24 luglio 1943. Il Gran Consiglio del fascismo vota a favore di un ordine del giorno particolare: restituire alla corona, al parlamento e al governo ogni prerogativa di legge. Al processo di Verona le conseguenze del gesto.
L’antefatto storico
Il 24 luglio del 1943, in una Roma desolata, il regime fascista, quantomeno quello monarchico, stava vivendo le sue ultime ore.
Il Gran Consiglio del fascismo, che non si riuniva da tempo, era stato convocato quel giorno alle ore 17, un orario insolito, visto che normalmente le sedute si tenevano a partire dalle 22.
Il Gran Consiglio del fascismo era, sulla carta, il massimo organo del regime. Vi facevano in effetti parte le più importanti cariche del Regno tra cui il Presidente della Camera, il Presidente del Tribunale speciale per la difesa dello stato, il segretario del P.N.F.
Convocato per la prima volta nel 1922, divenne organo ufficiale solo nel 1928, con la Legge n. 2693, che all’art. 1 stabiliva: “Il Gran Consiglio del Fascismo è l’organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del Regime sorto dalla Rivoluzione dell’ottobre 1922. Esso ha funzioni deliberative nei casi stabiliti dalla legge, e dà, inoltre, parere su ogni altra questione politica, economica o sociale di interesse nazionale, sulla quale sia interrogato dal Capo del Governo”.
La realtà, però, era che non aveva alcun potere decisionale. D’altronde il Duce, per indole, non avrebbe mai delegato decisioni a terzi.
E forse proprio per questa sua indole, non prestò particolari attenzione all’ordine del giorno a firma Dino Grandi nella fatidica seduta del 24 luglio 1943 in cui Mussolini aveva proposto un suo ordine del giorno, relativo ad “aggiornamenti sulla situazione bellica”. Il regime, come l’intero paese, arrivava a quella seduta lacerato. La guerra era diventata insostenibile, e il consenso per il Duce era crollato. Gli entusiasmi erano drasticamente scemati, e il mito del primato della guerra era ormai dimenticato.
L’o.d.g. Grandi intendeva ripristinare tutte le funzioni statali, restituendo alla Corona, al Parlamento ed al Governo ogni prerogativa di legge.
Esistono numerose versioni su come andò quella votazione, così come raccontato poi dallo stesso Grandi e da altri membri del Gran Consiglio come Scorza e Federzoni.
Sta di fatto che alle 2 del mattino, l’ordine del giorno Grandi passò con diciannove voti favorevoli, sette contrari e un astenuto. Coloro che votarono a favore furono: Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti (che però avrebbe ritirato il voto favole il giorno successivo), Ciano, De Bono, de Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Grandi, Marinelli, Pareschi, Rossoni.
Molti di questi, come alcuni di loro dichiararono, trascorsero il resto della notte presso amici fidati, nel timore – poi in realtà rivelatosi infondato – di venire arrestati dalla milizia.
Il resto è storia nota.
Il Duce si presentò nel pomeriggio del 25 dal Re Vittorio Emanuele III, il quale accettò le sue dimissioni e ne ordinò l’arresto appena fuori dal palazzo.
Il Tribunale Speciale
In principio fu il desiderio di vendetta.
Il regime fascista si era servito per quasi tutto il ventennio del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, costituito col R.D. n. 2062 del 1926, competente per tutti i reati commessi contro la “rivoluzione fascista”. Fu il Tribunale che processò e condannò Antonio Gramsci, Sandro Pertini, Umberto Terracini, Altiero Spinelli e centinaia di altri anche meno illustri oppositori.
Il Tribunale speciale cessò di esistere all’indomani del 25 luglio 1943, ma solo qualche mese più tardi Mussolini decise di “ricostituirlo” nel nuovo “Stato” della Repubblica Sociale Italiana. Ancor prima dell’emanazione dell’atto formale, il Decreto Legislativo del Duce n. 794 del 3 dicembre 1943, il governo repubblichino, allo scopo di vendicare quello che fu ritenuto un tradimento in complicità col Re, decretò infatti la rinascita del Tribunale Straordinario Speciale, proprio con lo scopo di giudicare i fatti compiuti il 25 luglio.
