Le opere di Leonardo Sciascia sono molte e tutte giustamente celebrate. La sua scrittura è irresistibile, ma dietro la forza della parola c’è la forza del pensiero, che – ci sia consentito il gioco di parole – forza il lettore a pensare. Si può leggere Sciascia come piacevole evasione, ma se lo si vuole apprezzare si deve essere disposti a fare i conti con il realismo (altri direbbero il pessimismo) che anima e pervade le pagine dei suoi libri.
Prima di diventare noto al grande pubblico – o, si potrebbe dire, prima di essere Sciascia – fu maestro elementare. E, in un certo senso, lo restò sempre, avendo fornito a tanti di noi le conoscenze elementari, e quindi imprescindibili, per approcciarsi al “problema della giustizia”. Il problema cioè, come lo stesso autore annotò, «in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo».
Il “problema della giustizia” è soprattutto il problema del giudicare o, ancora più puntualmente, del paradosso che il giudicare porta con sé: nel senso non solo di sottrarsi all’imperativo che viene dalla Montagna («non giudicare e non sarai giudicato»), ma di dovervisi sottrarre per dolorosa necessità, per non poter fare altrimenti. Parafrasando Jorge Luis Borges, peraltro caro a Sciascia, si potrebbe dire che un giorno meriteremo che non ci sia una giustizia da amministrare, ma fino a quel giorno – che potrebbe non arrivare mai… – si deve riconoscere che esistono diversi modelli di amministrazione della giustizia.
Uno è quello del Presidente Riches (Il Contesto – nella versione cinematografica di Francesco Rosi interpretato da uno sconvolgente, ma infine sconvolto, Max von Sydow), che si pone quale antitesi vivente dell’“idea della giustizia” che accetta i propri limiti e, dunque, la propria fallibilità. L’idea di Riches è quella di un’amministrazione giudiziaria totalizzante e totalitaria, veste formale di una mistica della forza che si regge su “processi” nei quali «la colpa è stata ed è perseguita nel disprezzo più assoluto delle discolpe dei singoli imputati», sicché «che un imputato l’abbia commessa o no, […] non ha […] importanza». Così si spiega la presunzione di Riches, che si spinge a voler “confutare” Voltaire non perché quest’ultimo, nel suo Trattato sulla tolleranza, ha denunciato l’errore giudiziario, la cui esistenza è purtroppo insopprimibile, ma perché ha condannato gli orrori di un sistema che pretende di amministrare la giustizia come se l’errore giudiziario non esistesse.
L’altro modello è quello del “piccolo giudice”, il protagonista di Porte Aperte, il quale di fronte a quella stessa mistica – nella versione securitaria che ne diede il fascismo – è impermeabile alla tentazione della «sentenza sbrigativa ed esemplare», e che fa del trattare «secondo diritto» quanto sottoposto al suo giudizio «il punto d’onore della [propria] vita, dell’onore di vivere». L’atto di eroismo “improbabile” e – si direbbe con il Galileo di Brecht – “sventurato” (perché solo improbabilmente e sventuratamente fare il proprio dovere può soffondersi di eroismo) che il “piccolo giudice” compie è la difesa di un «principio di tale forza, quello contro la pena di morte, che si può essere certi di essere nel giusto anche se si resta soli a sostenerlo».
E, si badi bene, l’obiezione alla pena di morte, alla pretesa dello Stato di farsi dispensatore di morte, è solo il modo estremo di difendere il più ampio principio di un’amministrazione della giustizia “limitata”. Proprio a un’amministrazione di tal fatta rinnova la propria fedeltà il capitano Bellodi (Il giorno della civetta), quando, avvertendo «l’angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi», per un momento vagheggia «un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione, una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali», salvo poi ricordare «le repressioni di Mori, il fascismo», e ritrovare così «la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti».
Nel “problema della giustizia”, si diceva, si involge quello della libertà e della dignità umana, e dunque, in definitiva, del rispetto tra uomo e uomo. Vengono in mente, tra le pagine di Sciascia, quelle dedicate a Caterina Medici (La strega e il capitano), condannata al rogo e per la quale non si trovò «in tutta Milano […] un solo giureconsulto sufficientemente folle da accorrere a quella difesa» (e «sufficientemente folle, diciamo, per dire umano, generoso, illuminato dall’idea del diritto»); a Gian Giacomo Mora (nella nota alla Storia della Colonna infame del Manzoni), il quale fu condotto alla morte dall’accusa di complicità che gli inquisitori strapparono a Gugliemo Piazza non con «la tortura dello spasimo», ma con «quella dell’impunità promessa»; a fra Diego La Matina (Morte dell’Inquisitore), accusato di eresia, probabilmente più politica che religiosa, che fu «uomo che tenne alta la dignità dell’uomo».
L’attenzione – che costituisce un unicum nel nostro panorama culturale, se si mette da parte l’ovvia eccezione di Alessandro Manzoni – verso il “problema della giustizia” rende facile, in una certa misura persino superflua, l’associazione di Sciascia con l’Illuminismo, con la convinzione cioè che «libertà e giustizia sono, insieme, ragione». Eppure, in un’intervista a La Repubblica (10.09.1980), alla domanda se non si sentisse «un illuminista», Sciascia rispose: «no, tutto il contrario».
Lo svolgimento (ma forse dovrebbe dirsi lo scioglimento) di questo sintetico e apparentemente paradossale pensiero si deve ad Alberto Moravia, che, nel ricordo vergato per le colonne del Corriere della Sera all’indomani della scomparsa dello scrittore siciliano, spiegò: in Sciascia, l’essere il «contrario» di un illuminista significava l’essere «un illuminista alla rovescia», giacché un volteriano si muoverebbe «dal mistero alla verità e alla razionalità», laddove «Sciascia andava invece dalla verità e dalla razionalità al mistero». Si trattava, ebbe cura di notare Moravia, di un modo di procedere che gli veniva dal suo essere siciliano, cioè – aggiungiamo noi – dallo scetticismo nonché dal realismo (di nuovo, dal pessimismo) che il siciliano geneticamente e culturalmente, per abito mentale e per abitudine sociale, pratica quotidianamente.
Chissà che, in un’Italia in cui la linea della palma va sempre più a nord, anche questa conversione della sicilianità all’illuminismo (o è vero il contrario?) possa diffondersi sempre di più.
Oggi, fra tutti i giorni, sembra quello più adatto per porsi questa questione. Non è certo che nei libri di Sciascia si riesca a trovare la risposta (di sé stesso egli diceva: «io non sono un indovino, ma uno che dice che due più due fa quattro»): ciò che è certo è che questo non dovrebbe impedirci, oggi fra tutti i giorni, di leggerli e di apprezzarli.
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