La vita
Pellegrino Luigi Edoardo Rossi nasce a Carrara, nei Ducati estensi, il 3 luglio 1787. Nel 1820 lo ritroviamo cittadino del cantone di Ginevra, nel 1834 diventa suddito francese, il 15 novembre 1848 viene assassinato a Roma (ci abbiamo scritto una erudizione legale) mentre ricopre la carica di ministro del governo costituzionale del papa. Dentro queste coordinate europee si snodano le ῾vite᾿ di un italiano che ha saputo essere uno studioso polivalente e poligrafo, giurista di vaglia, economista, uomo politico, parlamentare e ministro, diplomatico.
Proveniente da una famiglia di proprietari terrieri, studia dapprima al Collegio civico di Correggio, intraprende successivamente gli studi giuridici a Pisa (1803-04) e si laurea a Bologna (1806) dove, dal 1811, esercita l’avvocatura con ottimi risultati. Insegna istituzioni civili presso il liceo S. Lucia, poi tra il 1814 e l’aprile 1815 è professore di procedura civile e diritto e procedura penale nell’Alma Mater. Il 3 aprile 1815 viene nominato dal re di Napoli Gioacchino Murat commissario generale civile per il Dipartimento del Reno, Rubicone, Basso Po e Pineta.
L’esito sfortunato della campagna murattiana spingerà Rossi prima a Napoli e poi verso la Francia meridionale e, infine, a Ginevra. La scelta di stabilirsi nella città-Stato non è casuale, poiché il giovane avvocato aveva già stretto relazioni con alcune famiglie ginevrine, dopo una visita compiuta nel 1813. Nel luglio del 1815 diffonde a Ginevra un’Autodifesa nella quale ricostruisce le fasi del suo coinvolgimento nell’impresa dell’ex generale napoleonico, volendo mostrare la sua assoluta buona fede e il carattere moderato delle sue idee politiche.
A Ginevra Rossi non tarda a farsi apprezzare per il suo talento. Primo professore cattolico nell’Accademia di Calvino (1819), nel 1820 diventa citoyen e sposa Jeanne-Charlotte Melly. I suoi corsi universitari suscitano ammirazione e della sua oratoria efficace e lucida potrà ben presto dare saggio come deputato nel Consiglio rappresentativo della città. Diventa così una figura di primo piano della cultura giuridica e politica ginevrina. Incaricato di una missione diplomatica a Parigi, lascia infine Ginevra e la Svizzera nel 1833 per andare a risiedere nella capitale francese dove, nel frattempo, è stato chiamato al Collège de France per ricoprire la cattedra di economia politica.
Sin dal periodo ginevrino Rossi ha modo di frequentare i ‘dottrinari’ francesi, da Guizot (1787-1874) a Victor de Broglie (1785-1870): il suo arrivo in Francia è legato essenzialmente al loro progetto ‘politico’. Altri onori seguiranno: primo titolare della cattedra di diritto costituzionale alla Sorbona (1834), membro dell’Institut (1836, succede a un grande ‘sopravvissuto’, Emmanuel-Joseph Sieyès), naturalizzato nel 1838, conte e pari di Francia (1839), consulente diplomatico, infine ambasciatore a Roma presso la Santa Sede (1845-1848). Dopo la Rivoluzione del 1848, destituito dal nuovo governo, ritorna ῾italiano᾿, suddito di Pio IX. Eletto deputato a Carrara, rifiuta il seggio per diventare nello Stato pontificio, dal 15 settembre, ministro dell’Interno con l’interim alle Finanze nel governo presieduto dal cardinale Giovanni Soglia. Rossi viene assassinato a Roma il 15 novembre 1848, mentre si accinge ad aprire la sessione parlamentare.
Per una scienza del diritto penale
Sarà il suo Traité de droit pénal a conquistargli una fama europea. Ancora una volta è da notare il legame con la cattedra. Se Rossi è, a ben vedere, il penalista di un solo libro, è anche vero che si tratta di un libro tra i più letti e meditati della penalistica ottocentesca, quale che sia il giudizio datone.
Che cosa ne fa, dunque, un point de repère? Sono molti i profili da considerare. Anzitutto la dimensione ‘civile’ del penale utile a fondare una teoria del governo. Questo ‘tipo’ di penalista ha una formazione complessa e sviluppa una scienza giuridica integrata capace di cogliere i rapporti tra le istituzioni politiche, il sistema punitivo e la società. Nella prefazione al Trattato, Rossi ricorda come nel mezzo dell’Europa più civilizzata esistono Stati che applicano ancora la tortura e difendono a spada tratta la procedura segreta. Bisogna allora estendere il grado di civilisation di cui, benché ancora insufficiente, si deve comunque essere fieri.