Il Tribunale era composto da personalità che avevano in passato dimostrato fedeltà al Duce e alla rivoluzione fascista, il che – come se ce ne fosse bisogno – prova che questo, se vero tribunale potesse considerarsi, era l’esatto contrario di un tribunale imparziale e neutro. Peraltro, oltre a essere un Tribunale straordinario (un abominio giuridico), era anche “speciale”, il che può agevolmente far apprezzare il carattere di farsa dei processi.
I componenti erano stati scelti col decreto del 24 novembre 1943. Il Presidente era l’Avv. Aldo Vecchini, già presidente del Consiglio Nazionale Forense. I restanti componenti erano personalità spesso anche del tutto prive di competenze giuridiche: Celso Riva (operaio, già sansepolcrista), Gen. Renzo Montagna, Prof. Franz Pagliani, Gen. Domenico Mittiga, console della milizia Giovanni Battista Riggio, console Vito Casalinuovo, Avv. Enrico Vezzalini, il seniore Otello Gaddi.
Per sostenere la pubblica accusa inizialmente vennero scelti il Dott. Vincenzo Cersosimo e l’Avv. Andrea Fortunato. Tuttavia Cersosimo, che aveva svolto già in passato la carica di Giudice Istruttore, declinò la nomina, sostenendo la necessità di istituire una vera e propria istruttoria formale, e non sommaria come invece era previsto. A quel punto si optò per assegnargli la carica di Giudice Istruttore, mentre quella di pubblico accusatore restò all’Avv. Fortunato.
L’accusa
L’accusa mossa a chi votò a favore dell’OdG è chiara: tradimento al Duce e al fascismo.
Ma in termini giuridici quale delitto veniva contestato agli indagati? Quale era il capo di imputazione? Secondo il decreto di costituzione sopra citato, il Tribunale speciale straordinario avrebbe seguito le norme del codice di procedura penale e “all’occorrenza” quelle di procedura penale militare.
Il capo di imputazione, esattamente come deve accadere anche oggi, recita gli articoli del codice penale e il fatto.
I reati sono quelli di cui all’art. 241 c.p., nel testo allora vigente: “Chiunque commette un fatto diretto a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l’indipendenza dello Stato, e’ punito con la morte. Alla stessa pena soggiace chiunque commette un fatto diretto a disciogliere l’unità dello Stato, o a distaccare dalla madre Patria una colonia o un altro territorio soggetto, anche temporaneamente alla sua sovranità”, commesso in concorso (art. 110 c.p.), con lo status di militare ex artt. 7 e11 del codice militare di guerra.
Gli imputati
L’elenco degli accusati di tradimento era costituito da coloro che avevano votato l’Odg Grandi, tra cui anche il Cianetti, che, come già detto, aveva successivamente ritirato il proprio voto favorevole. Molti altri sfuggirono all’arresto.
Il processo riguardò quindi solamente sei soggetti, ossia: Marinelli, Cianetti, Pareschi, Gottardi, De Bono, e come noto, Galeazzo Ciano, genero di Mussolini.
L’istruttoria
Il ruolo di giudice istruttore fu affidato al Dott. Cersosimo, il quale interrogò tutti gli indagati dal 14 al 17 dicembre 1943.
Molti di loro si affidarono a memoriali con cui sostanzialmente si difesero ricordando la propria fedeltà al regime (indicando i propri trascorsi, come ad esempio quello di De Bono, già maresciallo d’Italia) e, soprattutto, sostenendo o di non aver ben compreso la valenza dell’OdG o comunque di non aver mai pensato che l’approvazione di quell’atto avrebbe comportato le dimissioni e l’arresto del Duce, del quale tutti si dichiararono fedelissimi seguaci. Viene da alcuni precisato che lo stesso dittatore aveva assunto un atteggiamento “non ostile” all’OdG, motivo per cui optarono per il voto favorevole.
Ecco di seguito riportato in forma sintetica il contenuto di quanto riferito dagli indagati nel corso dell’istruttoria:
Marinelli: sostiene di aver votato l’OdG al solo scopo di sollevare il Duce dal peso del comando delle Forze Armate e chi lo ha convito a votare a favore lo ha fatto tradendo la sua buona fede. Egli fa anche presente di essere quasi completamente sordo e di non aver quindi udito pressoché nulla del dibattito.
