Abbiamo riepilogato tutte le corse al Colle e tutti gli ultimi messaggi di fine anno dei Presidenti della Repubblica. Ora che ci aspetta un discorso per un Mattarella bis, potevamo farci mancare i discorsi con cui, sin dalla creazione della Repubblica, tutti i Capi dello Stato hanno giurato di fronte al Parlamento in seduta comune? Ecco cosa hanno detto nei loro messaggi, lasciando trasparire la situazione politica del tempo e i problemi che a loro giudizio più affliggevano l’Italia.
Enrico De Nicola (15 luglio 1946)
Per evitare una transizione traumatica dalla monarchia alla repubblica, le forze politiche si accordarono sul nome di Enrico De Nicola, liberale monarchico napoletano. Il Capo Provvisorio dello Stato, poi primo Presidente della Repubblica, non pronunciò il suo messaggio di insediamento di fronte all’Assemblea Costituente, ma lo inviò al suo Presidente Giuseppe Saragat per la lettura. Il clima è quello dell’immediato dopoguerra: si chiamano all’opera di ricostruzione tutti i partiti, che d’altronde erano stati un fronte unito durante la Resistenza. Non sono nemmeno esclusi “coloro i quali si siano purificati da fatali errori e da antiche colpe“. Ecco le sue parole:
«Per l’Italia si inizia un nuovo periodo storico di decisiva importanza. All’opera immane di ricostruzione politica e sociale dovranno concorrere, con spirito di disciplina e abnegazione, tutte le energie vive della Nazione, non esclusi coloro i quali si siano purificati da fatali errori e da antiche colpe.
Dobbiamo avere la coscienza dell’unica forza di cui disponiamo: della nostra infrangibile unione. Con essa potremo superare le gigantesche difficoltà che s’ergono dinnanzi a noi; senza di essa precipiteremo nell’abisso per non risollevarci mai più.
I partiti – che sono la necessaria condizione di vita dei governi parlamentari – dovranno procedere, nelle lotte per il fine comune del pubblico bene, secondo il monito di un grande stratega: marciare divisi per combattere uniti».

Luigi Einaudi (12 maggio 1948)
Dopo un liberale monarchico napoletano, segue un liberale monarchico piemontese. Nel suo discorso avverte che comunque, pur avendo votato per la monarchia al referendum istituzionale, sarà un buon Capo dello Stato repubblicano: la prova è nella sua condotta nei dibattiti della Costituente.
«Il suffragio universale parve ed ancor pare a molti incompatibile con la libertà e con la democrazia. La Costituzione che l’Italia si è ora data è una sfida a questa visione pessimistica dell’avvenire. Essa afferma due principi solenni: conservare della struttura sociale presente tutto ciò e soltanto ciò che è garanzia della libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello Stato e la prepotenza privata; e garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza. A quest’opera sublime di elevazione umana noi tutti, Parlamento, Governo e Presidente, siamo chiamati a collaborare».

Giovanni Gronchi (11 maggio 1955)
Gronchi viene eletto mentre l’Italia non è ancora partita col boom: il messaggio non è così ottimistico come il suo ultimo di fine anno inviato alla nazione. Il Presidente però aveva il pallino per la diplomazia internazionale (scavallò anche il governo sui modi di riunire la Germania finendo pure per essere deriso da Chruščëv) e apparteneva alla sinistra DC: cose che si vedono anche nel suo messaggio di giuramento.
«La nuova fase della nostra vita nazionale coincide con un corso dei rapporti internazionali che accenna a nuovi orientamenti. Proprio in questi giorni i tre maggiori governi occidentali, accogliendo una aspirazione che in Italia veniva da ogni ceto ed ebbe anche la sanzione di un voto parlamentare, si accingono a predisporre una conferenza a quattro nella quale si può ormai prevedere che saranno esaminati tutti i problemi che dividono in Europa l’Occidente dall’Oriente, e nel mondo milioni di uomini in opposte trincee. L’Italia ha voluto e vuole la pace, la pace nel rispetto reciproco della libertà e dell’indipendenza, nella sola preoccupazione di realizzare la più sicura difesa delle proprie tradizioni e dei propri istituti. Perciò da tutti i patti che sono stati sottoscritti coll’espresso consenso del Parlamento, ed ai quali il popolo italiano intende lealmente tenere fede, non può che esulare qualsiasi anche dissimulato intento di aggressione. Io so di interpretare il pensiero di tutti gli italiani qui e fuori di qui augurandomi che questi sforzi di riavvicinamento per una pacifica convivenza raggiungano con la buona volontà di tutti (dico di tutti, poiché la buona volontà di tutti è indispensabile) il miglior successo, sicché da intese limitate e specifiche si possa gradualmente passare ad accordi più vasti che con un progressivo controllato disarmo rendano meno lontana meno difficile la pace, che è la condizione di prosperità per tutti».