La dimensione teoretica può suscitare diffidenza, ma non si possono ignorare i principi generali se si vuole costruire una scienza. Il Trattato presenta una struttura sobria, netta: dopo l’introduzione sul sistema penale, il primo libro ne analizza le basi, ovvero il diritto di punire, il secondo tratta del delitto, il terzo il problema della pena in generale, il quarto e ultimo la legge penale. Ritroviamo la sua vocazione naturale alla mediazione scientifica, in grado di considerare, discutere e ῾personalizzare᾿ un fronte variegato di proposte: il progetto beccariano, l’utilitarismo benthamiano, la filosofia kantiana, lo storicismo savignyano. Rossi non può non subire la ῾pressione᾿ della scuola di Bentham così ben rappresentata nella Ginevra dei liberali anglofili. Non può non sentirsi la presenza culturale e politica di Dumont traduttore e massimo divulgatore di Bentham in Europa.
Egli fonda quindi un’articolata politica criminale intesa come scienza e come arte volta a incivilire il penale e con esso la società. La codificazione del ῾tutto᾿ è rischiosa, è sinonimo di rigidità, ed è pertanto preferibile la via delle leggi parziali, successive e integrate. La sua idea dei principi lascia al giudice uno spazio che gli illuministi e i rivoluzionari avevano inteso ridurre fortemente. Il legislatore, a sua volta, deve essere guidato dalle scienze ausiliarie, dalla storia, dalle statistiche giudiziarie.
Rossi in Francia: il diritto costituzionale e la politica
Ancora una volta le opere di Rossi sono strettamente legate alla cattedra. Ciò vale tanto per il Cours d’économie politique che per il Cours de droit constitutionnel. Rossi, già durante gli anni Venti, aveva affrontanto il problema del metodo e della funzione del diritto pubblico, con specifico riferimento al dato costituzionale. D’altra parte, non bisogna neppure dimenticare che il ῾diritto costituzionale᾿ nei primi anni Trenta dell’Ottocento compie i suoi primi passi; si tenta di ricollocare i principi ῾forti᾿ del diritto pubblico postrivoluzionario nell’alveo della cultura e della prassi del liberalismo politico.
Rossi non solo è il primo a insegnare nella capitale francese il diritto costituzionale, ma è soprattutto tra i primi a dover elaborare e sistemare un insieme eterogeneo di materiali, di fonti, di principi. Storia, filosofia, diritto positivo e pensiero politico si intrecciano fra di loro, non sempre integrandosi armonicamente, ma rivelando tuttavia ancora una volta la particolare accentuazione politica e sociale che l’autore assegna a un diritto in via di consolidamento e concepito lato sensu come ambito istituzionale del diritto pubblico interno diretto a regolare l’organizzazione complessiva dello Stato e delle sue articolazioni.
D’altra parte, è sufficiente andare oltre lo schermo ῾dottrinario᾿ che definisce i confini del corso, per ritrovare un’autonomia e una nettezza di giudizio cui l’ipoteca ideologica non fa certo velo. Le lezioni che delineano l’organizzazione del potere politico, nel quadro di una monarchia rappresentativa, non si limitano certo a un mero tratteggio esegetico della Charte: le pagine sulle prerogative dei deputati, sul bicameralismo, sugli istituti parlamentari, sull’autonomia e sull’indipendenza della magistratura rivelano giudizi e idee che si collegano alle più importanti tradizioni del liberalismo politico. I diversi profili storici e comparativi, con continui riferimenti all’Inghilterra, agli Stati Uniti e alla Svizzera, rivelano una rara capacità di costruzione razionale e un vasto respiro culturale. Metodo storico e metodo razionale-sistematico si completano e si integrano a vicenda per ricercare, alla fine, il senso complessivo di un’esperienza: «Saisir les principes, leur portée et leurs points d’intersection avec exactitude, c’est là le secret, c’est la science en toutes choses» (P. Rossi, Cours de droit constitutionnel, 2° vol., 1867, p. 7).
Prendendo in considerazione la teoria del potere neutro di Benjamin Constant, Rossi rivela la piena consapevolezza del ruolo complesso e fondamentale della corona nella logica della monarchia costituzionale. Il potere regio, garante dell’intersezione tra eguaglianza civile e unità nazionale, non essendo estraneo ad alcuno dei tre poteri dello Stato è lo strumento indispensabile per dare equilibrio e unità al sistema politico. Rossi mostra qui di aver ben compreso la lezione di Constant sull’equilibrio dei poteri, ovvero sul problema teorico e pratico più importante nella riflessione costituzionalistica lungo tutto l’Ottocento. I poteri, indipendenti, distinti, non vivono né agiscono isolatamente, ma sono tenuti insieme dal monarca che modera e conserva, garantendo un’azione e un controllo reciproco.
Nel 1838 il giovane Cavour, frequentatore della capitale francese, aveva visto in Rossi un grande italiano che avrebbe potuto giocare un ruolo immenso nei destini del suo Paese natale. Invece, «L’homme le plus spirituel de l’Italie, le génie le plus flexible de l’époque, l’esprit le plus pratique de l’univers, peut-être» (Lettere edite e inedite di Camillo Cavour, raccolte e illustrate da L. Chiala, 1° vol., 1883, p. 14) aveva privilegiato le proprie ambizioni. Quel ruolo appartenne, come sappiamo, a Cavour e non a Rossi. Il giurista italiano salì con coraggio le scale del Palazzo della Cancelleria apostolica andando incontro alla morte per mano dei radicali romani, nell’impresa disperata di ῾costituzionalizzare᾿ lo Stato del papa-re.