Cianetti: anch’egli votò a favore solo per togliere l’incombenza delle Forze Armate a Mussolini convincendosi della bontà di quella scelta sulla base sulle firme apposte da altri camerati di primissimo livello, quali De Bono e Acerbo. Anche lui quindi votò l’OdG nella più totale buona fede, tanto che, resosi conto delle conseguenze, scrisse subito una lettera al Duce revocando il proprio voto.
Pareschi: come gli altri coimputati, non immaginava gli esiti della votazione. Specifica anche un passaggio tecnico meritevole di attenzione: sentì direttamente da Grandi chiamare il documento “mozione”, un tipo di atto che non sarebbe stato non vincolante per il Duce.
Gottardi: nei giorni precedenti alla seduta non ebbe alcun contatto con gli altri membri e la scelta di destituire il Duce da parte del Re andava intesa come un tradimento da parte della Corona.
De Bono: a differenza dagli altri coimputati, si trovava in regime di arresti domiciliari. Definito “il vecchio soldato d’Italia” viene descritto all’atto dell’interrogatorio fortemente provato per l’accaduto e felice che la defunta moglie non potesse assistere a quanto era in corso di causa, altrimenti sarebbe morta dal dolore. Egli riferisce di aver votato l’OdG (anche se non aveva alcuna praticità con questioni di diritto essendo lui uomo di guerra e non politico) nella convinzione che, data la situazione della nazione, il Duce dovesse essere liberato dalla gravosa incombenza delle Forze Armate. Ricorda anche che gli era stata garantita “l’inamovibilità” di Mussolini.
Ciano: sul suo conto è il caso di spendere qualche parola in più.
Fu il primo a essere interrogato. Cersosimo trovò difficoltà ad effettuare l’interrogatorio a causa del diniego dei soldati tedeschi che sorvegliavano Ciano. Il giudice istruttore dovette contattare il Direttore delle carceri ed altri esponenti della RSI, che a loro volta parlamentarono con gli ufficiali tedeschi. Alla fine, l’interrogatorio si fece. Anche Ciano riporta quanto detto dagli altri imputati sulla volontà di affidare al Re la gestione delle Forze Armate senza mai pensare che ciò avrebbe potuto determinare la fine del fascismo monarchico.
Ciò che però più interessa è altro.
Come noto, Ciano aveva sposato Edda Mussolini ed era ritenuto, come oggi diremmo, il delfino del Duce. La carriera di Ciano nelle istituzioni fasciste era stata fulminea e brillante, il che aveva generato odio e invidia da parte di molti. Proprio l’accusa di essere il pupillo del Duce escludeva decisamente, come lui stesso scrisse nel memoriale, una qualsiasi intenzione di spodestarlo. In più, dopo il 25 luglio, i due si erano visti e Ciano aveva ricevuto rassicurazioni da Mussolini.
Il lavoro di Cersosimo non si ferma qui.
Raccolte le dichiarazioni degli indagati, è la volta dei testi dell’accusa. Vengono sentiti tutti i partecipanti alla seduta del Gran Consiglio che votarono contro l’OdG Grandi.
Molti di essi sostennero di non essere stati mai contattati dallo stesso Grandi o da altri prima della seduta e che il loro voto contrario trovava origine dall’impossibilità di giudicare l’operato del Duce.
Il giudice istruttore si sofferma sullo stato d’animo di Mussolini, chiedendo se nel corso della seduta avesse o meno manifestato contrarietà all’OdG; le risposte furono evasive. Solo Giacomo Suardo, presidente del Senato, ed unico astenuto alla votazione, parlò a Cersosimo dell’esistenza di un vero e proprio complotto contro il Duce.
Il processo di Verona
Prima delle sedute ufficiali ci si accorse che le sedie riservate agli imputati erano molto simili a quelle utilizzate dai giudici. Pertanto in fretta e furia furono sostituite da rozze seggiole in legno. Questo basta a rendere l’idea del clima che si respirava all’interno dell’aula.
L’intero processo, dalla fase preliminare alla sentenza dura in tutto appena tre giorni. L’8 gennaio 1944 a Castelvecchio (Verona) inizia il processo contro “i traditori”.
Il Presidente Avv. Vecchini firma la citazione a giudizio per tutti gli imputati (inclusi quelli contumaci).
Dei 27 testi indicati dalle difese, ne viene ammesso solo uno: Amicucci, uno dei tre indicati da Cianetti.