Antonio Segni (11 maggio 1962)
In Italia si inaugura la formula di governo dell’alleanza fra DC e PSI. Per compensare dunque si va a eleggere un presidente della destra DC che fosse europeista e atlantista.
«L’Italia ha dato e, a mio avviso, continuerà a dare la sua efficace opera al proseguimento di una unità europea effettiva, sviluppando i germi essenziali di una comunità politica che sono contenuti nei trattati di Roma.
Questa unità fondamentale dell’Europa fu intuizione ed aspirazione di uno dei più grandi spiriti del nostro Risorgimento, Giuseppe Mazzini; in tempi più recenti dettero inizio a tradurla in realtà due grandi scomparsi, Alcide De Gasperi e Carlo Sforza. A queste grandi figure di italiani e di europei vanno il mio commosso ricordo e il mio reverente omaggio».

Giuseppe Saragat (29 dicembre 1964)
Giuseppe Saragat, già Presidente dell’Assemblea Costituente e segretario del partito socialdemocratico (che si scisse dal partito socialista per la sua posizione atlantista), viene eletto alla massima magistratura. Nel suo discorso si trovano gli echi della paura di una guerra atomica fra Stati Uniti e Unione Sovietica.
«La tecnica ha reso possibile la costruzione di armi mostruose che, se impiegate, farebbero scomparire ogni traccia di vita dal nostro pianeta. La difesa della pace è quindi il primo dovere dei legislatori, degli uomini di governo e dei Capi di Stato. Ma la pace si persegue creando con tenacia e con pazienza le condizioni che la renderanno inviolabile.
La pace, che oggi è garantita dall’equilibrio delle forze – equilibrio a cui l’Italia contribuisce partecipando all’alleanza difensiva atlantica con le grandi Democrazie – deve diventare con il disarmo progressivo, simultaneo e controllato. La via che porta al disarmo è quella della distensione internazionale, del colloquio tra governi che rappresentano sistemi politici, economici e sociali diversi, è la via della comprensione e della tolleranza.
Anche la costruzione – a cui l’Italia partecipa – di una Europa democratica economicamente e politicamente integrata è un potente fattore di pace».

Giovanni Leone (29 dicembre 1971)
Giovanni Leone venne eletto al ventitreesimo scrutinio: il record. Fu preferito al ventunesimo ad Aldo Moro. I titoli comunque li aveva: grande giurista, ex presidente della Camera dei Deputati, due volte Presidente del Consiglio. Ma venne scelto come capo dello Stato per la stessa ragione per cui era stato selezionato a quelle cariche: non era mai appartenuto a nessuna corrente della DC e si posizionava al centro.
Il suo discorso riflette sia l’iniziare del periodo della contestazione che quello stragismo, senza raggiungere la cupa drammaticità del suo ultimo messaggio di fine anno del 31 dicembre 1977.
«È alla Carta fondamentale della Repubblica che il Presidente, come le altre istituzioni, chiederà la risposta ai gravi interrogativi, alle diffuse preoccupazioni e incertezze che si colgono nella società italiana.
È per questo dovere e sentimento di ritrovarci tutti nella Costituzione che le tensioni sociali, le diverse impostazioni dei problemi economici, politici e culturali in un momento così complesso devono trovare per volontà generale, per spontanea convinzione soprattutto dei cittadini e dei responsabili dell’orientamento di ceti e di masse, un’espressione civile e democratica; sì che le misure adottate dal Parlamento e dal Governo – ciascuno nella sfera di proprie attribuzioni e tuttavia in un quadro di collaborazione organica – corrisponda quel clima di fiducia che nasce dalla pace sociale. La pace sociale non significa rinuncia alle legittime aspirazioni e ai modi anche solleciti di farle valere; significa rinuncia al metodo della violenza e della intolleranza. Soltanto l’ordinamento democratico può garantire il conseguimento di un risultato positivo.
Questo non vuol essere un invito a un rassegnato fatalismo. Occorre, invece, avere l’anima pronta ad intendere tutti i fermenti di giuste rivendicazioni ed inquietudini, considerando che i mezzi e gli strumenti predisposti dalla Costituzione non sono limiti od ostacoli al loro soddisfacimento: sono le strade maestre per la loro realizzazione stabile ed effettiva».

Sandro Pertini (9 luglio 1978)
Il messaggio di Sandro Pertini tocca tantissimi argomenti, in particolare il disarmo nucleare e la crudeltà della disoccupazione, ma spicca l’elogio a Aldo Moro assassinato esattamente due mesi prima.
«Ed alla nostra mente si presenta la dolorosa immagine di un amico a noi tanto caro, di un uomo onesto, di un politico dal forte ingegno e dalla vasta cultura: Aldo Moro. Quale vuoto ha lasciato nel suo partito e in questa Assemblea! Se non fosse stato crudelmente assassinato, lui, non io, parlerebbe oggi da questo seggio a voi.
Ci conforta la constatazione che il popolo italiano ha saputo prontamente reagire con compostezza democratica, ma anche con ferma decisione, a questi criminali atti di violenza. Ne prendano atto gli stranieri, spesso non giusti nel giudicare il popolo italiano. Quale altro popolo saprebbe rispondere e resistere ad una bufera di violenza quale quella scatenatasi sul nostro paese come ha saputo e sa rispondere il popolo italiano?».

