Sergio Mattarella è tornato su una questione a lungo dibattuta – ed evidentemente ancora oggetto di dibattito: la rielezione del Presidente della Repubblica. Ecco come la pensavano i suoi predecessori.
Nell’incontro di studio e di commemorazione per i vent’anni dalla scomparsa di Giovanni Leone, tenutosi l’11 novembre 2021 al Quirinale, Sergio Mattarella è intervenuto per l’ennesima volta sul tema della sua possibile rielezione al Quirinale, citando in proposito le volontà dei suoi predecessori Antonio Segni e, per l’appunto, di Giovanni Leone, che avevano tutti auspicato una riforma costituzionale che vietasse un secondo settennato presidenziale.
Al di là del singolo caso e delle aspirazioni di molte forze politiche nel vedere Mattarella ancora al Quirinale, quello che più colpisce è la riemersione di un dibattito che ha offerto spunti interessanti sia in chiave storica e sia in chiave attuale del rapporto che intercorre tra il Colle più alto e la forma di governo parlamentare.
Il messaggio di Segni
Mattarella citava ieri il messaggio alle Camere del 16 settembre 1963 da parte dell’allora Presidente Segni, che nella sua versione ufficiale reca una curiosa intitolazione: “Sul metodo di rinnovo dei giudici della Corte costituzionale e sul mandato del Presidente della Repubblica”. In quel messaggio Segni adoperò una comparazione con l’ordinamento costituzionale statunitense, che dal 1951 con il XXII emendamento alla Costituzione vieta la rielezione presidenziale per un terzo mandato, ritenendo otto anni sufficienti a garantire la massima continuità nell’azione di governo. Segni sottolineò come anche prima dell’emendamento la prassi indicasse la consuetudine di non più di due mandati, ma quello che più colpisce è il parallelismo con l’idea “presidenzialista” che il Presidente USA debba farsi garante e creatore dell’unità, della direzione e della continuità dell’indirizzo politico governativo senza portare la carica a pericolose somiglianze con i regimi monarchici. Segni concluse affermando che i sette anni canonici al Quirinale sarebbero stati sufficienti “a garantire una continuità con l’azione dello Stato”.
Altro tema fu quello dell’eliminazione del “semestre bianco”, visti i timori di possibile paralisi dei poteri di mediazione e di garanzia del Capo dello Stato in caso di stalli istituzionali tra maggioranza parlamentare e governo. Tutti auspici che furono, probabilmente, frutto di una possibile convergenza del sistema italiano con il modello “semi-presidenzialista” francese: ciò spiegherebbe il perché della comparazione con il polo opposto e presidenzialista americano (ipotesi di allineamento con il modello della V Repubblica francese paventata in maniera consistente da Gronchi e sulla quale la dottrina costituzionalistica iniziò ad interrogarsi).
La proposta di Leone
Se la mossa di Segni può essere colta come un tentativo sottotraccia di stimolo verso il Parlamento ad iniziare un percorso di riforme costituzionali molto più di ampio respiro, quella di Leone si rivelò più esplicita nei contenuti e nelle intenzioni: un articolato progetto di riforme costituzionali e non solo che includesse la riforma della giustizia penale e della pubblica amministrazione (il messaggio è del 14 ottobre 1975, nel pieno del periodo degli anni di Piombo e al culmine delle lacerazioni socio-economiche del Paese). In questo auspicio di riforma generale per ricostruire il tessuto economico-sociale, il progetto intendeva razionalizzare più punti della forma di governo, tra cui la possibilità che il Presidente della Repubblica non venisse rieletto. A differenza di Segni, Leone non giustificò l’inserimento e la ripresa del messaggio del 1963, ma lo inserì in un contesto di riforma molto ampio.
La Bicamerale del 1985 e il pensiero di Cossiga e Ciampi
L’idea venne poi ripresa dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, presieduta da Aldo Bozzi, che nel documento del 29 gennaio 1985 riportò come fosse necessario insistere sulla via originaria di Segni dell’introduzione del divieto di rieleggibilità e dell’eliminazione del semestre bianco. Cossiga, nel messaggio alle Camere del 26 giugno 1991 ricordò i lavori della Commissione Bozzi sul punto, ma non rimarcò specificatamente la necessità di provvedere in tal senso.
Interessante anche la presa di posizione di Ciampi. In via ufficiosa e per il tramite del suo Segretariato il 4 maggio 2006 l’allora Presidente rifiutò ogni proposta di rielezione (i due poli di centro destra e centro sinistra avrebbero visto di buon occhio un rinnovo del settennato), adducendo motivazioni simili a quelle espresse da Segni: il rischio di formare una consolidata prassi costituzionale che avrebbe condotto a una eccessiva personalizzazione del ruolo e sfiorare il “mito” del “monarca-repubblicano”.
La rielezione di Giorgio Napolitano
Come ben noto, la storia repubblicana ci ha offerto il caso concreto con la rielezione di Giorgio Napolitano del 20 aprile 2013. Senza tornare sugli eventi della primavera che inaugurò la XVII Legislatura, lo stesso Napolitano lasciò intendere che si trattasse di un eccezionale rottura della regola consuetudinaria della non rielezione. Importante l’argomento per cui il patto per la permanenza al Colle fosse stato sancito prevalentemente sulla base del perseguimento di un percorso di riforme costituzionali ed elettorali (oltre che sulla base all’età anagrafica del Presidente): infatti, le dimissioni di Napolitano intervennero un anno e mezzo dopo durante la stagione delle riforme istituzionali del Governo Renzi. L’idea di rielezione “pro tempore” era stata paventata dall’interessato durante il discorso di insediamento, in cui si rimarcò l’indissolubilità del legame tra la sua permanenza al Colle e il processo di riforme istituzionali. D’altro canto lo stesso Napolitano ebbe modo di esprimersi con disfavore a soluzioni di rielezione presidenziale alla vigilia delle elezioni politiche del 2013 e prima del suo secondo mandato.
La questione del divieto di rieleggibilità del Capo dello Stato si è molto intrecciata sia con le contingenze politiche del tempo e sia con più lungimiranti progetti di revisione costituzionale. Alcuni elementi originari (riferibili al messaggio di Segni del 1963) ritornano, mentre altri sono più ancorabili alle esigenze politico-istituzionali del momento, ma permane il disfavore verso la soluzione del rinnovo del settennato da parte degli inquilini del Quirinale, che invocano direttamente o indirettamente l’intervento del legislatore ex art. 138 Costituzione. Intervento ora più che mai decisivo per la soluzione del nodo gordiano, dato che la consuetudine affermatasi è venuta a mancare con gli eventi del 2013.
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