I giorno (8 gennaio)
L’Avv. Perani (difesa Gottardi) solleva una questione preliminare in merito alla competenza giurisdizionale del Tribunale speciale straordinario.
Il difensore espone quanto segue:
Il P.M. replica in modo minaccioso e intimidatorio:
“Da questo banco parte un monito per la difesa: che essa sia all’altezza dell’ora. Non è sollevando questioni pregiudiziali che si aiuta la causa della Patria e della Storia!”.
Il Tribunale si ritira e dopo pochi minuti pronuncia ordinanza di rigetto della questione.
Si va avanti.
Si passa all’esame degli imputati, partendo dal Maresciallo d’Italia De Bono per poi finire con l’imputato più illustre, Galeazzo Ciano. Gli imputati poco aggiungono a quanto riferito nel corso delle “indagini”.
Arriva il momento dei testi dell’accusa.
Si parte da Giacomo Suardo, l’unico astenuto. Sostiene di esser stato d’accordo con Grandi nel ritenere che la conduzione della guerra dovesse vedere il Duce e il re guidare “insieme” l’esercito; tuttavia Suardo non aveva potuto vedere l’OdG perché Grandi si era rifiutato di mostrarglielo.
Arriva il turno di Carlo Scorza, il quale (suscitando le ire di De Bono che lo interrompe) sostiene che nel corso della seduta era stato proposto di fermare le operazioni belliche. Gli altri testi si limitano a confermare anch’essi quanto già riferito a Cersosimo.
II giorno (9 gennaio)
In apertura di udienza viene data lettura dal Presidente del c.d. memoriale Cavallero, il maresciallo che nel 1943 aveva sostenuto di aver sentito di una congiura contro il fascismo in cui sarebbe stato coinvolto Badoglio. Va però detto che il maresciallo si trovava detenuto per ordine dello stesso Badoglio e che il suo comportamento avrebbe potuto essere inteso come un disperato tentativo di amicarsi il successore di Mussolini alla guida del Governo. Sta di fatto che quest’ultimo non credette a quanto scritto e lasciò il memoriale in bella vista sulla scrivania l’8 settembre, in modo che venisse trovato dai tedeschi. Cavallaro, invece, fu trovato con un foro nella nuca. Si parlò di suicidio per “motivi d’onore”, ma i dubbi (o forse le certezze) rimangono.
Dopo la lettura del memoriale, a domanda posta dal Presidente, gli imputati affermano di non saperne nulla.
Si giunge così alla fine del processo, ossia alla requisitoria dell’accusa.
Il P.M, l’Avv. Fortunato, con modi quasi teatrali, narra del complotto che la Corona aveva ordito contro il fascismo attraverso i gerarchi che avevano votato l’OdG Grandi e che, secondo lui, ben consapevoli del funzionamento del sistema istituzionale, non potevano non prevedere l’uscita di scena del Duce come immediata conseguenza del voto.
Ogni difesa che si aggrappasse a una presunta assenza di colpevolezza era pertanto da ritenersi del tutto infondata. Conclude chiedendo per tutti gli imputati la pena di morte.
L’arringa si conclude con le seguenti parole : “Così ho gettato le vostre teste nella Storia: forse anche la mia, purché l’Italia viva!”.
La parola passa alle difese che fin dall’inizio del processo avevano avuto alle loro spalle un gruppo di fascisti con mitra alla mano e fischi e urla da parte della folla presente. D’altronde, il prefetto Cosmin non aveva avuto remore nel dire: “Se è necessario, ci sarà del piombo anche per loro”.
Le difese puntano sulla buona fede degli imputati.
Gli imputati non sapevano che votando l’ordine Grandi avrebbero provocato la fine del fascismo (per il vero nel testo dell’OdG si faceva solo riferimento al passaggio del controllo delle Forze Armate alla Corona) e nessuno di loro aveva tratto vantaggi da quanto accaduto.
Prima di passare la parola al difensore d’ufficio degli imputati latitanti, il Presidente interviene, invitando – nello stupore dei presenti – le difese a non concentrarsi sul fatto in sé, quanto piuttosto sul motivo dell’azione; in altri termini, ci si deve concentrare sull’assenza di malafede.