Francesco Cossiga (3 luglio 1985)
Eletto al primo scrutinio, Cossiga rimane il Presidente della Repubblica più giovane di sempre (57 anni). Il suo messaggio, però, che è anche il più lungo di sempre (oltre 40 minuti), non spicca per nessuna dote particolare.
«Dobbiamo ricordare che il cittadino entra il contatto con lo Stato attraverso la pubblica amministrazione, e spesso questo contatto è deludente e frustrante. Ogni sforzo deve essere fatto perché la pubblica amministrazione operi con efficienza, tempestività e doverosa imparzialità, così come vuole la Costituzione. Non è pensabile infatti che una democrazia industriale moderna e avanzata possa agire e progredire con una pubblica amministrazione non efficiente e non ordinata».

Oscar Luigi Scalfaro (28 maggio 1992)
Dopo la strage di Capaci la rosa dei canditati al Quirinale si restrinse ai nomi istituzionali e così venne scelto Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della Camera. Contemporaneamente, però, tirava l’aria di Tangentopoli.
«E vi è la questione morale. Troppe volte chi fece appelli morali fu accusato di moralismo. Ma una politica che non risponda a norme di umana morale, certo non è più politica, poiché non può essere servizio alla polis, alla comunità. L’abuso del denaro pubblico è un fatto gravissimo che froda e deruba il cittadino fedele contribuente ed infrange duramente la fiducia dei cittadini: nessun male maggiore, nessun peggior pericolo, per la democrazia, che l’intreccio torbido fra politica ed affari!
Occorre energia, serenità e perseveranza della magistratura, ma occorre, essenziale in ciascuno di noi, il senso dello Stato».

Carlo Azeglio Ciampi (18 maggio 1999)
Scalfaro sperava in un bis, peraltro auspicato dall’attuale Presidente Sergio Mattarella, ma nel gioco del Quirinale venne preferito Carlo Azeglio Ciampi.
Il suo discorso è improntato, come fu il suo settennato, ai temi del patriottismo e dell’europeismo.
«Avverto il dovere di riaffermare questa esigenza nel giorno solenne in cui rivivono le memorie nazionali e patriottiche, il ricordo degli uomini che hanno fatto la nostra Italia attraverso lotte civili e militari: testimonianze tutte della continuità della nazione. Quella continuità che ha saputo superare e vincere anche la più grave frattura della nostra storia, perché mai è venuto meno, dal Risorgimento a oggi, il senso profondo della patria, che ha poi consentito, nella Repubblica democratica, la piena pacificazione tra tutti gli italiani.
Proprio perché sappiamo profonde, e a tutti comuni, le radici della nostra italianità possiamo investire questo patrimonio nazionale. Investirlo soprattutto in Europa, in quell’Unione che ci ha visti sempre protagonisti nel costruirla. Investirlo nel Mediterraneo, dove i popoli che ci circondano guardano all’Italia come luogo d’incontro naturale e storico delle civiltà che su questo mare si affacciano. Soprattutto da noi, essi attendono l’impulso alla creazione di condizioni di sviluppo nella sicurezza e nella stabilità».

Giorgio Napolitano I (15 maggio 2006)
Che dire, sono gli anni di Berlusconismo e Antiberlusconismo.
«Appare l’esigenza di una seria riflessione sul modo di intendere e di coltivare in un sistema politico bipolare i rapporti tra maggioranza ed opposizione. Non si tratta di tornare indietro rispetto all’evoluzione che la democrazia italiana ha conosciuto grazie allo stimolo e al contributo di forze di diverso orientamento. Ma il fatto che si sia instaurato un clima di pura incomunicabilità, a scapito della ricerca di possibili terreni di impegno comune, deve considerarsi segno di un’ancora insufficiente maturazione nel nostro paese del modello di rapporti politici e istituzionali già consolidatesi nelle altre democrazie occidentali. Ebbene è venuto il tempo della maturità e dell’alternanza anche in Italia».

Giorgio Napolitano II (22 aprile 2013)
Questo ce lo ricordiamo tutti.
«Non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana».
Segue elenco.

Sergio Mattarella (3 febbraio 2015)
Rileggendolo, lo stile è lo stesso dei messaggi di fine anno del suo primo settennato. Cosa proporrà per il secondo?
«L’impegno di tutti deve essere rivolto a superare le difficoltà degli italiani e a realizzare le loro speranze. La lunga crisi, prolungatasi oltre ogni limite, ha inferto ferite al tessuto sociale del nostro Paese e ha messo a dura prova la tenuta del suo sistema produttivo. Ha aumentato le ingiustizie. Ha generato nuove povertà. Ha prodotto emarginazione e solitudine. Le angosce si annidano in tante famiglie per le difficoltà che sottraggono il futuro alle ragazze e ai ragazzi. Il lavoro che manca per tanti giovani, specialmente nel Mezzogiorno, la perdita di occupazione, l’esclusione, le difficoltà che si incontrano nel garantire diritti e servizi sociali fondamentali».

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