I reati in materia di violenza sessuale durante il corso delle varie normazioni seguono pedissequamente, magari con un po’ di ritardo, l’evoluzione della società e dei costumi.
Guardando il diritto romano, questo prevedeva due differenti reati, lo stuprum e lo stuprum violento. Ciò non deve trarre in inganno: il primo non coincideva con il nostro reato di violenza sessuale, solamente il secondo poteva essere riconducibile alla nostra fattispecie odierna. La prima figura, invece, lo stuprum “semplice”, consisteva nell’intrattenere rapporti sessuali al di fuori delle giuste nozze con persona consenziente che ricopriva una stimata condizione sociale
Comprendo che partire dai romani possa voler dire partire da troppo lontano, dunque accorciamo arrivando subito alla legislazione dell’Italia unita. Il Codice Penale Zanardelli promulgato nel 1889 prevedeva una formulazione simile a quella del successivo Codice Rocco, ma con una peculiarità: se i reati di natura sessuale erano commessi contro pubblica meretrice, la pena era ridotta da un terzo alla metà.

Venendo quindi alla formulazione del Codice Rocco va subito ricordato che il reato di violenza sessuale, oggi previsto all’articolo 609 bis e seguenti, all’epoca della promulgazione (1930) era formulato in modo nettamente diverso.
Fino all’entrata in vigore della legge n. 66 del 1996, il Codice Penale prevedeva due diverse figure di reato previste agli articoli 519 e 521.
La prima era rubricata dal codice col nome di violenza carnale, la seconda atti di libidine violenti, contenuti nel titolo “Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”.
La differenza tra le due fattispecie poteva destare non pochi problemi nel valutare sui casi concreti.
Il più illustre rappresentante della dottrina, Vincenzo Manzini, scriveva che per violenza carnale si intendeva:
“ogni fatto per il quale l’organo genitale di una delle persone venga introdotto, totalmente o parzialmente, nel corpo dell’altra per via normale o anormale, così da rendere possibile il coito o un equivalente abnorme di esso”.
Potrà generare stupore e forse arrossamenti agli attenti osservatori contemporanei, ma in dottrina si riscontravano diversi orientamenti circa la sussistenza della violenza carnale in circostanze, per così dire, non corrispondenti necessariamente all’atto di procreazione. Vale la pena ricordare un altro noto rappresentante della dottrina, Francesco Antolisei, il quale sosteneva che non costituissero violenza carnale i rapporti sessuali diversi da quelli che avrebbero potuto portare alla procreazione.
In tutti gli altri casi in cui l’atto compiuto non rientrava in un rapporto sessuale, andava a configurarsi il reato di atti di libidine con violenza, definito “residuale”.

Cosa implicava ciò?
Tutti quegli atti a sfondo sessuale diversi dalla congiunzione carnale, definiti in dottrina “sfogo di appetito di lussuria” (sempre Antolisei), mentre la Suprema Corte di Cassazione circoscriveva affermando che “atto di libidine è non solo quello che soddisfa, ma anche quello che eccita la brama sessuale” (sentenza n. 659 del 21 ottobre 1965), comportavano una pena ridotta di un terzo.
Le conseguenze di tali labili distinzioni è evidente: come si comportavano i Tribunali nel dover classificare un fatto quale violenza carnale o atto di libidine, tenendo a mente che la differenza di pena era assai rilevante?
Se infatti il solo toccamento di zone erogene era ricondotto agli atti di libidine, erano innumerevoli i casi in cui diventava necessaria una dettagliata ricostruzione di quanto fosse accaduto.
Significava quindi dover ricostruire nell’aula di giustizia con sufficiente esattezza le dinamiche dei fatti, verificare se vi era stato un rapporto, e anche quale tipo di rapporto.
E la conseguenza era ovvia.
Le vittime del reato, per lo più donne o giovani donne, si trovavano a dover essere interrogate (spesso in udienza aperta al pubblico) sull’esatta dinamica di quanto da loro subìto. Le conseguenze psicologiche erano pesanti.
Non può essere trascurato in questa succinta ricostruzione quello che era clima in cui si celebravano quei processi, dove sovente capitava che la vittima appariva come la causa scatenante dei fatti, e dunque la vera colpevole dell’intera vicenda.
Per fornire un esempio chiaro di quanto scritto, si può fare riferimento al noto film documentario “Processo per stupro” del 1979 (con la compianta Avv. Tina Lagostena Bassi quale difensore della vittima costituita parte civile), qua in link.

Nelle arringhe dei difensori degli imputati vengono proferite accuse contro la ragazza violentata e a tutte le donne considerate troppo libere:
“Voi portavate la veste, perché avete voluto mettere i pantaloni? Avete cominciato con il dire «Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito il mio fidanzato mio cugino mio fratello mio nonno mio bisnonno vanno in giro?» Vi siete messe voi in questa situazione. E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente”.
La stessa Lagostena Bassi fu, quale deputata nella legislatura 1994-1996 tra le artefici della riforma dei reati di violenza sessuale, che tra le varie ragioni, doveva riconoscere il diritto della libertà sessuale, con superamento della distinzione tra rapporto carnale violento e atti di libidine. Per questo nella riforma del 1996 si arrivò alla dizione unificante di “Violenza Sessuale”.
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Bibliografia:
F. Bricola E V. Zagrebelsky – Diritto penale, PARTE SPECIALE, Ed. Utet 1984
Piergallini, Viganò, Vizzardi, Verri – Trattato di diritto penale, parte speciale Volume X, ed. Cedam 2015.
Tina lagostena Bassi, Germana Monteverdi – Una vita speciale, ed. Piemme 2008.