L’intervento viene accolto da difensori e imputati con grande sollievo. Ciano esclama “credevo di essere fucilato, ora non più!”.
III giorno (10 gennaio)
Ore 8.30, il Presidente chiede “Gli imputati hanno qualcosa da aggiungere?”.
“Null’altro, Signor Presidente”.
Il Tribunale si ritira.
Come in tutti i processi, durante il lungo lasso di tempo nel quale si attende la lettura della sentenza, imputati e difensori vivono in un limbo, magari immaginando di poter captare un qualche segnale favorevole da parte dei giudici o temendo di averne intravisto uno sfavorevole. Come sempre vi è chi si sente già condannato, chi diffonde ottimismo, e chi non dice nulla, magari per scaramanzia.
Ma nella camera di consiglio che sta succedendo?
Dopo la lettura riassuntiva da parte del Presidente degli atti processuali, chiede di poter parlare Montagna. Propone di dividere gli imputati in due categorie: da una parte chi aveva votato l’OdG effettivamente per tradire, dall’altra chi non ne aveva compreso o immaginato le conseguenze.
Vezzalini, evidentemente di altro avviso, coglie lo spunto per proporre di fucilare i primi alla schiena, i secondi al petto.
Ecco i voti:
I primi due, Cianetti e De Bono, vengono “salvati”: 4 per la pena di morte, 5 per la reclusione.
Succede che però Vezzalini (il più intransigente a quanto pare) scatta in piedi e urla “Voi state tradendo il fascismo!”. Ne segue l’immeditato ritiro del voto contro la fucilazione di De Bono da parte del giudice Riggio.
Marinelli: il giudice Pagliari tenta di sollevare la semi-infermità mentale (Marinelli è quasi completamente sordo), ma i voti sono 5 per la fucilazione contro 4 per la reclusione.
Così è per tutti gli altri, tranne che per Ciano che viene condannato alla pena di morte all’unanimità: 9 a 0.
Solo Cianetti si salva.
Ore 13.40, il Tribunale rientra in aula per la lettura del dispositivo:
I condannati sono quindi ricondotti, disperati, nelle carceri.
I loro avvocati, però, sanno che esiste un’ultima carta da giocare: la domanda di grazia, che dovrà essere preparata ed inoltrata il prima possibile.
Si pongono, e agli avvocati capita di continuo, questioni procedurali. Innanzitutto, a chi va trasmessa? Secondo quanto stabilito dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, la domanda di grazia doveva essere inviata alla carica militare di rango maggiore, che, dopo parere favorevole, avrebbe a sua volta trasmesso l’atto direttamente al Duce.
Tutti gli imputati accettano di presentare la domanda di grazia, incluso Ciano, che in un primo momento si era opposto.
Nessuna tra le cariche massime della R.S.I. intende assumersi la responsabilità della ricezione della domanda di grazia. Pavolini, ritenendo che il Duce non dovesse essere coinvolto in prima persona, si rifiuta in maniera categorica e dissuade anche il Ministro di Grazia e Giustizia, Piero Pisenti, che inizialmente si era reso disponibile, ad assumersi quell’onere.
Alla fine la scelta cade sul console Italo Vianini, ufficiale più alto in grado, che in data 11 gennaio alle ore 8.15 fu contattato telefonicamente affinché inoltrasse la domanda di grazia al Duce.
La fucilazione avviene alle ore 9 presso un poligono di tiro.
Piano piano tutti abbandonano il luogo dell’esecuzione. Il prefetto Cosmin uscendo dal luogo della fucilazione viene avvicinato da numerose persone. Gli dicevano: erano “poveri disgraziati”. Non traditori.
Bibliografia:
- Raffaele Juso, IL PROCESSO DI VERONA – UNA TRAGEDIA FASCISTA, Gangemi editore.
- Claude Bertin, IL PROCESSO DI VERONA in I GRANDI PROCESSI DELLA STORIA, Edizioni di Cremille 1972.
- Emilio Gentile, 25 LUGLIO 1943, Editori Laterza 2018.
- Indro Montanelli, IO E IL DUCE, Rizzoli 2018.
- Dino Grandi, LA FINE DEL REGIME, Le Lettere 2016.
- Stefano Canzio, STORIA D’ITALIA – DAL 1926 AL CROLLO DEL FASCISMO, La Pietra 1974.
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