzione di Luigi Grandoni, di cui abbiamo già parlato, e di Sante Costantini, anch’egli reduce di Vicenza. Ruggero Colonnello e Bernardino Facciotti, equitatore ed ebanista, furono condannati al carcere perpetuo, come complici. Anni venti di reclusione per Francesco Costantini, fratello di Sante, l’ebanista Filippo Facciotti e il pescivendolo Innocenzo Zappacuori. L’orologiaio Gioacchino Selvaggi restò in carcere solo pochi mesi, mentre gli altri imputati vennero rimessi in libertà vigilata, qualcuno dopo aver scontato precedenti condanne. I loro nomi erano: Giuseppe Caravacci, Alessandro Testa, Paolo Papucci, Giuseppe Giovannelli, Cesare Diadei, Filippo Capanna, Giuseppe Fabiani e Filippo Bernasconi. Luigi Grandoni si impiccò in carcere il 30 giugno 1854 (restano dubbi sul suo suicidio), mentre Sante Costantini venne ghigliottinato il 22 luglio 1854.

Molti dei condannati alla pena detentiva non scontarono per intero la condanna, grazie all’arrivo dei piemontesi. Uomini di bassa estrazione sociale, molti già noti per precedenti reati, e che ben si prestavano ad un verdetto sì cercato, ma probabilmente raggiunto più per ragioni politiche che per desiderio di giustizia.
Non vennero perseguiti (perché contumaci o emigrati) personaggi che sicuramente ebbero un peso rilevante nell’omicidio del Rossi, sia per il contributo economico fornito ai sediziosi, sia per l’incitamento verso il riprovevole gesto: il conte Pietro Sterbini, che pochi giorni prima del 15 novembre aveva deriso il Rossi, etichettandolo come nemico dell’Italia; il conte Terenzio Mamiani (noto anticlericale) e il principe di Canino Carlo Luciano Bonaparte. Proprio quest’ultimo, nonostante la sua palese implicazione, era andato indenne da ogni accusa, grazie all’importante nome della sua casata.
Per altre erudizioni legali:
- Curiosità giuridiche da ogni tempo e luogo
- Adele Pertici: la prima notaia
- La clausola degli spettri e altre storie di fantasmi in tribunale
- 9 agosto 1883: Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Torino ammette Lidia Poët
- Il Codice di Hammurabi
- All’ombra della ghigliottina: l’esecuzione di Luigi XVI
Si chiudeva una vicenda che ancora oggi continua a interrogare gli storici. Difficile dire se sia stata resa giustizia al povero Rossi: un uomo che in fin dei conti non aveva mai avuto lo spirito del rivoluzionario e che, probabilmente, avrebbe meritato un po’ più di tempo per provare a realizzare i suoi progetti.
Una vicenda complicatissima (come dimostrano le circa 15700 pagine conservate nell’Archivio di Stato di Roma, riguardanti il processo), che scontava inoltre il peso di essere avvenuta in un biennio travagliato per la storia dell’intera penisola. È possibile che tra i condannati ci fossero i veri responsabili, o almeno una parte di essi, ma il dubbio che in molti l’abbiano fatta franca rimane. I Brunetti avevano lasciato Roma per unirsi a Garibaldi, finendo fucilati dagli austriaci. Altri autori, come il Giovagnoli, si discostano dalle decisioni dei giudici, ritenendo estraneo ai fatti Luigi Grandoni, e non individuano in Sante Costantini la mano omicida (così la pensa anche Brigante Colonna, che vede come probabile esecutore Luigi Brunetti). A più di 170 anni dal delitto, il caso di Pellegrino Rossi rimane ancora, in parte, aperto.
© Riproduzione Riservata

12 coppie di celebri giuristi x 12 mesi, raccontati attraverso 24 aneddoti curiosi
versione da parete / versione da tavolo